Io, io, io… e gli altri: Ennio Flaiano sceneggiatore
di Leonardo Persia
da Rapporto Confidenziale 37
«Se il film dovesse risultare come la sceneggiatura meglio non farlo.
Il film deve tirar fuori tutto quello che qui è sottinteso»
Ennio Flaiano (Melampo)
Generalmente si dice sceneggiatore lo scrittore al servizio di chi sarà poi considerato da tutti, pubblico e critici, il vero autore: il regista. Uno sceneggiatore, geniale oppure no, deve avere l’umiltà di annullarsi nella scrittura registica e nella Weltanschauung del committente, rinunciando così a ogni propria personale idea del e sul mondo. A meno che essa davvero non coincida con quella del direttore d’orchestra, l’Autore unico e divo. Scrivere per Fellini, Antonioni, Rossellini, Emmer, Monicelli, Blasetti, Risi, Lattuada, Zampa, Petri, Ferreri e restare se stesso: Ennio Flaiano. Anche a dispetto del lavoro d’équipe, imprescindibile nel cinema italiano classico. Sceneggiature scritta a quattro, sei, otto, dodici mani, dividendo il lavoro di scrittura con colleghi niente male in quanto a ego e personalità. Per esempio, Francesco Pasinetti, Filippo Sacchi, Alberto Moravia, Mario Soldati, Cesare Zavattini, Suso Cecchi D’Amico, Sergio Amidei, Vitaliano Brancati, Diego Fabbri, Turi Vasile, Ugo Pirro, Steno, Ivo Perilli, Giuseppe Patroni Griffi, Rodolfo Sonego, Age e Scarpelli, Giorgio Bassani, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Pier Paolo Pasolini, Franca Valeri, Pasquale Festa Campanile, Tonino Guerra, Ercole Patti, Ruggero Maccari, Goffredo Parise, Rafael Azcona, Erika Mann…
Come riconoscere in un tale marasma di talenti il segno distintivo di un solo autore, oltretutto non regista? Eppure Tullio Pinelli, collega storico del Flaiano felliniano (da Luci del varietà, 1950, a Giulietta degli spiriti, 1965) dirà, a ragione, che lo scrittore pescarese «ha sempre cercato, e credo riuscendovi bene, di salvare, di preservare la sua qualità di autore autonomo e questo l’ha poi portato ad accettare sempre meno la subordinazione al regista cinematografico (cosa che invece in Italia avviene quasi sempre)». Come spiegare altrimenti le affinità evidentissime tra i singoli frammenti del corpus flaianeo di sceneggiature, dei personaggi che sembrano trans-migrare da un film all’altro, pur nell’abissale diversità di epoche, stili di scrittura, regie, generi cinematografici che contraddistinguono l’opera nel suo complesso? È naturale, e forse scontato, dire che dietro l’intellettuale medio in crisi de La dolce vita (1960) di Fellini ci siano I vitelloni (1953) dello stesso regista riminese, ma meno ovvio rilevare che tali caratteri, comunque tipici del mondo letterario tout-court di Flaiano, siano presenti non solo in film d’autore quali La notte (1961) di Antonioni o Tonio Kroger (1964) di Rolf Thiele (da Thomas Mann, sceneggiato in tandem con la controversa e ribelle figlia Erika), ma anche in pellicole minori o dimenticate come Inviati speciali (1943) di Romolo Marcellini o Roma città libera (1948) di Marcello Pagliero, dove Flaiano recita quasi as himself il ruolo di un questurino già «dolcevitesco».
Di sicuro, La cagna (1972), il suo ultimo film, da un suo soggetto originale, che Flaiano cercò invano di mettere in scena come regista (scontri con il producer Carlo Ponti, che voleva farne un nuovo Vacanze romane, 1953, sempre co-sceneggiato dal nostro) fu un’esperienza terribilmente frustrante, perché il regista Marco Ferreri se ne appropriò totalmente (e lecitamente). Ma altrove, anche e soprattutto in Fellini, sicuramente il regista italiano dal fraseggio meglio riconoscibile e più egotico, il Flaiano touch non venne mai amalgamato dall’altrui disegno poetico. Si pensi alla scena clou de La dolce vita, il bagno nella Fontana di Trevi, con Anitona/Sylvia che invita Marcello Rubini/Mastroianni a seguirla: si trova pari pari già in Tempo di uccidere (1947), primo e unico romanzo di Flaiano, dove un’acquatica e ultra-sexy creatura etiope da una pozza d’acqua invita alla salvezza un ufficiale italiano fascista con le stesse oscillazioni esistenziali non solo del giornalista vitellone felliniano, ma pure di alcuni personaggi emmeriani: per esempio, i tifosi pre-ultrà di Parigi è sempre Parigi (1951) o il medico specializzando (Gabriele Ferzetti) del bellissimo Camilla (1954). Pure il Totò esistenzialista di Dov’è la libertà? (1953), conte philosophique rosselliniano, e l’altro Marcello (Peter Baldwin) del pattiano Un amore a Roma (1960) di Dino Risi, sembrano consistere in variazioni sul tema flaianeo del decentramento comunicativo.
