(Toei Company, Ltd – © Toei Animation)
Le origini del cinema di animazione del Sol Levante
di Mario Verger
I Lungometraggi
«Se Walt Disney fosse nato negli anni ’70 avrebbe amato i cartoni giapponesi, proprio come i giapponesi amano i suoi»
(Luca Raffaelli)
(Hakujaden – © Toei Animation)
Il primo lungometraggio a colori di “importazione” nipponica si intitolava La leggenda del serpente bianco (Tit. orig.: Hakujaden, 1958), ad opera di un maestro dell’animazione giapponese, Taiji Yabushita, fondatore della Toei Doga, che ottenne ampi riconoscimenti in occidente, vincendo nel 1959 il Diploma Speciale al Festival del Cinema per Ragazzi di Venezia, quando ancora il nostro paese ignorava che i film giapponesi avrebbero costituito una seria “minaccia” per la gioventù italiana. Faccio riferimento a questo film, che è stato il primo in assoluto a pervenire in Italia, ma che non venne mai trasmesso da nessuna TV privata negli anni ’70 contrariamente ai successivi. Il lungometraggio prende spunto dall’iconografia dell’antica Cina rievocando la figura di un serpente di legno, composto a scompartimenti, alla cui mitologia orientale evidentemente faceva riferimento, attraverso un cromatismo ancora piuttosto tonale ma con accenti di colore spesso intensi e accesi, caratteristiche tipiche dei cartoon del Sol Levante. Il film, però, è ancora acerbo nel suo insieme, dal momento che i primissimi lungometraggi giapponesi, quali Le tredici fatiche di Ercolino, Robin e i 2 moschettieri e ½ e Simbad il marinaio, si nutrono ancora di un’iconografia poco occidentalizzata, e di un’animazione estremamente fluida e ricca di rallentamenti a passo uno rispetto ai successivi più ‘secchi’ e moderni. Anzi, Il Serpente bianco di Yabushita, stranamente, si ispira a soluzioni tecniche ed estetiche dell’animazione americana anni ‘50. Anche le scenografie, anziché vivere di colori vivi e accesi, sembrano assumere quel tono ‘fiabesco’ e talvolta “zuccheroso” dei cartoon americani del dopoguerra, dallo stile corposo e pesante nella dosatura cromatica, senza minimamente giungere a quella brillantezza tecnica dei film giapponesi successivi. Gli “animali” de Il Serpente bianco appaiono come personaggi di contorno utili ad ammorbidire le storie d’amore dei protagonisti umani, fungendo da ‘archetipi’ delle future creazioni dei cartoon nipponici, tra i quali: il Panda, figura spesso ricorrentesia come ‘orso’ (v. Robin e i 2 moschettieri e ½, Alice…fanciulla infelice, Il Principe Valiant, ecc.), sia usato come protagonista (v. il più moderno L’Orsetto Panda e gli amici della foresta, del 1972, di Yugo Serikawa, il quale, non a caso, contese a lungo a Yabushita il primato di “maestro” del cartoon per l’infanzia). Il Panda di Yabushita come ‘prototipo’ di orso nipponico è ben riuscito; come gli altri suoi personaggi del film, ha una gran testa che pesa sul corpo e sembra essere esagonale nella sua stilizzazione; l’effetto in animazione è spesso di una forma a due dimensioni che rotea come un pesante solido geometrico. Gli elementi di Panda sono i seguenti: occhi larghi e distanziati, posti su due macchie nere languide giacenti a goccia all’altezza del muso, il quale è ottenuto da un ‘triangolo’ dal cui apice diparte una breve linea retta che si congiunge ortogonalmente alla bocca, piuttosto diritta, lievemente concava e arrotondata alle estremità; il tutto espresso attraverso un gioco di linee e di volumi in un raffinato effetto ottico, dove la sintesi e il simbolo, sia nell’iconografia sia nell’animazione, giocano un altissimo ruolo. Accanto a Panda agisce un piccola femmina di procione, Mimi, che si adatta anch’essa ai clichés dei film di quegli anni, anche successivamente rielaborata in forma di gatto o cagnolino. La mascotte femminile, più piccola e vezzosa rispetto a quella maschile (di solito un panda o un orso) in questo caso è appunto Mimi, dove la figura del procione con relative macchie e chiazze del vello offre ovviamente spunti per un’interessante schematizzazione geometrica che ricorrerà in altre creazioni; qui gli animali interpretano una banda di ragazzini scanzonati del secondo Dopoguerra. Ai due, si aggiungono altri tre compagni d’avventura, presi dai bassifondi del lontano oriente: un’oca (molto simile ai cartoon americani); un furetto, che per la sua linea longilinea, ben si adatta per eterogeneità al resto del gruppo; un grasso maiale dal manto plumbeo, con un grosso cimbalo a mo’ di basco che ricorda quello di Animal Farm di John Halas; in questo caso, il personaggio di Yabushita offre un’ottima caricatura del boss cinese della malavita di strada. I protagonisti umani, invece, si pongono preludendo alla matrice nipponica futura: interessante è la piccola Ching, dalla pettinatura a “crocche” (ad entrambi i lati, due sopra e due sotto tenute da un nastro); altro modello di bambina dei cartoon giapponesi (v. Pollon la streghetta di Sally la maga, e Tansuko della serie The Monkey di Tezuka): al contrario dei successivi, la monella di Yabushita sembra meno moccioseggiante e più adulta.
