Fuocoammare > Gianfranco Rosi

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Partono dalle coste africane per raggiungere la speranza di una nuova vita. A separare la partenza dall’arrivo c’è un tratto di mare, che sa essere spietato e cinico come solo le onde sanno essere quando decidono di opporsi alla volontà umana.
Arrivano su un lembo di terra, un fazzolettino fatto di scogli e libertà, dove i ragazzini giocano con la fionda e il tempo sembra essersi fermato sulle onde corte delle radio locali che trasmettono le richieste delle anziane signore del posto.

Siamo a Lampedusa, croce e delizia di due interi continenti. Punto d’incontro di un mondo che cambia, muta, naviga, naufraga e prega. Terra bruciata dal sole, dove Verga incontra il futuro incerto e incauto di migliaia di disperati, che arrivano, il cui unico scopo era andarsene da dov’erano, poco importa dove andranno a finire.

Gianfranco Rosi, sorprendente Leone d’oro tre anni fa a Venezia con Sacro Gra, mette a segno un altro colpo eccezionale, che si è perso nel marasma mediatico, tra l’oscar a Di Caprio, le scelte alimentari di Berlusconi e il baraccone degli omicidi nazional popolari che per la loro modalità sembrano diventati folcloristici. Con Fuocoammare il regista italiano si aggiudica l’Orso d’oro, il primo premio della Berlinale che, di fatto, è il più importante festival di cinema politico e impegnato nel mondo. Nel 2012 erano stati i Taviani col bellissimo Cesare deve morire a farci commuovere e inorgoglire grazie a un’operazione cinematografica che tiene alto l’umore e l’onore del cinema italiano impegnato.

Non che la vittoria di un premio decreti per forza la qualità di un film, ma quello di Rosi è un caleidoscopio di emozioni che merita la giusta risonanza in campo internazionale e politico/europeo. Per nulla scostante rispetto allo stile di Sacro Gra, anche Fuocoammare si affida a inquadrature fisse, a lunghi silenzi, indugiando su azioni di normale quotidianità. Si affida alle immagini di un radar che si muove nella notte, una nave della marina militare che solca le acque, il paesaggio brullo dominato da muretti a secco e fichi d’India, mentre un dj accoglie e programma le richieste che le anziane signore gli fanno al telefono.

Il grande e robusto pino marittimo delle prime inquadrature è l’emblema di come scorre il tempo da quelle parti. Un albero che cresce con rami incurvati, che si allungano in base al corso dei venti, ma che è immobile nella sua staticità, ancorato alle sue radici, le stesse del ragazzino che gioca con la fionda e poi accompagna il padre nelle uscite di pesca con la lenza. Un albero che sembra immobile, ma che si muove nel tempo, proprio come i continenti fecero e faranno nel corso della loro storia geologica. Ma ora il movimento è antropologico, storico, e il lavoro di rosi è una presa d’atto.

Fuocoammare è un film liquido, non soltanto per i panorami e le distese d’acqua che popolano le inquadrature della perfetta fotografia dello stesso Rosi, ma anche perché è un film che muove anima e corpo, scuote la coscienza, commuove e sbatte lo spettatore di fronte alla tragedia umana senza filtri ideologici e senza tramiti. Se vogliamo, Fuocoammare eredita gli stessi pregi di Sacro Gra, pregi che portano a una regia assolutamente priva di qualsiasi protagonismo, che affida tutto il decorso della narrazione alla incredibile potenza delle immagini. Rosi abbandona totalmente il concetto di documentario come inchiesta giornalistica, stile che comunque ha fatto la fortuna di film altrettanto importanti, e abbandona anche il veltroniano vizio di frapporre la presenza del regista tra l’immagine e la macchina da presa. Rosi riesce perfettamente a far entrare lo spettatore nelle immagini, fino al punto di farci credere che il medico, che sta eseguendo un’ecografia su una donna nera incinta di due gemelli, stia parlando direttamente a noi.