Il fatto è che Flaiano seppe comprendere benissimo il senso modernissimo del suo lavoro di sceneggiatore, anticipando la casuale progettualità del post-moderno. Decreazione e decostruzione della propria identità, nella concentrazione di una dispersione totale che lo portava a ritrovarsi nel perdersi, tipo jazz o come nel prezioso «taccuino di viaggio» televisivo di Oceano Canada (1972). È come se, mentre scrivesse, analizzasse da critico e saggista, l’enunciato narrativo altrui (e poi proprio). Ogni suo testo diventa perciò un meta-testo di tale determinata indeterminatezza che, in stile Greimas, ogni débrayage (uscita dal sé), anche il più radicale, finisce per coincidere con un risoluto embrayage (ritorno all’io). Il (non) tempo della crisi (sociale, non economica), espresso attraverso la massima discontinua apertura del significante/significato, farà scintille ne La dolce vita, in 8 ½ (1963), in parte anche ne La notte, perché Fellini e Antonioni hanno la grandezza di uno stile universale (benché, curiosamente, intimista e autobiografico), ma è ugualmente portato a compimento, sotto altre forme, meno avant-garde, più pop, certo in sintonia con i registi rispettivi, ne La vergine moderna (1954) di Marcello Pagliero o ne L’arte di arrangiarsi (1955) di Luigi Zampa (entrambi su arrivismo e carrierismo a-temporale della gioventù pre-boom che preparano, come nel non-finale de La dolce vita, l’approdo del mostro Berlusconi sulla spiaggia d’Italia).
L’identità forte si disfa in un gioco di ruoli magnificamente democratico, riflesso dello sceneggiatore disciolto nel regista o viceversa, ed ecco i personaggi di Guardie e ladri (1951) e di Totò e Carolina (1953-55), con le rispettive storie di dissoluzione (e dissolvenza) di una guardia in un ladro e di un celerino in una ragazza madre. Due dei migliori film di Totò, ovviamente discussi, disprezzati, censurati dall’Italia (non) democratica e (non) cristiana che disprezzava ieri, come oggi, trans-cultura e trans-sessualità, quel meraviglioso senso di fair play mutante, certo non omologante, changing same (cfr. Amiri Baraka e Paul Gilroy), essenziale per vivere, scrivere (e ribellarsi) bene. «Quello dello sceneggiatore non è una professione ma uno stato transitorio».
E di questa moderna transitorietà, di cui, come sempre, il Potere saprà assorbirne l’eversività per restituirne al demos il suo seducente lato dark e repressivo, il profeta Flaiano saprà cogliere, come in una neo-dialettica dell’illuminismo, gli atroci (s)viluppi a venire. Sotto la sua penna, con largo anticipo, le prigioni senza sbarre (Dov’è la libertà?), la tirannia tecnologica (Calabuig, 1955), i nuovi untori (Terrore sulla città, 1956), il crimine istituzionalizzato (La ballata del boia, 1964; La decima vittima, 1965; I protagonisti, 1968), l’egoismo trionfante (Io, io, io… e gli altri, 1966), il razzismo post-moderno (Red, 1970), il sesso castrante piuttosto che liberatorio (La cagna), i consumi surreali (Un ettaro di cielo, 1958) e la società dello spettacolo (La primadonna, 1943; Lo sceicco bianco, 1952) hanno già un pungente quanto ahimè inutile analogon sullo schermo. ▪
Leonardo Persia
ENNIO FLAIANO SCENEGGIATORE
• Pastor Angelicus | 1942
• Vivere ancora | 1945
• L’abito nero da sposa | 1945
• La freccia nel fianco | 1945
• Mio figlio professore | 1946
• Roma città libera | 1946
• Fuga in Francia | 1948
• Luci del varietà | 1950
• La cintura di castità | 1950
• Guardie e ladri | 1951
• Parigi è sempre Parigi | 1951
• Canzoni, canzoni, canzoni | 1953
• Fanciulle di lusso | 1953
• Il mondo le condanna | 1953
• Riscatto | 1953
• Villa Borghese | 1953
• I vitelloni | 1953
• Destini di donne | 1954
• Dov’è la libertà…? | 1954
• La romana | 1954
• Tempi nostri | 1954
• Vergine moderna | 1954
• Vestire gli ignudi | 1954
• Camilla | 1954
• La donna del fiume | 1954
• Peccato che sia una canaglia | 1954
• Totò e Carolina | 1954
• Il bidone | 1955
• Continente perduto | 1955
• Il segno di Venere | 1955
• La fortuna di essere donna | 1955
• Calabuch [Calabuig] | 1956
• Terrore sulla città | 1956
• Le notti di Cabiria | 1957
• Un ettaro di cielo | 1958
• Fortunella | 1958
• Un amore a Roma | 1960
• La dolce vita | 1960
• Fantasmi a Roma | 1961
• La notte | 1961
• Hong Kong, un addio | 1962
• 8 ½ | 1963
• La decima vittima | 1965
• Giulietta degli spiriti | 1965
• Una moglie americana | 1965
• Le plus vieux métier du monde | 1967
• Vivi o preferibilmente morti | 1969
• La cagna | 1972
• Un peu de soleil dans l’eau froide | 1972
• L’inchiesta | 1986
• L’inchiesta: Anno Domini XXXIII | 2007