(Taiji Yabushita – © Toei Animation)
Il protagonista maschile è Hsu Hsien, che vive il suo amore travagliato per la giovane ragazza Pai Niang, precedentemente incarnatasi nel serpente bianco. Il ragazzo è più adulto mentre la ragazza è più giovane rispetto a lui, nei quali Yabushita esprime un amore più che altro platonico che si sviluppa fra mille travagli (v. Simbad); spesso i lungometraggi giapponesi basano l’amore tra due giovani i modo romantico, dove l’uomo assume una veste ideale, paterna e “prottettiva”, come in Robin e i 2 moschettieri e ½, dove, in questo caso due fratelli, maschio e femmina, separati per via di forza maggiore, solo alla fine riescono a riunirsi).
Vi è un gruppo di personaggi umani, come il padre del giovane e i suoi soldati ninja, delineati con un segno lineare, in apparenza “spoglio”, clichés in apparenza diversi dallo stile giapponese, che stranamente compariranno spesso nei lungometraggi successivi. L’iconografia, nonché la psicologia di fondo, è la medesima dei successivi tre lungometraggi giapponesi. Mi sono dilungato sul primo film in quanto si possono rintracciare in esso alcuni “archetipi” presenti ed adottati praticamente da tutti i registi dei lungometraggi successivi.
(Hakujaden – © Toei Animation)
(Hakujaden – © Toei Animation)
(Saiyuki – © Toei Animation)
Il primo lungometraggio importante che traccia la strada ai successivi, fu distribuito in Italia negli Anni ’60 con qualche programmazione nei cinema e non più di una o due apparizioni in TV negli anni ’70; stranamente, fu venduto anche in Super8 in brevi shorts di 15 mt. dalla AVO Film, con in copertina la scimmia Goku che andava a “passeggio” col Gulliver dei Fleischer e altri personaggi non meglio identificati, dal titolo anch’esso fuorviante: Le tredici fatiche di Ercolino (Tit. orig.: Saiyuki, 1960), diretto da Taiji Yabushita ed animato dal grande Osamu Tezuka, il quale traspose cinematograficamente il noto racconto cinese Sun Wukong, di Hiuan Tsane, e da cui in seguito ne ricavò la fortunata serie The Monkey. Il film, giunto in Italia con testi e adattamenti dall’edizione americana (il cui titolo era Alakazam the Great, in cui, anziché gli autori ovviamente americanizzati, risultano, per la regia, i nomi di Lee Kresel e Taiji Tonomura), vinse il Premio Speciale al Festival del Cinema di Venezia nel 1961. Nel primo film di Tezuka, caratterizzato ancora da un’animazione morbida e fluida, appare ancora, come nel precedente di Yabushita, la figura del bonzo raffigurato come un grosso maiale, questa volta vestito in sayo; anche il reverendo, descritto come un vecchio matusalemme dalla barba bianca che ispira saggezza e ponderazione nelle giovani generazioni, è un’altra figura ricorrente negli Anime: (v. Vitali di Senza famiglia, il babbuino di Leo, il re della giungla, il vecchio de Il principe Valiant, ecc.).
