Bright Star > Jane Campion

Il tocco luminoso dell’amore

Bright Star
regia di Jane Campion (UK-Australia-Francia/2009)
recensione a cura di Leonardo Persia


Bright Star è scritto nell’acqua, come nell’epitaffio di Keats si dice fosse pure inciso il nome del poeta. Acqua come principio femminile, naturalmente. Lo sguardo di Jane Campion è liquido e fluttuante, un battesimo iniziatico che recinge lo spazio sacro dell’amore e sprofonda, con naturalezza, nelle acque profonde della morte e del sangue (alla cui circolazione rimandano la prima materia, il flusso materno).

È una coerente prosecuzione del precedente In the Cut, espresso, al contrario, nello statico e nell’arido monomaniaco, anche fotografico. Anche quello un film sulla poesia, ma urbana e malata, dove lo sguardo desiderante della donna ambiva ad essere spazzato dal machismo, eros confinante di nuovo con la morte.

Morte non lucifera, cioè apportatrice di luce, ma dark star: carne che, nell’atto amoroso, diventa carne sacrificale, da macello. Il diavolo, sicuramente. Tra Bataille, Sade, René Girard e Fassbinder. La protagonista dell’altro film sconfinava nell’inferno del proprio «io» maschilista per ri-approdare a un nuovo «sé» liberato e capovolto. Qui Fanny Brawne (Abbie Cornish) è già immessa in un flusso di ricomprensione dei contrari (vita/morte) che disinnesca da subito ogni luogo comune imprigionante.

I titoli di testa espongono già il concetto. Cucire, ricamare: attività femminile di auto-reclusione, segno distintivo di una condanna sociale al domestico, attributo tradizionale. Nel film diventa una nuova forma di comunicazione, una tessitura zen, opera di collegamento di ciò che è scollegato, poesia perforante e penetrativa, lacerazione trickster dello spirito maligno.

L’incipit indugia su un atto che chiude per aprire, articola per disarticolare, sospeso nell’hard core dei primissimi piani. Ferri e aghi non come sostituto del fallo, ma altro se(n)sso che, nel corso del film, trasmigrerà nell’immagine di mani intrecciate e sensuali più di un amplesso, negli sguardi insistiti di lei su di lui che diventano dissoluzione corporale: irradiazione dello spirito divino. Una Ode to Psyche, un chant d’amour malgrado le pareti. Il ricamo è vitale, ma non totalizzante. In una scena centrale, Fanny ignorerà questa sua attitudine, visto che accanto a lei non c’è l’amore. Allo stesso modo (le scene sono congiunte), non desiste dal sentimento sapendo che esso non risulta economicamente conveniente.

La piccola Tools osserva la sorella maggiore Fanny e ne assorbe il tremore capace di far tremare. Un op-segno trasmigrante, da donna a donna, rovescio dei titoli di Ritratto di signora, all’origine della sconfitta femmina. Dirà con fermezza al libraio saccente che, al di là di scarse vendite e stroncature, sua sorella vuole verificare da sola se il Keats (Ben Whishaw) di Endymion sia idiota o no. Anche in senso dostoevskiano.

È già un corteggiamento di lei nei confronti di lui. Parte attiva che lo ama, perché qui l’uomo è debole come un’eroina da melodramma, consumantesi nella tisi. Ma il film, senza rimuovere la morte, non appare mai funereo o decadente. Come l’amore che rappresenta, pure al diapason, non risulta mai fou. L’estremismo sta nel mantenersi su un tono di normalità che sappiamo, purtroppo, non essere tale. Anche della relazione, tanto chiacchierata nella realtà, non si avvertono echi, se non in una battuta. Ogni sentimento patriarcale è bandito. La madre di Fanny è Kerry Fox, ovvero la Janet Frame di Un angelo alla mia tavola. Per questo non si scivola nella dannazione, nella nevrosi, nel sentimento che scatena follie o interdetti, alibi per non amare davvero. Qui il film spiazza, capovolgendo i luoghi e i ruoli. Lei lo guarda nei suoi gesti femminili: materno quando è al capezzale dell’amato fratello George; vergine nel portare alle guance, e poi baciare, la federa di cuscino che lei ha «composto» per il defunto fratello.

