El ángel exterminador > Luis Buñuel

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Articolo pubblicato su RC numero5 | maggio’08 (pag.22)
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E se l’angelo sterminatore fosse già lì?

di Ciro Monacella

La borghesia, classe di mezzo per eccellenza, laddove non ha agito da puntale adeguatamente alle insofferenze dell’intera società ha dovuto subire e accettare l’azione critica degli artisti. Benito Pérez Galdòs, ad esempio, e Leopoldo Alas detto Clarìn, instaurarono un dialogo le cui voci erano i loro romanzi per scuotere la borghesia spagnola di fine Ottocento, affinché questa si gravasse dell’onere e della responsabilità della crescita della Spagna. Un secolo dopo, Luis Bunuel, spagnolo adottato dal Messico, filma uno dei suoi lavori più emblematici e significativi: “L’angelo sterminatore” (1962), tratto dal lavoro teatrale “Los Naufragos” di Josè Bergamìn.

Dopo una serata a teatro una famiglia dell’alta borghesia (spagnola o messicana) invita a cena alcuni ospiti, ma senza che alcun motivo venga esplicitato la servitù se ne va in tutta fretta, ad eccezione del maggiordomo – che, si sa, del personale è il più adiacente al buon modo borghese. Da quel momento si susseguono stravaganti eventi senza che nessuno dei presenti, almeno inizialmente, ne indaghi ragione. Dopo cena gli invitati si riuniscono nel salone e, ancor più inspiegabilmente, lì si accampano per la notte, e così faranno per i giorni successivi, in una paralisi d’animo che li porterà sull’orlo della disperazione, nel fetore, nell’aria malsana, nell’assenza di vivande.

Il film fagocita lo spettatore usandone gli interrogativi, e ponendolo quindi su un piano elevato rispetto all’apparente e volontaria cecità dei personaggi, tuttavia la complessa tessitura simbolistica non è accompagnata da inequivocabile chiave interpretativa, e la sterilità della domanda, propria dell’attore, si contagia magicamente allo spettatore risucchiandolo nel surreale. A voler decifrare il simbolo si direbbe dell’immobilismo borghese, qui oggetto di amaro scherno più che di caricatura, che del tutto privo di sangue induce gli uomini a intraprendere discussioni completamente estranee alla realtà, azioni senza senso, scollegate dalla più ovvia causa e dal più elementare fine. La borghesia, ammesso che questo siano i manipoli di attori che zoppicano nelle trame logiche sulla scena, è immobile perché sazia, svogliata perché assisa su d’un trono stabile, presunto, vischioso. Il terrore di abbandonare la sala in cui tutti ormai vivono è il terrore di chi non crede che a ciò che vede, che sente, come se il mondo e la realtà si fossero ridotti all’immediatamente sensibile (quell’unica stanza). E i singoli individui si riducono ad un futile bagaglio di esteriorità del tutto prive di coscienza: come non esistessero in quanto tali, in quanto individui. Come gregge. D’altronde siamo nel 1962, e il ribollio che emerse nel ’68 non aveva certamente vincoli di calendario.

Ciò che sblocca è l’interpretazione del momento in cui l’ingranaggio si inceppato. È la recita, è il teatro: i personaggi riproducono fedelmente ciò che avevano fatto la prima sera, dopo cena, prima che l’amorfa paura li bloccasse in quella sala. Ma non c’è sortilegio né catarsi. È semplicemente il potere persuasivo della scena che sblocca la collettività. Tuttavia la sequenza conclusiva – un gruppo di fedeli, fra cui i medesimi borghesi di sopra, resta assieme anche ai preti nella chiesa con la stessa dinamica della precedente paralisi – finisce per insinuare che il disegno di Bunuel non si limita solo alla borghesia. Che inevitabilmente da lì si genera, ma che contagia né più né meno di quanto il film prenda lo spettatore (inspiegabilmente attratto dall’inspiegabile). D’altra parte fuori allo stesso palazzo in cui i borghesi erano a cena s’era già riunita una piccola folla di curiosi a malapena trattenuti dalla polizia, e pur interrogandosi sul mistero nessuno agiva. Allora questo resta: la mancanza di azione. E un buon contorno di conformismo. Tanto che viene da pensare, sapendo l’anticlericalismo di Luis Bunuel, che l’angelo sterminatore sia più che un simbolo religioso sacrificato alla comprensione immediata del pubblico, un simbolo civile completamente figliato dalla classe borghese, ma che, a visione del regista, va a minacciare l’intera società. L’angelo sterminatore è il conformismo. E la mancanza d’azione, l’immobilismo, non sono conseguenze ma coincidono con lo sterminio, poiché è chiaro che la storia dell’essere umano è solo in virtù del movimento. Allora lo sterminio non è quanto promesso, ma quanto già accade.



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