NON SONO MAI STATO A LOS ANGELES
Intervista all’attore e musicista Joshua Burge
a cura di Alessio Galbiati e Roberto Rippa
da Rapporto Confidenziale numero38
Joshua Burge è un attore incredibile. Eppure ha al suo attivo solamente due titoli, Ape e Coyote, entrambi diretti dal medesimo regista, Joel Potrykus, che rendono evidente la forza della sua recitazione, il carisma della sua presenza scenica. Joshua Burge è un attore nato che tanto ci ricorda i grandi nomi del muto dell’inizio del secolo scorso. Possiede una faccia di gomma dall’espressività profondamente sorprendente e non ha remore nel mettersi in gioco attraverso le sue interpretazioni.
Su di lui abbiamo fatto una scommessa: volevamo essere i primi ad averlo intervistato. Oggi la sua filmografia è ridotta all’osso, ma pensiamo che la sua faccia diventerà inevitabilmente popolare.
Chissà se avremo avuto ragione, noi al momento di dubbi non ne abbiamo anche se i pronostici sono sempre difficili in questi casi. Sono i primi due lungometraggi di cui è protagonista a rendere inevitabile la convinzione.
Rapporto Confidenziale: Innanzitutto, sei un musicista che si è dedicato alla recitazione o un attore che si è dedicato alla musica? Oppure sei sempre stato entrambe le cose?
Joshua Burge: Difficile dirlo. Quando avevo 7 anni, ero solito stare di fronte allo specchio fingendo di suonare la chitarra. Ero un musicista o un attore? Per me, la rappresentazione, l’esecuzione, è l’unica certezza. Se scrivo il materiale delle mie esibizioni o se lo fa qualcun altro, non importa. Portare la mia arte alla gente mi rende felice.
Da sinistra: Joel Potrykus, Ashley Young, Mike Saunders e Joshua Burge al festival del film di Locarno
RC: Come hai iniziato a lavorare con Joel Portykus? Sappiamo che ha diretto alcuni videoclip dei Chance Jones, il tuo gruppo.
JB: L’ho conosciuto giocando con i videogiochi nel nord del Michigan. Abbiamo studiato entrambi cinema nella stessa università, anche se lui ha studiato più a lungo di me. Abbiamo parlato di film e ci siamo trovati d’accordo. Avevo sentito di questo film, Gordon, che Joel aveva diretto. L’ho visto e mi è piaciuto molto. Quindi Joel ha iniziato a portare la videocamera ad alcuni concerti di Chance Jones, la mia band, e a realizzare video. Era interessato alla mia capacità di coinvolgere il pubblico e io ero naturalmente interessato dal suo fare cinema. Ci rispettavamo come artisti e siamo diventati amici.
RC: E cos’è Happy Birthday, Goldenboy?
JB: Rido perché me ne ero dimenticato. Era il mio compleanno e Joel aveva realizzato questo breve video per me come augurio. Si tratta di scene non montate o “perse” di Coyote. Joe, io stesso e i nostri amici, abbiamo questo concetto di «golden hour», quell’istante esatto che precede il tramonto in cui il sole splende in un modo da fare sembrare tutto dorato. Quindi Goldenboy è un termine affettuoso, un vezzeggiativo.
RC: Sia in Coyote – cortometraggio di Joel Potrykus in cui interpreti un tossicodipendente che si trasforma in rabbioso lupo mannaro – che in Ape hai ruoli estremamente impegnativi. Come ti sei preparato per entrambi?
JB: Per Coyote, io e Joel abbiamo fatto alcune ricerche sull’uso di droghe, attraverso letture, film e internet, perché eravamo scocciati dal modo in cui l’uso di droghe viene mostrato al cinema. Volevamo riportare fedelmente l’abiezione. Il pensiero è stato: «Cosa farei se fossi un lupo mannaro e non volessi esserlo?». Come potrebbe una persona scendere a patti con una situazione del genere? Nelle notti di luna piena si legherebbe? Si suiciderebbe? Farebbe uso di droga come via di fuga? Alla fine abbiamo pensato che le droghe costituissero un’opzione che molte persone sceglierebbero.
Per Ape, la fortuna è stata che sia io che Joel avessimo avuto delle esperienze a New York: lui come comico, io come artista in lotta per farsi strada. Quindi eravamo in grado di condividere le nostre storie e discutere su come si potesse provare ad avere successo con le nostre attività. Inoltre, io avevo lavorato come lavapiatti vicino ad un Comedy Club (locali dove comici noti e meno noti sottopongono il loro repertorio al pubblico; Ndr.). Ho incontrato molti comici, erano le persone più tristi e depravate che abbia mai incontrato nella vita. Quindi mi ricordavo delle interazioni con questi comici, avevo avuto la fortuna di vedere quella parte di loro che non mostrano sul palco. Ho pensato di poter trovare un’attinenza con tutto ciò, di pensarlo cioè come un possibile unico legame tra attori e intrattenitori.
