Hollywood Babilonia. “The Neon Demon” di Nicolas Winding Refn

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Hollywood Babilonia

«I see a red door and I want it painted black;
No colours anymore, I want them to turn black;
I see the girls walk by dressed in their summer clothes;
I have to turn my head until my darkness goes.»
The Rolling Stones, Paint It Black, 1966

Sicuro è che questo è un film difficile da prendere, da guardare e rivoltare perché in apparenza vuoto e liscio, d’un luminoso buio, inghiottente come un buco nero. Contraddittorio almeno quanto il suo autore, eppure in grado di invischiarsi nella mente e tra i pensieri e di rimanervi aggrovigliato ancora a molti giorni dalla visione. Con Refn hai sempre l’impressione di poter liquidare un suo film in pochi istanti per poi scoprire, spesso pure a malincuore o almeno con enorme sorpresa, che la persistenza del suo cinema ha un che di esoterico.
The Neon Demon è un film estremamente moderno e allo stesso tempo postmoderno, ma è pure un film che torna a questioni più grandi che esistevano prima del cinema, prima dell’immagine cinematografica. È una cerimonia magica, un rito, un rituale profondamente connesso e consonante ai film di Kenneth Anger; tre su tutti: Inauguration of the Pleasure Dome, Invocation of My Demon Brother e Lucifer Rising. Il demone del titolo è infatti un’entità luciferina in grado abbagliare e corrompere l’animo, accecando la ragione con la promessa di un successo che renderà immortali e unici, diversi dalla massa, baciati dal destino.

Fare cinema è sempre un gioco d’azzardo, l’importante è nascondere fino all’ultimo le proprie carte e bluffare. L’azzardo meglio riuscito dell’operazione The Neon Demon è quello di spacciarsi per un film hollywoodiano ad alto budget quando, in realtà, è stato realizzato con una cifra oscillante tra i 6/7 milioni di dollari in sei settimane di riprese. Pochissime le location e ancor meno gli attori, poche le scene davvero complesse da realizzare. Sembra quasi di trovarsi di fronte a un film artigianale – verrebbe da dire amatoriale –, un laccatissimo pseudo-horror b-movie sospeso tra Russ Meyer, Dario Argento e Kenneth Anger à la Mario Bava, che funziona alla stessa maniera della lotta libera osservata da Roland Bathes nelle Mythologies: «La virtù del catch è di essere uno spettacolo eccessivo. […] Certe persone credono che il catch sia uno sport ignobile. Il catch non è uno sport, è uno spettacolo, e non è più ignobile assistere a una rappresentazione catchistica del Dolore che alle sofferenze di Arnolfo o di Andromaca. Certo, esiste un falso catch rappresentato con grandi spese e le apparenze inutili di uno sport regolare; questo non ha nessuna importanza. Il vero catch, detto impropriamente catch dilettantistico, si pratica nelle sale di periferia, dove il pubblico si accorda spontaneamente alla natura spettacolare del combattimento, come fa il pubblico di un cinema dei sobborghi. Quelle stesse persone si indignano poi del fatto che il catch sia uno sport truccato (il che, del resto, dovrebbe in parte liberarlo della sua ignominia). Il pubblico si disinteressa altamente di sapere se l’incontro è o non è truccato, e ha ragione; si abbandona alla prima virtù dello spettacolo, che è quella di abolire ogni movente e conseguenza: non gli importa ciò che vede ma ciò che crede.»

Il metodo Refn si basa sulla ripetizione maniacale dei take, convogliando la propria attenzione e quella della troupe all’interno di ogni singola inquadratura, alla ricerca di un qualche effetto visivo e narrativo che mai fu scritto in sceneggiatura. Amatoriale, dunque, come chi non sa con precisione quel che va cercando ma, istintivamente, e grazie alla riproduzione continua della medesima scena, ci arriva per tentativi. Durante le riprese il regista danese lavora, in questo e nella maggior parte dei suoi film, in ordine cronologico e sequenziale, così da poter sovvertire il canovaccio della sceneggiatura. Un lusso si direbbe, un controsenso assoluto, che si scontra con le logiche industriali del set, eppure proprio attraverso questo metodo di lavoro si dimostra in grado di valorizzare il proprio materiale, lasciando la sceneggiatura aperta a improvvisi cambiamenti e la macchina da presa libera di trovare nuovi elementi di senso. Questo metodo di lavoro, così rischioso e potenzialmente inconcludente, è possibile solo a patto di avere poche location, ancor meno dialoghi e una sceneggiatura non troppo strutturata. Così facendo la macchina cinematografica sarà tenuta in tensione prolungata su di un insieme di elementi quanto più contenuti possibili, generando un caos circoscrivibile e “raddrizzabile” già dalla scena successiva.
Dunque la scarsità di plot e dialoghi e personaggi e location è, prima di tutto, conseguenza di un metodo di lavoro anarchico e rischioso che non piacerà al pubblico e alla critica cinematografica più conservatrici, ma che ha l’innegabile merito di affrontare di petto le problematiche finanziarie del cinema contemporaneo.
Quel che trovo interessante nell’approccio refniano al cinema è che sempre si misura con costi e ricavi (il film è prodotto dalla Space Rocket Nation, casa di produzione fondata nel 2008 da Lene Børglum e Nicolas Winding Refn), e lo fa senza falsi pudori, anzi addirittura ricordandolo a ogni occasione.

