Le meraviglie > Alice Rohrwacher

Il coraggio delle meraviglie
a cura di Alessio Galbiati

 

«La natura ama nascondersi»
– Eraclito

 

Disattendere. Lasciare per strada aspettative e preconcetti, scivolare oltre le ovvietà e l’affresco bucolico, oltre la natura più scontata e buonista, al di là del cinema furbo, delle inquadrature ammiccanti, oltre la facile bellezza delle grandi bellezze. Disseminare segni e frustrare ogni emozione. È un viaggio sorprendente intrapreso per vie traverse quello scritto e diretto da Alice Rohrwacher. Un film personale che trae spunto dalla propria autobiografia e vive nei luoghi della sua stessa esistenza, una terra – tra Toscana, Umbria e Lazio – osservata nella sua mutazione di un ventennio, cristallizzata su pellicola 35mm in un imprecisato anno dei ’90. Non c’è una storia, pur essendoci una trama che dilatata si compone in una afosa estate, ma ci sono personaggi da osservare a distanza ravvicinata con un terzo occhio cinematografico che somiglia tanto a quello della memoria (personale). Diceva Truffaut, «L’adolescenza lascia un buon ricordo solo agli adulti che hanno una pessima memoria». Un occhio che è sguardo, che è cinema, ben sintetizzato da una mirabile sequenza capace di cogliere la polvere che a mezz’aria si solleva al passaggio di un auto. Le meraviglie non è un film semplice da accogliere e accettare, è infatti duro e spigoloso, a tratti anche respingente nella sua insistita frustrazione di ogni aspettativa e riflesso pavloviano di spettatori (e ancor più di critici) famelici di facili usa e getta preconfezionati e riconoscibili, rifugge – come certo cinema non allineato/underground dei decenni passati – le scene che funzionano con esattezza quasi matematica e sceneggiature calibrate come ordigni che provocano a tavolino il riso o il pianto. Il gusto di questo film, tutt’altro che mieloso nonostante sia il miele il vero collante che lega i protagonisti tra loro (il miele è come l’amore e come la vita), sta nella distanza ravvicinata dalla quale si osserva, dai movimenti di macchina, dal suono, dalla luce e dalla polvere. Le emozioni giungono come un’eco, non deflagrano dalle immagini, ma dal lavorìo di queste con la nostra stessa memoria personale. Il gusto de Le meraviglie sta nella matericità della vita, nella sua durezza fatta di fatica, sudore, odori, parole, silenzi e sogni a occhi aperti – del resto «Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni». Sogni da Sceicco bianco abitato da un’eterea fata televisiva (Monica Bellucci) per la primogenita Gelsomina; utopie nichiliste di isolamento da un mondo corrotto e perduto per il padre Wolfgang. L’amore non ha parole, si compone unicamente di segni, ed è solo attraverso questa stretta cruna dell’ago che possiamo comprendere come un cammello sia la prova tangibile che l’amore che ci lega alle persone che amiamo sia qualcosa di tragicamente struggente nella sua inesplicabile e goffa bellezza. Un film sul perdono e sulla comprensione, un film sullo strano funzionamento dell’amore.

Le meraviglie disinnesca ogni emozione: le imbastisce, le prepara, ne assembla le singole parti ma poi disattende, scivola oltre senza esprime un giudizio, senza concludere, senza spiegare. È un film che non accompagna lo spettatore per mano, ma lo caccia dentro a una situazione, in un luogo e in un tempo definiti, per poi lasciarlo solo a osservare l’illusione che ha vissuto (che è il film e il cinema stesso); è la messa in scena di un ricordo personale dal quale sopravvivono solo ruderi architettonici e macerie. Le meraviglie è il tracciato psichico della protagonista Gelsomina e un gioco (serissimo) con la memoria della regista e sceneggiatrice. Di imperfezioni se ne contano parecchie, ma queste piccole dissonanze, come in una partitura musicale, sono frammenti in grado di risuonare nella memoria dello spettatore, che è assai più longeva dell’emozione epidermica della visione. Perché un film può anche essere pensato per durare nel tempo, può avere l’ambizione di imprimersi nella mente e nei ricordi dello spettatore ben oltre la sua durata. Può risuonare per anni e spesso sono proprio le dissonanze, gli elementi distòpici, a funzionare meglio della scelta da manuale. La ricerca della perfezione formale, la forma esatta contro la sostanza, è il limite di tante scuole di cinema, di troppi manuali di sceneggiatura, di certa critica che concepisce il buon cinema come sommatoria scientifica di parti differenti. Se la vita è l’obiettivo sul quale puntare l’obiettivo della macchina da presa, questa non può che essere osservata con tutte le sue incongruenze, con le sue note stonate, con le parole fuori posto, gli accenti sbagliati, le spiegazioni latitanti. E ne Le meraviglie tutto rimane avvolto nel mistero, quasi nulla viene spiegato, lasciando aperte le interpretazioni e disattese le congruità. Non importa comprendere tutto, al cinema come nella vita, ciò che importa, o che dovrebbe importare davvero, è sentire – con buona pace della critica sorda.