Ma Rosi non sfonda soltanto la quarta parete sonora. Lo fa anche con quella visiva. E trattandosi di un documentario, trattandosi di immagini colte “qua e là” senza l’impianto schematico di una sceneggiatura di finzione, l’effetto è ancora più devastante. Lo sguardo in camera di un nero, che invece dovrebbe guardare la macchina fotografica per l’identificazione, è lo spartiacque che divide il film in due. Ciò che fino a quel momento era “documento”, testimonianza, ora diventa appello, disperata domanda di aiuto, richiamo. Diventa una richiesta a non limitarsi a prendere atto, ma a costruirsi (e costruire) una coscienza attorno al fenomeno.

C’è da dire che in questi anni siamo stati sommersi da immagini, reportage, testimonianze, ma soprattutto da tanta retorica riguardo alla situazione di Lampedusa. Personalmente, mai come vedendo il lavoro di Rosi mi sono sentito fisicamente a disagio. Lo stile asciutto è fintamente cinico, in realtà Rosi prende a cuore ogni singolo fotogramma. Ne esce uno splendido ritratto di un’isola dove c’è chi pratica la pesca subacquea in apnea senza bombole, dove i ragazzini giocano con la natura brulla mentre le nonne cucinano il sugo di calamari pescati con il metodo della lenza. Tutto questo mentre sullo stesso lembo di terra immerso nel Mediterraneo i migranti muoiono o sopravvivono, e quelli che arrivano a terra ringraziano Dio per essere arrivati, lo stesso Dio che chissà dove stava guardando mentre gli altri affogavano.

A Lampedusa il tempo è immobile. Anzi no, scorre, ma l’isola sembra essere immersa in una condizione di a-temporalità dove la gente del posto esce a pesca con i remi o cucina melanzane ascoltando radio locali che alternano le notizie dei naufragi agli avvisi di interruzione elettrica. Lampedusa sembra essere totalmente indifferente, nella sua dimensione gattopardesca, a tutto ciò che la sta investendo, mentre su di essa migliaia di persone si muovono come alieni-fantasmi, indossando degli assurdi impermeabili-coperte che li fanno sembrare delle enormi uova di Pasqua ambulanti. Lampedusa è quell’enorme pino marino, ricurvo, immobile, attorno al quale il ragazzino gioca nei primi fotogrammi. Ma è solo apparenza, perché come la linfa scorre nel pino, un cuore batte in Lampedusa.

E dal Gattopardo è facile saltare sulla barca dei Malavoglia, perché il tratto stilistico di Rosi, che nei suoi lavori sembra voler fare proprio il concetto di “camera stylo”, è quello zoliano e verghiano del verismo, del ritratto naturalista, delle immagini che ci mostrano una realtà immodificata e immodificabile.
Nemmeno quando il medico racconta la propria esperienza, rivolgendosi al regista-spettatore, sembra volersi rompere l’incantesimo che ci fa dimenticare la presenza di un regista che comunque sceglie, taglia e monta il film, perché la brama di empatia è qui dominante e trascinante verso un bisogno di redenzione e (auto)assoluzione che per lo spettatore non arriverà mai.

Fuocoammare è una vecchia canzone Siciliana che zia Maria richiede a dj Pippo come rito propiziatorio per le battute di pesca del nipote. Ma “fuoco a mare” è anche un modo per descrivere ciò che le navi da guerra scatenavano nell’immaginario dei lampedusani durante la seconda guerra mondiale. Quelle navi che sparavano, bombardavano e seminavano morte nel Mediterraneo oggi sono sostituite da decrepiti barconi, unico tramite per collegare i migranti in fuga dalle coste della Libia con un’illusoria idea di libertà. L’idea che il pericolo sia NEL mare è insita nel gioco di parole del titolo del film, confermando l’idea di una “irreversibile a-temporalità” nella storia della piccola isola.

