I premi vengono e vanno,
personalmente sono altre le cose di cui mi preoccupo.
Intervista a CORNELIU PORUMBOIU
Corneliu Porumboiu (Vaslui, Romania, 14 settembre 1975) è un cineasta rumeno. Dopo essersi trasferito a Bucarest per frequentare la scuola di cinema, realizza tre cortometraggi prima di debuttare nel lungometraggio con A fost sau n-a fost? (A est di Bucarest, 2006), che gli vale la Caméra d’or a Cannes. Il suo secondo lungometraggio, Politist, adjectiv (2009), viene premiato sempre a Cannes nella sezione Un certain regard. Ottiene anche numerosi ricoscimenti ai Gropos, il premio cinematografico rumeno (migliore film, migliore regia, migliore interpretazione a Dragos Bucur, migliore attore non protagonista a Vlad Ivanov). Când se lasa seara peste Bucuresti sau metabolism è il suo terzo lungometraggio. Sua la sceneggiatura per La limita de jos a cerului di Igor Cobileanski.
Roberto Rippa: Ho scoperto che la prima parte del titolo del tuo film, Când se lasa seara peste Bucuresti sau metabolism, proviene da una canzone, “Cristina”, di Maria Răducanu. Sono curioso di sapere il perché di questa scelta.
Corneliu Porumboiu: È una canzone che evoca il sapore di Bucarest. È una canzone popolare dalle sonorità arabeggianti ma lei, che è una cantante jazz, l’ha trasformata. Amo molto questa canzone proprio per come mi evoca il sapore di Bucarest in modo quasi cinematografico. E poi nel titolo c’è l’altro termine – metabolismo – un termine medico. C’è una sorta di contraddizione tra i due termini che si lega bene al mio film e alla natura del cinema.
RR: Mi interessa sapere qual è stato il punto di partenza a livello di ispirazione per questo film.
CP: Stavo lavorando a un’altra sceneggiatura su un regista e ne ho scritta anche un’altra dopo. Quindi non c’era nulla di preciso. Ho scritto 8 o 9 versioni di questa sceneggiatura. Conosco un regista che ha iniziato un film 10 anni fa e non lo ha mai finito per una questione di soldi. A un certo punto mi sarebbe piaciuto farne una sorta di “making of” – perché girava di tanto in tanto – è una cosa che mi è rimasta in mente. Non so… Forse riguarda anche i cambiamento così veloci in atto nel cinema, con il digitale, ecc…
RR: Sembra che questi cambiamenti ti piacciano perché ti lasciano più spazio, più libertà. Anche nel girare scene più lunghe.
CP: Semplifica, in effetti. È un grosso cambiamento.
RR: Pensi che questo film possa rappresentare un punto di svolta nel tuo cinema?
CP: Forse, però non lo so ora. Mi resta difficile pensarci in questo momento. Però mi piace che le cose cambino.
RR: C’è una dichiarazione molto forte all’inizio del film, quando si parla proprio di questi cambiamenti rapidi, di scomparsa o mutamento del cinema per come lo conosciamo. Trovo che nel tuo cinema sia sempre presente una collisione tra due cose: in A fost sau n-a fost? (A Est di Bucarest, 2006) c’è lo scontro tra passato e presente, in Politist, adjectiv quello tra il senso del dovere di un agente di polizia e le sue proprie convinzioni. Qui, invece, questo conflitto appare ancora più complesso perché da una parte si presenta con la paura del protagonista di essere malato contrapposta al set del film, dove lui ha tutto sotto controllo, dove nulla accade senza che lui lo abbia deciso. Il tuo protagonista appare quindi stretto tra questi due aspetti: il potere controllare tutto sul set e l’essere in balia di una cosa che non può controllare nella vita privata.
CP: Credo che il mio cinema nasca da una sorta di sofismo, è un dualismo che conosco: sono stato formato attraverso la struttura, ho i miei modelli, come Antonioni e altri. Allo stesso tempo, però, tengo a mantenere una sorta di ingenuità dello sguardo. Si tratta del desidero di vedere alla vita, e registrarla, con un occhio candido. Quindi sì, è un contrasto tra due direzioni. Credo che il mio cinema nasca da questo tipo di sofismo: cercare qualcosa che sia reale, genuino, e nel contempo lavorare sulla struttura. Credo che questo film sia il frutto di questo contrasto.