 

 

Dunque non può esserci trama da restituire, perché i fatti che accadono sono barlumi di memoria traslati in finzione cinematografica, sono ombre proiettate sulle pareti di una caverna (lo schermo bianco della sala) che giungono da un tempo passato che è il presente della rimembranza (della scrittura). Basterà sapere che Wolfgang (Sam Louwyck) è il padre collerico, Angelica (Alba Rohrwacher) la madre dalla pelle candida e la sopportazione al limite, Gelsomina (Maria Alexandra Lungu) la dodicenne in cerca della comprensione del sentimento che la lega a suo padre, Marinella (Agnese Graziani) la buffa e irresistibile sorella, Caterina e Luna le piccine di casa e Cocò (Sabine Timoteo) un’ospite fissa che condivide con la famiglia di apicultori un tratto della propria esistenza.

Le meraviglie è un dispositivo cinematografico, un film fatto per sottrazioni, difficile e coraggioso (per la regista e la produzione – i primi a credere nel film sono stati Carlo Cresto-Dina e il compianto Karl Baumgartner) che è riuscito a giungere in concorso a Cannes contro ogni previsione della vigilia e contro una consuetudine deprimente. L’ultimo film italiano selezionato a Cannes diretto da una regista fu Francesco di Liliana Cavani nel lontanissimo 1989, preceduto nel ’81 da La pelle e nel ’74 da Milarepa – sempre diretti da Liliana Cavani; ma l’apripista fu la mai abbastanza celebrata Lina Wertmüller che, nel ’72 con Mimì metallurgico ferito nell’onore e nel ’73 con Film d’amore e d’anarchia – Ovvero “Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza…”, inaugurò una storia che in maniera evidente denuncia la chiusura delle produzioni cinematografiche nei confronti delle donne dietro alla macchina da presa.