RC: Coyote – apparentemente il tuo debutto sullo schermo – è un corto di 24 minuti diretto da Joel Portykus due anni prima di Ape. Guardandolo con gli occhi di chi ha visto Ape, potrebbe apparire come uno studio, un lavoro di preparazione per ciò che poi sarà Ape. Ma è anche un eccellente lavoro underground, denso di espliciti omaggi alla Nouvelle Vague e a certo cinema degli anni ‘70 e ‘80. Com’è nato il film?
JB: Per sapere com’è nato Coyote occorrerebbe davvero chiedere a Joel. Al momento della lavorazione avevo comprato da poco una grande collezione di dischi “Ye Ye” ed ero rimasto affascinato da Serge Gainsbourg, Françoise Hardy, Jacques Brel, Sylvie Vartan, Jane Birkin, ecc… e Joel voleva rendere omaggio a Godard. Il risultato di queste intenzioni lo si vede nella scena di ballo ispirata direttamente a A Band Apart. Abbiamo integrato la canzone francese come motivo ricorrente. La mia idea è che sia Coyote che Ape raccontino storie fortemente centrate su un personaggio che esprime emozioni primarie. Paura e ansia in Coyote, rabbia e frustrazione in Ape. Il terzo film seguirà questa traccia e completerà la trilogia “animale”.
RC: La storia per Ape viene da un’esperienza personale del regista, risalente a quando si esibiva come comico. Essendo personale, avete lavorato insieme nella definizione del personaggio o ti ha lasciato totale libertà?
JB: Joel e io ci conosciamo quanto basta per discutere del personaggio, avendo avuto le esperienze comuni a New York cui accennavo prima. Certo, avere la possibilità di interagire con il regista del film su una base intima permette di creare un’atmosfera confortevole. Quando mi veniva un’idea della quale mi sentivo sufficientemente sicuro, Joel mi diceva: «Va bene». E se Joel riteneva che una cosa fosse necessaria, allora si faceva risoluto. Quando capitava che si discutesse su qualcosa, entrambi pensavamo che l’altro avesse l’idea “migliore”. Ma la materia non era sconosciuta a nessuno dei due, quindi eravamo in grado di risolvere molto facilmente qualsiasi problema nelle riscritture della sceneggiatura.
RC: La forza della tua interpretazione risiede, a nostro modo di vedere, nella tua incredibile abilità di entrare nel ruolo di Trevor Newandyke, di trasformarti in Trevor. In Ape riesci a dare profondità e verosimiglianza a un personaggio evanescente e senza tempo. Come hai lavorato alla costruzione del personaggio? Chi è Trevor Newandyke?
JB: Se devo essere sincero, direi che il personaggio di Trevor mi è stato offerto in un momento poco felice della mia vita. Avevo trascorso una primavera molto difficile e girare Ape, entrare nel ruolo di Trevor, è stato un buon modo per incanalare in lui quel senso di fallimento. Molte tra le frustrazioni che si vedono sullo schermo sono vere, in molti, molti modi. Però, con il senso di fallimento arrivano anche molte altre emozioni. Mi sentivo triste e solo ma sentivo anche di voler tornare ad essere amato e di riuscire ancora. In quei casi si crea una sorta di conflitto. Talvolta ti senti sconfitto, talvolta vai su tutte le furie. Ho pensato che se avessi applicato questi attributi a Trevor, ne sarebbe risultato un personaggio interessante.
RC: In effetti, abbiamo visto Ape come un film incentrato sulla rabbia. Un ottimo film che mescola efficacemente dramma e commedia (proprio come la tua musica mescola – sempre secondo noi – old school soul, punk e glam rock). È difficile in quanto attore trovare un equilibrio tra questi opposti?
JB: Non lo è per me. Ho sempre visto questi elementi come legati. Ho sempre tentato di essere quanto più possibile ampio e dinamico all’interno di una canzone di tre minuti. Quindi la transizione del concetto alla recitazione è stato complicato e disorientante all’inizio ma poi, nel momento in cui ho realizzato come farlo, è diventato piuttosto naturale, considerata anche la mia esperienza come autore. È una questione di preferenze, in realtà, ma prediligo una canzone che possa coinvolgere il pubblico attraverso un’ampia gamma di emozioni in così poco tempo. I personaggi delle mie canzoni lo fanno in maniera così naturale che tento di portare lo stesso approccio nei personaggi che interpreto.
RC: Il film appare anche come un efficace ritratto della provincia statunitense. Lo è, secondo te?