Le curatissime immagini di The Neon Demon (DOP a cura della anglo-argentina Natasha Braier), nascono dall’uso della luce combinato alla scelta di utilizzare speciali lenti anamorfiche che permettono di ridurre al minimo i troppo costosi interventi di post-produzione. Lenti che producono un effetto patinato affine al linguaggio pubblicitario, dando vita a un effetto cosmetico in grado di ammorbidire i lati dell’immagine. JDC Cooke Xtal (Crystal) Express anamorphic prime lenses, in breve Crystal Express, questo il nome delle lenti in questione: ovvero uno sviluppo anamorfico messo a punto negli anni ’80 da Joe Dunton della Panavision UK (già collaboratore Kubrick in Eyes Wide Shut) a partire da lenti sferiche Cooke S2 e S3 utilizzate negli anni ’30 e ’40.

La più grande abilità di NWR è quella di economizzare ogni aspetto della macchina cinematografica riuscendo ad estrarne il massimo: sia all’interno della singola inquadratura, sia nell’operazione produttiva complessiva, costruendo giocattoloni effimeri da puro entertainer. Egli ha perfettamente compreso che, per salvaguardare la propria indipendenza artistica, un’Autore contemporaneo interno all’industria deve realizzare film con budget ridotti e fare leva sulla trasformazione del proprio stesso cinema in un brand. Spendere poco, essere cool e incassare più soldi di quelli spesi: questa è la regola aurea del cinema di Refn, introiettata con ferocia dopo il fiasco di Fear X (dal cui dissesto economico uscì con il II e III episodio di Pusher – tutta questa storia è molto ben raccontata, pure vagamente mitizzata, nel bel documentario Gambler, diretto da Phie Ambo). Egli ha perfettamente compreso che l’Autore contemporaneo interno all’industria, distante troppi decenni dall’epoca della politique des, può essere poco più che un brand di consumo. In questo dimostra tutto il proprio disinteresse alla circolazione del suo cinema all’interno del recinto della logica museale della filiera festivaliera, capace di produrre prestigio ma assai pochi spettatori (e denaro).
E allora quelle tre lettere poste in apertura del film, una sopra l’altra leggermente sfalsate appena sotto al titolo, rappresentano un logo e un marchio che genera interesse a scatola chiusa, rappresentando non certo un vezzo ma una manifesta presa di consapevolezza. Non una semplice firma, ma un vero e proprio marchio. E credo sia questo il punto di contatto più forte tra The Neon Demon e il mondo della moda. NWR come D&G, YSL, CK e LV! L’autore è un marchio e la sua opera funziona come l’ultima collezione di una maison, o come arte contemporanea: quotata in borsa e sostenuta da un sistema di gallerie (i festival, in questo caso Cannes) che ne definiscono il valore di mercato.
La vera intuizione dell’ultimo film del regista danese è quella di esplicitare la strada della possibile sopravvivenza del cinema autoriale negli interstizi e con gli stessi mezzi dei prodotti a budget monstre delle mayor che controllano tutta la filiera produttiva e distributiva. E lo fa attraverso l’affermazione di una sua propria autorialità autoriferita e compiaciuta, ma sempre attenta al pubblico, al suo pubblico, che, per (ri)dirla alla Barthes: «Si abbandona alla prima virtù dello spettacolo, che è quella di abolire ogni movente e conseguenza: non gli importa ciò che vede ma ciò che crede.»