Ci si commuove col medico, si pensa alla propria nonna mentre quella ripresa da Rosi sistema il letto sotto gli occhi del marito defunto ritratto nella foto. E si sorride, molto, con Samuele, ragazzino che gioca con la fionda, che passa i suoi pomeriggi immerso nella splendida e selvaggia natura lampedusana, che sembra dotato di una tempra da adulto ma che tradisce il suo bisogno di certezze e di sicurezza subissando il padre di domande.

Ma gli apici giungono nei momenti in cui Rosi affida tutto all’onestà dell’immagine. Un rilevamento radar, un contatto radio dove un’imbarcazione di 250 persone chiede aiuto, poi il silenzio. Poi un notiziario dove si annuncia il naufragio di 250 migranti. I soccorsi prestati in mare, quelli prestati a terra, dove i fantasmi-alieni sono perquisiti da uomini della Marina e dai carabinieri. Dove le mascherine dei soccorritori proteggono il loro apparato respiratorio, ma non il loro morale.
Gli apici e le vette di questo splendido documento filmico sono quei momenti in cui nessuno parla, ma a farlo sono i corpi dei feriti e dei morti, ammucchiati, abbandonati nelle stive dei rottami usati per trasportarli, mentre a bordo delle navi da soccorso si cerca di salvare il salvabile, mentre i soccorritori, nelle loro tute bianche, guardano nel vuoto, in un punto imprecisato tra i sacchi dei cadaveri e l’immenso e azzurro mare dove i loro colleghi stanno recuperando altri morti.

Rosi rifiuta totalmente l’uso della camera a mano, non intende assolutamente pedinare i soggetti nel loro movimento, ma si affida all’occhio fermo dell’inquadratura fissa, lasciando trasparire chiaramente il rapporto che intercorre tra spazio e tempo, tra fissità dello sguardo e stravolgimento storico-sociale. Non insegue, ma indugia. Non indaga, ma mostra. E produce un mosaico d’immagini totalmente repellenti al concetto di indifferenza. In qualche modo occorre reagire, confrontarsi col presente, guardare al futuro.

Quello di Rosi è un film che alterna schiaffi e carezze, allo stesso modo in cui contrappone le immagini del mare in burrasca con le bellissime panoramiche di un placido specchio d’acqua. Non v’è nulla che possa addurre accuse di vario titolo, non c’è nulla di ruffiano, di retorico o di accusatorio. C’è solo la tremenda e dolce sequenza di immagini e di situazioni che mostrano il bello della vita e il brutto della morte, che scottano come il sole riesce incredibilmente a fare su pelli già nere, che bruciano come la nafta mischiata all’acqua salata che ustiona la pelle dei disperati.

C’è un che di falsamente liberatorio nei momenti in cui si scuote la testa o si trattengono le lacrime, perché la pietà è un sentimento tanto necessario quanto brutto. Perché a noi tocca il gravoso compito di vedere ciò che è già successo e quindi irreversibile. E in questo Rosi è bravissimo. Ci mostra la quotidianità del piccolo Samuele che deve curare l’occhio sinistro. È un “occhio pigro” e quindi deve farlo lavorare di più per far sì che possa vedere meglio. E la quotidianità di Samuele è contrapposta a quella di un’isola che versa in una situazione causata (anche) dalla miopia di chi dovrebbe provvedere. L’occhio pigro di Samuele è uno specchio, per lo spettatore, di quello che è il grande occhio pigro dell’Europa. Che dovrebbe lavorare di più. Che dovrebbe vedere meglio.

Nicola ‘nimi’ Cargnoni

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Fuocoammare

(Italia/Francia)2016)
Regia, fotografia: Gianfranco Rosi
Produzione: Rémi Burah, Donatella Palermo, Olivier Père, Gianfranco Rosi
Montaggio: Jacopo Quadri
108′



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