RR: Ho anche letto che la legge per la richiesta di finanziamento per il cinema in Romania è cambiata e che ora è necessario essere molto dettagliati nella presentazione della sceneggiatura.
CP: È vero e penso che questo film riguardi anche questo aspetto, almeno in parte. Quando frequentavo la scuola, ricordo che il nostro professore ci diceva di cronometrare le sequenze. Al primo o al secondo anno, ero a casa mia e provavo a recitare le battute immaginando i movimenti cronometrando tutto. Mi chiedevo perché avessi scelto di realizzare sequenze lunghe e penso che avesse a che fare con una questione economica. Riguarda gli strumenti, il modo concreto con cui realizzi una scena. Credo di avere messo in discussione anche il metodo con cui sono stato formato a fare cinema con questo film. Quando ho realizzato i miei corti, il mio film di diploma che durava 20 minuti, avevo pellicola per 40 minuti. Lo avevo girato nella mia città natale e ci siamo ritrovati senza più pellicola. Realizzavo in media due riprese per ogni scena, quindi di alcune mi ritrovavo a girarne tre o quattro e di altre una sola.
Così, quando sono rimasto senza pellicola, ho chiamato Bucarest alle 5 del mattino per chiedere un po’ di pellicola a un tizio che lavorava per un film americano e che ne accantonava un po’ (ride).
RR: Tu sembri accettare le sfide, non sembri averne paura.
CP: No, non ho paura. Credo che accettare le sfide sia uno degli scopi del fare cinema.
RR: Tornando alla scrittura: quando hai deciso di realizzare quest’ultimo film, qual è stato l’approccio alla sceneggiatura?
CP: Come dicevo prima, ogni volta sono preoccupato dalla struttura e allo stesso tempo ne ho bisogno. Di solito, ho sempre in chiaro nella mente il primo atto del film e ci ritorno costantemente per costruire i personaggi. Quindi, ogni volta torno al primo atto più volte e lo riscrivo. Da questo punto, lascio che siano i personaggi a guidarmi nella storia.
RR: So che sei solito provare più volte le scene. Ti capita di riscrivere parti del film durante le prove?
CP: Si, cambio qualcosa nel corso delle prove. In questo film, abbiamo inserito la scena del produttore. Ho anche adattato alcune cose sugli attori.
RR: Quindi sei vicino ai tuoi attori, non sei un regista impositivo…
CP: Talvolta sono come il regista di Când se lasa seara peste Bucuresti sau metabolism però sono consapevole che sono gli attori a fare il film e quindi li devi seguire. È una relazione complessa: ti guidano nella storia ma allo stesso tempo devi guidarli.
RR: Nel film, ci sono diverse scene che ho trovato molto divertenti: quella in cui il regista istruisce l’attrice su come deve lavarsi sotto la doccia, per esempio, molto precisa nel descrivere cosa accade su un set prima che la cinepresa sia accesa. Un’altra è quella in cui i due protagonisti sono a cena e parlano di Monica Vitti. L’attrice non sa chi sia e nemmeno conosce Antonioni. Ho riso molto perché di recente siamo entrati in contatto con un’attrice che non sa chi sia Vittorio De Sica. Ho pensato che allora è possibile fare cinema senza conoscerne la Storia. È questo ciò che intendevi dire con quella scena?
CP: Si, quella scena nasce da un’altra discussione, ho l’impressione che lì la protagonista risponda così per troncare il discorso sulla gelosia. È un film sul cinema e sulle sue radici. Per molte persone, il cinema inizia con Titanic di Cameron. Rido perché tempo fa ero a Roma e sono stato invitato a une festa della Fox che celebrava il suo film più venduto in DVD. Era Frankenstein Junior di Mel Brooks, che non avevo mai visto. Sono stato invitato a dire qualcosa ed è stato buffo perché sono salito su palco e, ridendo, ho spiegato di essermi formato sul cinema italiano e che non capivo come un film americano potesse essere il più popolare in Italia. È stato un po’ imbarazzante per loro. Sono cresciuto con Fellini, Rossellini, De Sica, Antonioni…
RR: E Blow Up è uno tra i tuoi film preferiti…
CP: Si! Ha una tecnica che credo sia la stessa che uso per i miei film. Lo amo per molti motivi.