Forse mi sbaglierò ma l’operazione The Neon Demon non produrrà eclatanti risultati in termini assoluti di box office, ma andrà unicamente misurata in relazione al suo costo di produzione. Il film non ha certo l’immediatezza endorfinica e l’efficacia drammatica di Drive, è invece assai più simile – nella sua assai poco ricercata pregnanza narrativa – a Only God Forgives, che fu un mezzo fiasco per pubblico e critica. Il budget di Drive furono 15 milioni di dollari, l’incasso complessivo 78. Oltre 5 volte il proprio budget. Credo sia questo l’obiettivo massimo del regista danese, un incasso worldwide di 30 milioni di dollari, un moltiplicatore per 5 del budget di produzione. E l’accordo con Amazon Studios per la distribuzione digitale del film rientra proprio in questa logica di sfruttamento commerciale di un brand. Il cinema d’oggi non può basare la propria sussistenza finanziaria unicamente sulla sala, non fosse altro che questa è, oramai, totalmente prigioniera di logiche industriali planetarie, dentro alle quali il piccolo e l’insolito, il non immediatamente appagante per lo spettatore, non può che rimanerne stritolato (e succede di continuo, senza sosta, in Italia, negli Stati Uniti ma pure in Francia e in ogni altro angolo del globo).

 

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The Neon Demon è un film decisamente didascalico la cui trama si sviluppa blanda, sfilacciata e prevedibile che intende raccontare la fabbrica dei sogni, Hollywood. Per farlo sceglie di seguire la via tracciata dal leggendario Hollywood Babilonia di Kenneth Anger e ripresa in svariati film e romanzi – penso alla Dalia Nera di James Ellroy a Lynch a Cronenberg a Schrader, ma pure già scoperchiata all’inizio degli anni ’50 dal capolavoro wilderiano Sunset Boulevard. Una traccia di sangue e mistero che fuoriesce dall’anima nera e ferale della città degli angeli, fortemente connessa con la sua stessa nascita, con la Babilonia di gesso e cartapesta dell’Intolerance di David Wark Griffith lasciata a marcire al sole californiano dalla quale prende le mosse il viaggio giornalistico/letterario di Anger. Una persistenza sinistra che giunge nel film di Refn attraverso l’architettura della villa Paramour – costruita nel ’23 per l’ereditiera Daisy Canfield e la star del silent cinema Antonio Moreno –, un po’ villa mediterranea, un po’ casa degli orrori dentro alla quale verrà compiuto il sacrificio della giovane protagonista agli istinti più brutali della città degli angeli.

Tenderei dunque a diffidare di quella critica judgemental che attribuisce a Refn appropriazioni indebite e mancanza di originalità, accusandolo di aver copiato Lynch, De Palma o non so che altro… Perché nemmeno i Lynch i De Palma e i non so che altro si erano inventati nulla… Del resto qual è il tema del Faust di Goethe, anno 1808? Limitare la propria riflessione critica a un discorso di questo tipo denuncia, prima di ogni altra cosa, una mancanza di preparazione decisamente avvilente che confina ai miei occhi tali critici più nella posizione del semplice spettatore che mi racconta dei suoi gusti e della sua esperienza in sala, non certo in quella di un esperto che maneggia storia e memoria o, sia mai, cultura. Il punto è che The Neon Demon si inserisce in quel filone cinematografico e letterario che ragiona attorno alla fabbrica dei sogni hollywoodiana ed è inevitabile che tutti quei testi tra loro tendano a dialogare. Ma l’argomento scelto dal regista danese è assai più archetipico e antico di quanto qualsiasi pigrizia mentale possa limitarsi a considerare.
E allora non ci troviamo di fronte a un film sulla moda (altrimenti l’avrebbe girato a New York, Parigi o Milano), ma ad un film sulla mitologia di Hollywood, sulla dream factory e sulla bellezza come archetipo.
Un film sull’irradiarsi su tutto il mondo della mistica del successo e della bellezza e degli esoterici patti con il diavolo che l’individuo giunto nella fabbrica delle stelle deve compiere per ingraziarsi una qualche divinità che gli possa assicurare di emergere dalla massa, di essere scelto tra mille, di coronare quella vampieresca sete di successo che si effonde da LA.