Alice Rohrwacher, qui al suo secondo film – Corpo celeste fu selezionato alla Quinzaine des réalisateurs nel 2011 –, dispiega con acume e audacia una propria visione cinematografica che si lega a una tendenza internazionale di autrici di opere sempre piuttosto distanti dai canoni convenzionali, incentrate su caratteri sfuggenti e affascinate dalle derive della narrazione. Registe donne, assai di frequente autrici delle proprie sceneggiature, che pur con esiti e stili differenti possiedono un tratto comune che ne rende affine lo sguardo. Penso alla statunitense Kelly Reichardt (Night Moves, Meek’s Cutoff, Wendy and Lucy, Old Joy), alla tedesca di origini sudafricane Pia Marais (Layla Fourie, Im Alter von Ellen, Die Unerzogenen), alla svizzera francese Ursula Meier (Home, L’enfant d’en haut – Sister) e alla parigina Héléna Klotz (L’âge atomique)… Ma l’elenco potrebbe essere più ampio e dettagliato…
Ma per le donne, fare cinema, è notevolmente più complicato. Certo non è mai il caso di porre poetiche all’interno di anguste prospettive di genere, ma il fatto che alle donne sia limitato l’accesso alla regia è un dato inoppugnabile e incontrovertibile. Secondo i dati dell’Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo (EON) – rimessi in circolo proprio in questi giorni via twitter da (l’ottima!) Ilaria Ravarino – solo il 16% degli oltre 9000 titoli usciti in tutta Europa nella stagione 2012-13 sono stati diretti da registe di sesso femminile e, ancora peggio, queste guadagnano il 31% in meno dei loro colleghi di sesso maschile. Quindi un problema c’è, ed è grande come una casa, e forse la giuria di Cannes 2014 (Le meraviglie è l’unico film italiano in concorso) presieduta dall’unica donna ad aver mai vinto una Palma d’oro, Jane Campion, saprà premiare un ottimo film e al contempo dare un forte segnale all’industria cinematografica ancora arroccata in un maschilismo disarmante e imbecille. A noi, critici indipendenti che scriviamo per strani accrocchi che vivono sospesi tra web e realtà, che condividiamo con Rohrwacher età anagrafica e voglia di qualcosa di diverso attorno a noi, sta l’obbligo intellettuale di sostenere questo cinema nuovo e donna, sperando di arrivare al più presto a un’epoca nella quale non sarà più necessario spendere parole per la parità. Un’epoca in cui alle donne non sarà concesso unicamente lo spazio di storie intime e personali, delicate e toccanti, con al centro protagoniste (invariabilmente) donne. Abbiamo diritto a sognare un cinema che dia libero spazio alle attitudini di ogni realizzatore, che non produca per categorie o preconcetti. Abbiamo diritto di pretendere una industria davvero meritocratica, realmente in grado di premiare il talento e il coraggio. Il nostro tempo è ricco di idee di un cinema differente, sta a noi riconoscerlo e sostenerlo. Nei mesi e negli anni a venire saranno molti i film diretti da donne che giungeranno nei festival e in sala e questo numero crescerà sempre più. Qualcosa sta mutando e un grande festival come Cannes può essere l’occasione propizia per accelerare questo cambiamento che sta nelle cose. Che poi avere un cinema fatto solo da registi uomini non è solo un’arretratezza numerica, ma è proprio una perdita di opportunità per gli spettatori, una perdita di immaginario. •

Alessio Galbiati

 

 

aggiornamento 24/05/2014: Le meraviglie di Alice Rohrwacher si è aggiudicato il Gran Prix di Cannes 67 assegnato dalla giuria del concorso internazionale presieduta da Jane Campion e composta da Sofia Coppola, Willem Dafoe, Carole Bouquet, Jeon Do-yeon, Leila Hatami, Gael Garcia Bernal, Jia Zhangke e Nicolas Winding Refn. Il Grand Prix viene assegnato dalla giuria al film che mostra maggiore originalità o spirito di ricerca.

 

 

 

Le meraviglie
regia, sceneggiatura: Alice Rohrwacher
fotografia: Hélène Louvart
montaggio: Marco Spoletini
suono: Christophe Giovannoni
montaggio del suono: Marta Billingsley
musiche originali: Piero Crucitti
scenografia: Emita Frigato
costumi: Loredana Buscemi
acting coach: Tatiana Lepore
aiuto regista: Jacopo Bonvicini
casting: Chiara Polizzi
organizzazione generale: Giorgio Gasparini
produttori: Carlo Cresto-Dina, Karl “Baumi” Baumgartner, Tiziana Soudani, Michael Weber
interpreti principali: Maria Alexandra Lungu (Gelsomina), Sam Louwyck (Wolfgang), Alba Rohrwacher (Angelica), Sabine Timoteo (Cocò), Agnese Graziani (Marinella), Monica Bellucci (Milly Catena)
produzione: tempesta / Carlo Cresto – Dina con RAI CINEMA
coproduzione: AMKA Films Productions, POLA PANDORA Film Produktions, RSI – Radiotelevisione Svizzera, SRG SSR, ZDF – Das kleine Fernsehspiel in collaborazione con ARTE e con il sostegno dell’Ufficio Federale della Cultura (DFI) – Medienboard Berlin-Brandenburg in associazione con Cineteca di Bologna e con la partecipazione della Regione Toscana in associazione con BNL-Gruppo BNP PARIBAS (film riconosciuto di interesse culturale con sostegno dal Ministero dei Beni e della Attività Culturali e del Turismo Direzione Generale Cinema)
distribuzione: Bim
lingue: italiano, francese, tedesco
negativo: 35mm (Kodak)
formato di proiezione: DCP
paese: Italia, Francia, Germania
anno: 2014
durata: 111′

 

SITO UFFICIALE

FOTO DI SCENA by Simona Pampallona

Le meraviglie sarà nelle sale italiane dal 22 maggio 2014

 

 



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