(Saiyuki – © Toei Animation)
(Saiyuki – © Toei Animation)
(Saiyuki – © Toei Animation)
(Anju to Zushiomaru – © Toei Animation)
Sempre negli Anni ’70 apparve nelle TV private un altro lungometraggio, questa volta più classico e legato alla tradizione giapponese, dal titolo italiano assai equivoco di Robin e i 2 moschettieri e ½ (Tit. orig.: Anju to Zushiomaru, 1961), diretto dal maestro Taiji Yabushita e dal suo allievo Yugo Serikawa, su soggetto di Osamu Tezuka, è basato su un antico racconto ambientato nel Giappone medievale, con protagonisti due fratelli figli di un Governatore, i quali, separati forzatamente, dopo mille avventure riusciranno a ricongiungersi solo da adulti. In questo c’è il dramma della separazione forzata, dell’allontanamento dei componenti più giovani del nucleo familiare e della ricerca delle proprie origini, nonché il “recupero” della propria infanzia, quasi a riconquistare un patrimonio affettivo il cui danno familiare potrà essere sanato solo dalle generazioni più giovani; anche qui, come in altri film, l’amore tra fratello e sorella è dolce e serafico, quanto quello platonico di due innamorati: l’uomo cerca l’incontro con la donna per proteggerla, diventando per lei un nuovo padre (v.il più moderno Senza Famiglia, firmato da Serikawa, dove Remigio, alla ricerca della sua vera madre, fa conoscenza con la figlia minore della signora Milligan, in realtà sua sorella). A fianco di Anju e di Zushiomaru, vi sono diversi animali come orsi e scoiattoli, che diventano validi guerrieri (caratterizzazioni prima descritte); da lì probabilmente il titolo italiano facilmente intuibile, inerente ai tre moschettieri, e del protagonista maschile del film, ‘Robin’, visto impropriamente, essendo ambientato in una foresta (giapponese), come una sorta di ‘Robin Hood orientalizzato’.
(Anju to Zushiomaru – © Toei Animation)
(Anju to Zushiomaru – © Toei Animation)
(Arabian night Sindbad no boken – © Toei Animation)
Lievemente più moderno nei clichés è il successivo Simbad il marinaio (Tit. orig.: Arabian night Sindbad no boken, 1962), sempre prodotto dalla Toei Doga per una trasposizione animata de ‘Le mille e una notte’, ricco di poesia, il quale si nutre di un disegno ‘ricamato’ e piuttosto lezioso nella confezionatura per via del delineo del segno, leggermente più scuro o più chiaro del colore sottostante e di un ‘taglio’ cinematografico ancora classico. Simbad e i personaggi sono realistici; il piccolo Alì appartiene alla stirpe dei mocciosi petulanti (v.anche il più moderno Shibari, il bambino stregato di Alice…fanciulla infelice, dello stesso autore); il capitano della nave, è un vecchio dall’aria barbuta e saggia, molto caro all’animazione nipponica; e i due marinai, uno grasso, l’alto magro, dal grafismo lineare e spoglio si ricollegano graficamente ai ninja del Serpente bianco e ritroveremo modelli similari modernizzati in altri film (v. Tortuga e Octopus di Ventimila leghe sotto i mari, ecc.).
Questi quattro lungometraggi surriferiti, firmati da Taiji Yabushita, sono tutti caratterizzati: da un’animazione fluida (il più delle volte realizzata a passo uno, contrariamente al passo due della maggior parte dei film Disney di quel periodo); da un disegno privo di un contorno pesante (il ‘delineo’ è spesso di un tono più scuro del colore sottostante, il ché rende più morbido l’effetto perché privato della durezza del tratto nella figura, ma non privo di leziosità nella confezione); da tematiche tradizionali che prendono spunto, sia nelle fattezze sia nei racconti, da “valori” diversi da quelli occidentali; da inquadrature cinematografiche “piene”, non giocando troppo sui dettagli o sui primi piani, o sui c.d. piani americani, i quali naturalmente, se pur di maggior effetto, avrebbero reso l’esecuzione più moderna e meno laboriosa; dal taglio degli occhi ancora orientaleggiante (delineati a china nera per renderli più vivi), le cui iridi presentano all’interno due o tre ellisse di diversa dimensione per conferire allo sguardo maggiore brillantezza; colori ricchi ed accesi dei personaggi e degli sfondi, corroborati da numerosi effetti speciali per aumentarne il realismo (i giapponesi sono maestri nell’uso dei filtri ‘cross-screen’), e raggiungendo un’eccezionale brillantezza cromatica; dal fatto che oltre ai protagonisti umani vi è, in perfetta sintonia, un universo animale semi-antropomorfo composto da scimmie, procioni, orsetti e scoiattoli i quali, al contrario di quelli disneyani forzatamente antropomorfi, appaiono piuttosto “squadrati” nei tratti, richiamando le antiche figure cinesi o giapponesi; in ultima analisi, i giapponesi pur applicando ai cartoon il linguaggio della regia cinematografica, hanno fatto sì che i loro personaggi si presentassero graficamente “schiacciati” e “tridimensionali” al tempo stesso, un po’ come l’effetto prodotto dall’obiettivo anamorfico, giocando molto sul contrasto estetico tra simbolo e realtà.