A cosa somiglia? Somiglia a una manciata di film di David Lynch (Mullholland Drive e Inland Empire, ma pure Twin Peaks: Fire Walk with Me e Wild at Heart), David Cronenberg (Maps to the Stars), Brian De Palma (Carrie, Body Double, Femme fatale e The Black Dahlia) e Paul Schrader (Hardcore, Cat People, The Canyons). Richiama alla memoria Russ Meyer: per l’astrattezza tra il ludico e il pornografico della messa in scena del desiderio e delle pulsioni sessuali e per la centralità data all’immagine a discapito di una qualsiasi trama; ricorda in maniera fortissima molto del cinema di Kenneth Anger – già citato esplicitamente in Drive e qui si potrebbe dire evocato nella sua dimensione magica e rituale. The Neon Demon ha rimandi consistenti con il cinema di Dario Argento, Suspiria e Inferno su tutti, e con quello di Mario Bava – Terrore nello spazio condivide una medesima ricerca musicale, una qual certa perversione verso le superfici e una fluttuante oscillazione tra generi differenti… Ed è pure legato al Wizard of Oz di Victor Fleming…
Ma il gioco citazionistico ha, come le bugie, le gambe corte perché The Neon Demon, come del resto ogni film, è in relazione con tutto quello che lo precede. Stanno a zero le chiacchiere proferite con furia iperbolica da una certa quantità di voci. Non ci troviamo di fronte a nulla di copiato, ma nemmeno a nulla di nuovo. Il nuovo non esiste, ogni forma d’espressione e artistica è la mutazione di un percorso linguistico, tutto si trasforma in una logica combinatoria tra linguaggi differenti, tutto si evolve e trasmuta. La critica di cui sopra cosa avrebbe scritto all’uscita del Faust di Goethe? Che plagiò il drammaturgo inglese del XVI secolo Christopher Marlowe?!

The Neon Demon è allora l’ultima creatura di un regista prolifico e irrequieto che porta avanti un suo proprio discorso compiaciuto. Appagante per chi abbia la voglia di sintonizzarcisi, un discorso in grado di svilupparsi sorretto da un’idea produttiva ben definita edificata con l’intento di proteggere libertà espressiva e creatività, alla faccia dei queruli sputasentenze.

A Cannes 2016 il film è stato sonoramente fischiato ma, tra gli applausi unanimi a Ken Loach e i fischi a Refn, la mia attenzione di spettatore e la curiosità di critico si orientano verso il danese, perché quel che divide è assai più interessante di quel che genera unanimità, perché l’Arte si muove sempre fuori dal conformismo dei reazionari.

(Hollywood è il Mago di Oz, tutto il resto è Dorothy.) •

Alessio Galbiati

 

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THE NEON DEMON
Regia: Nicolas Winding Refn • Sceneggiatura: Nicolas Winding Refn, Mary Laws, Polly Stenham da un soggeto di Nicolas Winding Refn • Fotografia: Natasha Braier • Montaggio: Matthew Newman • Musiche: Cliff Martinez • Scenografia: Elliott Hostetter • Costumi: Erin Benach • Casting: Nicole Daniels, Courtney Bright • Set Decoration: Jonathan Amico, Adam Willis • Suono: Eddie Simonsen, Anne Jensen • Line Producer: Carsten Sparwath • Effetti Speciali: Peter Hjorth • Trucco: Erin Ayanian • Acconciature: Shandra Page • Location Scout: Michael Brewer, Ellen Gessert, Marie Healy • Location Manager: Fermin Davalos • Produttori: Lene Børglum, Sidonie Dumas, Vincent Maraval • Produttori esecutivi: Christophe Riandee, Brahim Chiqua, Christopher Woodrow, Michael Bassick, Steven Marshall, Michel Litvak, Gary Michael Walters, Jeffrey Stott, Manuel Chiche, Matthew Read, Victor Ho, Rachel Dik, Thor Sigurjonsson • Coproduttori: K. Blaine Johnston, Elexa Ruth • Interpreti principali: Elle Fanning (Jesse), Karl Glusman (Dean), Jena Malone (Ruby), Bella Heathcote (Gigi), Abbey Lee (Sarah), Christina Hendricks (Roberta Hoffman), Keanu Reeves (Hank) • Produzione: Space Rocket Nation • In collaborazione con: Vendian Entertainment, Bold Films • Distribuzione italiana: Italian International Film, Koch Media • Suono: Dolby Digital, Datasat, SDDS • Rapporto: 2.35 : 1 • Camera: Arri Alexa XT Plus, Cooke Xtal Express Lenses • Negativo: Codex • Processo fotografico: Digital Intermediate 2K (master), J-D-C Scope anamorfico (source) • Formato di proiezione: D-Cinema • Lingua: inglese • Paese: Francia, Danimarca, USA • Anno: 2016 • Durata: 117′

sito ufficiale

 

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NICOLAS WINDING REFN in Rapporto Confidenziale

ART IS AN ACT OF VIOLENCE
Il cinema nietzschiano di Nicolas Winding Refn
a cura di Gabriele Baldaccini

ONLY GOD FORGIVES
a cura di Michele Salvezza

ONLY GOD FORGIVES
a cura di Maurizio Mongiovi

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