RR: Anche tu sembri concentrarti su un dettaglio ma in realtà lo usi per mostrare il quadro completo.
CP: Si, infatti.
RR: A proposito di passato, ho letto che da adolescente eri interessato solo ai film sui ninja e che hai iniziato a interessarti davvero di cinema solo intorno ai vent’anni, frequentando la Cineteca.
CP: Si, è vero. Avevo un cugino a Bucarest. Per me era una sorta di guida. Ero un ragazzo di provincia e mi ero trasferito a Bucarest per studiare. Un giorno mi ha portato in Cineteca a vedere La dolce vita. Da quel momento, ho iniziato ad andarci da solo. Prima ero tutto ninja, Bruce Lee e commedie americane.
RR: È quindi in quel momento che hai deciso di lavorare nel cinema?
CP: Si, mi era piaciuto molto. Certo, non mi sentivo bene nei miei studi di management. La Cineteca era anche un rifugio per me, un luogo di fuga. Andavo più lì che a scuola.
RR: È stata la tua vera scuola in quel momento…
CP: Oh si (ride).
RR: Torniamo al 2006, a A fost sau n-a fost?. C’è una cosa che mi incuriosisce: cosa ti ha spinto a tornare alla caduta di Ceauşescu 17 anni dopo che era avvenuta?
CP: Avevo visto un programma televisivo che ne parlava e mi è rimasto impresso. Era il 1999. È stato quello il punto di partenza. Quel bisogno di sentirsi eroi, di fare parte della storia…
Ero rimasto colpito da quei tre personaggi.
RR: Era il tuo primo lungometraggio e lo hai scritto interamente da solo.
CP: L’ho scritto in un mese. È come se lo avessi vomitato (ride). L’avevo in testa da talmente tanto tempo da uscire di getto. Scherzo sempre quando dico di averlo praticamente vomitato.
RR: Nel film c’è un potente senso dell’umorismo, come del resto in tutte le tue opere. Si tratta di un umorismo peculiare che però è stato capito in tutta Europa, visto il successo del film. Questa è una domanda che ho posto ad altri registi tuoi connazionali, perché c’è un umorismo davvero diverso ad accomunarvi. Da dove viene, secondo te?
CP: Non lo so, penso sia una questione culturale. È asciutto, assurdo e surreale. Viene dalla nostra cultura.
RR: E aiuta a rendere più realistiche le storie. È qualcosa a cui pensi quando scrivi?
CP: No, non mi capita mai di pensare all’umorismo. È una cosa naturale, non ci penso mai.
RR: Hai dichiarato che non esiste una verità assoluta nella Storia. Mi spieghi questa affermazione in rapporto al tuo cinema?
CP: Penso ohe ognuno di noi mistifichi a suo modo la Storia. Per quanto tentiamo di essere obiettivi, abbiamo sempre la nostra visione personale, il nostro punto di vista.
RR: Con il tuo primo lungometraggio hai vinto la Caméra d’or a Cannes. Ricordi qual è stata la tua reazione allora?
CP: È stato grandioso. Era la prima del film e avevo molta paura. Il premio ha aiutato molto il film e la mia carriera. Ho capito in quell’occasione il meccanismo. Perché quello dei festival è un sistema. I premi vengono e vanno, personalmente sono altre le cose di cui mi preoccupo.
RR: Te l’ho chiesto perché due anni fa e poi ancora un paio di mesi fa Adrian Sitaru mi ha spiegato che i Rumeni non vanno a vedere i film rumeni. Accade quasi ovunque, almeno in Europa (escludendo la Francia). Poi però ho letto che i tuoi film sono stati dei successi in Romania…
CP: Non è così. Il primo ha avuto 10’000 entrate, ma allora le quote per il cinema americano erano inferiori, il secondo meno. In Romania non sono famoso per i miei premi bensì per essere il figlio di un famoso arbitro di calcio (ride).
RR: Tutti i tuoi film sono stati prodotti da 42 km Films, la casa di produzione che hai fondato con Marcela Ursu. Immagino che sia una scelta per garantirsi totale libertà, ma è difficile auto prodursi?
CP: Si, perché il mio primo film dopo il diploma l’ho realizzato con un produttore ed è stata un’esperienza disastrosa. È proprio allora che ho deciso di avere una mia casa di produzione. Ora sono totalmente libero e mi piace!
RR: Com’è stato trovare finanziamenti per questo film attraverso la tua produzione?