JB: Negli Stati Uniti la vita di una persona che lavora nello spettacolo è difficile. Quando con il cast di Ape siamo giunti in Europa, eravamo così felici, eppure tanta gente ci parlava delle frustrazioni in merito ai governi che non danno i giusti finanziamenti ai progetti cinematografici. Questo ci ha confusi. Negli Stati Uniti l’arte non è una forma di capitale monetario. Gli artisti americani lottano e soffrono, non solo per loro stessi, ma per sentirsi parte di un tutto, per appartenere ad una comunità. C’è così tanto di cui vogliono parlare. Gli artisti americani sanno che a loro e alle loro famiglie è stato dato un grande dono ma l’artista americano è anche confuso, spaventato e preoccupato di quale sia il suo posto nel mondo proprio come lo sarebbe chiunque altro. Gli Stati Uniti sono un luogo enorme, non c’è solo New York, non solo Los Angeles. Ci sono molte persone che hanno perso le loro case, non a causa della guerra, bensì delle banche. Ci sono tante persone talentuose di cui non sentirai mai parlare, di cui non vedrai mai il lavoro, di cui non saprai mai il nome. Però talvolta sono proprio loro il meglio che l’America possa offrire. Questo è ciò che penso sia rappresentato nel film. Non che Trevor sia il meglio che l’America possa offrire, ma c’è un intero mondo in ogni città del Paese che sta tentando di esprimere sé stesso coinvolgendo il pubblico e generalmente finirà per non essere mai sentito. Il film è la rappresentazione di questo mondo. Noi, negli Stati Uniti, lo chiameremmo Rust Belt (“Rust Belt” è un termine che si è diffuso negli anni ‘80 e che definisce l’area che si estende dal Midwest alla zona del Nord-Est degli Stati Uniti, in cui l’economia si basa essenzialmente sulla manifattura a larga scala nonché nella lavorazione di materie prime destinate all’industria. Fonte: Wikipedia; NdR.). Si tratta di posti in cui l’economia è in lotta, in cui il mondo dello spettacolo, dell’intrattenimento, non esiste davvero. Anche io e Joel veniamo da uno di questi posti e volevamo rappresentarlo attraverso il nostro punto di vista di artisti.
RC: In effetti, tu e Joel abitate nel Michigan, molto lontano sia dall’industria del cinema che dalla scena musicale principale. Questo rende difficile mostrare o fare ascoltare il vostro lavoro attraverso gli Stati Uniti?
JB: Sì, sia io che Joel preferiremmo trovarci in un’area più orientata all’intrattenimento, allo spettacolo. Però ci è stato dato il dono di appartenere a una generazione che possiede internet come veicolo. Non posso parlare per Joel, ma sono consapevole del fatto che non sarò mai in grado di vedere una fruizione completa di qualsiasi cosa io faccia se non vivo in una città legata allo show business. Le persone di spettacolo non fanno soldi in Michigan ma la mia esperienza personale mi dice che non ne farei nemmeno a New York. Non sono mai stato a Los Angeles.
RC: Quanto del tuo ruolo era già scritto in sceneggiatura e quanto è nato per improvvisazione mentre giravate?
JB: In gran parte, il film è stato girato com’era stato scritto, anche se Joel forniva riscritture il giorno della lavorazione. Joel ci dava la libertà di recitare le battute come volevamo, però gli attori sentivano che avrebbero dovuto recitare le battute come erano scritte. Questo la dice lunga sulla straordinaria capacità di scrittura di Joel. Le uniche due parole che sono state totalmente improvvisate sono state “Critters 2”.
RC: La tua recitazione in Ape, così eccentrica e originale, ci ha ricordato alcuni grandi nomi della commedia slapstick – Buster Keaton e Harold Lloyd su tutti – come ti abbiamo detto dopo avere visto il film a Locarno. Quali sono, se ci sono, i tuoi modelli, le tue fonti di ispirazione?
JB: So di non avere la faccia da protagonista. C’è stata un’epoca in cui i protagonisti avevano facce come la mia o quelle di Chaplin, Keaton, Laurel. Immagino che la ragione della loro presenza fosse che erano volti interessanti. Non necessariamente belli, ma diversi. Nessuno guarda nulla che non sia interessante. Alcuni tra i miei attori preferiti non sono uomini belli in senso convenzionale ma uomini che mi piace vedere sullo schermo. Ovviamente non ho alcun controllo sulle dimensioni del mio volto, ma se l’avete trovato attraente allora lo considero un lavoro ben fatto.
RC: Abbiamo letto che hai intenzione di dirigere un film. Ci stai lavorando? Di cosa tratta?
JB: È da tempo che lavoro ad una sceneggiatura. Tratta di un tizio che non ha una direzione nella vita. Tutti i suoi amici conducono vite molto attive ma, a causa dei comportamenti che hanno tra loro, il loro cerchio sociale si danneggia. Quindi, improvvisamente quest’uomo, che non aveva nulla da fare, si trova addosso tutte le responsabilità dei suoi amici. E tenta fondamentalmente di mettere ordine nel caos. ■
29 Agosto 2012