C’è di più: il poeta non ha un soldo, né un mantello. Non è un buon partito, non è da sposare. Andrà a vivere nella periferia dei poveri, mentre la rivoluzione industriale sta cominciando a cambiare il mondo. Emaciato, morente. Pure questo è, per lei, un momento epifanico. Tra Europa ’51 e Jack London. Senza proclami ideologici, tutto interiorizzato in uno sguardo ricamatore. Quello che fa di lui, prima ancora che versifichi, già un poeta. Artista nel suo essere oltre la convenzione. «La tua scrittura è la cosa più bella della mia vita», gli dirà. E la sua scrittura è già tutta nel suo non essere come gli altri. Piccolo, inginocchiato, col capo riverso tra i seni di lei. Il poeta non è un fingitore: il poeta, dirà lui, è l’essere più prosaico che esista, totalmente avvolto nella miseria umana.

Come il celebre Ode to a Nightingale (letto per intero, nei titoli di coda) fa esplodere la bellezza tra il «My heart aches» e il «Drowsy numbness pains» del primo verso, così, da questo cadavere fisico e sociale, la regista sa distillare «A beaker full of the warm South» (bicchiere pieno del caldo Sud), non importa se siamo a nord di Londra. Estate a perdifiato, prati, fiori, farfalle, erbe e siepi, cime degli alberi su cui riposare. Gatti.

Quando i due casti amanti si immobilizzano, divertiti, allo sguardo della piccola Tools che li precede nella passeggiata boschiva, siamo davvero in una nuova wonderland, un luogo fatato, il «Do I wake or sleep? » della poesia keatsiana. Fanny come Fancy, una delle grandi odi del poeta, la fantasia dall’alto compito («high-commission’d»), osservata da Tools ma pure dal fratello Samuel. L’uomo, si spera, che verrà. Che può avere a modello una donna, senza essere omosessuale. Esplosione totale di vitalità, di estensione dell’essere. Mentre tenera si fa la notte, cioè la dipartita, la fine: «easeful Death».

La debolezza è forza, quindi, in Bright Star. E la forza-forza, il maschilismo truce, quello incarnato dall’amico possessivo e invidioso, o forse addirittura gay, di John Keats, cioè John Brown (Paul Schneider) è, sin da subito, «scimmia disgustosa», vigliaccheria irresponsabile, l’anti-poesia. Un impiegato dell’arte, una parodia e un’imitazione (scimmia, appunto) del Poeta. Fanny lo detesta, ma non lo odia. Neppure la Campion. Nessun rancore, nessun sentimento vecchio in questo film che, tra il 1818 e il 1821, disegna uno scenario che, ai nostri occhi stanchi post-moderni, sembra fantascientifico e irraggiungibile.

In una poesia a lei dedicata (To Fanny), Keats parlerà di amore senza inganno, non mascherato, privo di macchia e di supplizii di Tantalo. In una meravigliosa traduzione degli occhi di lei che guardano lui guardare lei, Bright Star celebra, come pochi altri film nella storia del cinema, l’amore come esperienza di conoscenza, atto politico e ristrutturazione dell’esistente. «Il tocco ha memoria», dice Keats nel film. Quello registico di Jane Campion pure.

Leonardo Persia

 




Bright Star

Regia, soggetto, sceneggiatura: Jane Campion
Fotografia: Greig Fraser
Montaggio: Alexandre de Franceschi
Musiche: Mark Bradshaw
Costumi: Janet Patterson
Interpreti: Ben Whishaw (John Keats), Abbie Cornish (Fanny Brawne), Paul Schneider (Charles Armitage Brown), Kerry Fox (Madre di Fanny), Thomas Sangster (Samuel Brawne), Jonathan Aris (Leigh Hunt), Samuel Barnett (Joseph Severn)
Produzione: BBC Films, Screen Australia, UK Film Council, New South Wales Film and Television Office
Rapporto: 1,85:1
Lingua: inglese
Paese: UK, Australia, Francia
Anno: 2009
Durata: 119′

 

 

 

 



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