CP: Per questo non è stato facile ma vedremo in futuro. Per gli altri di più. Ad oggi è andata comunque bene. Il mercato cambia molto in fretta, per cui vedremo.
RR: Ho visto che hai iniziato a produrre film altrui…
CP: Ci provo. Al momento se ne occupa Marcela perché io ho i miei progetti. Stiamo tentando di produrre due nuovi registi. Non essendoci soldi dall’Ufficio rumeno per il cinema, stiamo aspettando.
RR: Torniamo a Politist, adjectiv: qual è stata l’ispirazione per il per personaggio principale, quello del poliziotto? Appare così realistico…
CP: Un mio amico.
RR: Quindi c’è una persona reale dietro al personaggio.
CP: Si, un amico poliziotto che si è trovato in quella stessa situazione.
RR: Il film parte dalla sua vicenda personale ma finisce con il dire molto del tuo Paese. Era una scelta sin dall’inizio o è una conseguenza naturale della storia? Penso soprattutto alla burocrazia.
CP: Sin dall’inizio pensavo a quel sistema di stampo kafkiano. Lo Stato è come una grande macchina burocratica, e questo ovunque. Ed è difficile ribellarvisi, a un certo punto sarai costretto a cedere e accettarne le regole.
RR: Il film ha pochissimi dialoghi. Anzi, il dialogo è quasi totalmente assente, però rimane determinante nel mostrare come posso essere usato come un’arma, uno strumento di potere. Lo si nota bene quando è il capo a parlare. Cosa puoi dirmi di questo aspetto, del potere della parola?
CP: È così. È una forma di potere, una mancanza di concetto, se vuoi. È usato per esercitare un controllo.
RR: E la scelta di non avere molto dialogo nel film serve a enfatizzare quello che c’è, dandogli più potere?
CP: È una cosa cui non ho pensato. Quando pensavo a come lavorano i poliziotti, che a maggior parte del tempo la trascorrono in attesa, ero più preoccupato dal mio personaggio. È un personaggio che ha un suo pensiero, che cerca se stesso nel mondo, ma che prova anche piacere nella sua “caccia”. Quindi ero più concentrato sul personaggio, non era qualcosa cui avessi pensato sin dall’inizio.
RR: La scena finale, quella con il dizionario, è così potente! Quando ho visto il film per la prima volta, mi sono chiesto se potesse essere stata il punto di partenza per te.
CP: No. Pensa che l’ho scritta all’ultimo momento.
RR: Come hai lavorato con Dragos Bucur, l’attore protagonista?
CP: È un ottimo attore e abbiamo lavorato molto bene. Ho sempre bisogno di ottimi attori per i miei film. Poi parlo a lungo con loro, anche del linguaggio corporeo, e si parte da lì. Il fatto che siamo amici, perché ci conosciamo da lungo tempo, ha reso le cose più semplici.
RR: Gli attori dei tuoi film, in effetti, sono sempre ottimi. Lo sarebbero a prescindere o è il lavorare con il tuo metodo che tira fuori il loro meglio?
CP: Non so. Io passo molto tempo con loro e questo può essere anche difficile. Cerco di parlare molto con loro, dare loro tutto ciò che serve per costruire un personaggio.
Alessio Galbiati: Il tuo film è molto concettuale, quasi un Manifesto. Sembra voler dire che il cinema digitale e quello analogico non sono la stessa cosa. Però nel film l’unica scena reale è quella della gastroscopia, che è in digitale. Qual è la tua visione su questi aspetti?
CP: Il digitale è nuovo. Nella scena capisci esattamente cosa sta accadendo. Quindi non so…non ho una risposta precisa. È tutto un punto di vista. Però credo che il digitale abbia portato qualcosa di nuovo. In un certo senso, stavo dubitando del mio metodo di fare cinema.
Andrea Inzerillo: Vedendo il film, ho pensato spesso a Nodo alla gola di Hitchcock e anche a Copia conforme di Kiarostami. Mi chiedevo cosa sia la cinefilia per un giovane regista di oggi. Il tuo film è pieno di cinema.
CP: Ho pensato a Le mépris (Il disprezzo, 1963) di Godard. Il nostro sguardo si forma sui registi ma nel contempo non ho mai pensato a qualcosa di specifico.
Locarno, 10 agosto 2013