(Arabian night Sindbad no boken – © Toei Animation)
(Arabian night Sindbad no boken – © Toei Animation)
(Arabian night Sindbad no boken – © Toei Animation)
(Jungle Taitei – © Toei Animation)
Del 1966 è, invece Leo, il re della giungla (1) (Tit. orig.: Jungle Taitei), che valse a Osamu Tezuka il Leone di S. Marco alla XIX Mostra del Cinema per Ragazzi di Venezia. Molto più semplice e “moderno” dei film poc’anzi descritti, (il lungometraggio è in realtà costituito da quattro episodi dell’omonima serie televisiva ad animazione ridotta), narra le vicende di un leone bianco, re della foresta, alle prese con una società animale non dissimile nella psicologia da quella umana, con tutte le difficoltà e i pericoli naturali di un mondo dove vige ancora la legge del più forte. Tezuka, al pari di Disney (in Giappone è considerato il corrispettivo del Mago di Burbank), è riuscito ugualmente, pur risparmiando sul numero dei disegni, a far esprimere emozioni e caratteristiche umane – positive e negative – ai suoi personaggi in relazione al loro temperamento naturale. Leo, essendo bianco, è un leone speciale, nobile dentro e fuori ma ricco interiormente di nobiltà d’animo e di altruismo; la saggezza data dalla vecchiaia è riscontrabile in Mandi, il vecchio babbuino della giungla che ne conosce generazioni e segreti; l’alce Tommy e il pappagallo Coco, inseparabili amici contribuiscono a creare momenti comici; infine la compagna di Leo, Lia, fedele ed elegante come la moglie di un Re.
Tezuka applica, tradotti nel linguaggio animale, gli stessi elementi dei film ad attori disegnati: Leo e Lia, equivalgono ai giovani protagonisti, maschile e femminile; Mandi, alla figura del vecchio saggio; Tommy e Coco ai personaggi di contorno (v. i due marinai di Simbad e i due sudditi di Angela in Ventimila leghe sotto i mari, ecc…). Leo, nonostante sia un eroe “buono”, deve mostrare, però, la grinta e la forza di un vero leone: pur amando la pace egli è costretto, per gli imprevisti che si creano nel misterioso mondo della giungla, a ricorrere in extremis alla violenza. La sfida della morte, Tezuka, la descrive, non solo come un fatto di lotta per la sopravvivenza, ma anche come una “questione d’onore”; il regista giapponese fa in modo che Leo ricorra alla violenza solo per legittima difesa o per aiutare gli altri, come i piccoli animali indifesi sopraffati da altri feroci (in fondo Leo è un “leone” che vive in una “giungla”).
(Jungle Taitei – © Toei Animation)
Nel primo episodio, ‘Leo contro Zamba’, emerge il contrasto tra due leoni “diversi”: Leo bianco e Zamba blu; quando quest’ultimo spaventa e uccide gli animali della giungla, Cid, un vecchio leone, racconta a Leo la difficile infanzia di Zamba, tanto che da fargli comprendere, confrontandola con la propria, il perché Zamba sia divenuto così spietato; conoscendone la storia, Leo decide di non combattere con Zamba, il quale lo attacca trattandolo da codardo fin quando il leone blu gli tradisce la parola data di non attaccare nessun animale: l’orgoglio del leone bianco gli fa affilare gli artigli, andando a sfidare Zamba in lottando su una roccia ripida, in un crescendo spettacolare, finché il leone blu ha la peggio, cadendo nel vuoto; Leo, e gli amici sopraggiunti, corrono a vederne le condizioni, e sul finire della vita Zamba, con l’orgoglio di un leone sconfitto, esprime a Leo un sincero pentimento, capendo gli errori fatti nella vita, prima di rimanere esanime; una sincera e priva di forzature analisi psicologica da parte di Tezuka su come siano spesso le condizioni di vita a determinare il carattere da adulto: Zamba, ‘scartato’ dal branco perché “diverso” è cresciuto solo ed emarginato, incattivendosi per riscattarsi da adulto dalle umiliazioni subite; Leo, anche lui “diverso” ma figlio del Re Cesare, è cresciuto nella semplicità e tra l’amore dagli amici della foresta.
(Jungle Taitei – © Toei Animation)
Nel secondo episodio, ‘Leo contro Gal’, Tezuka mostra un gruppo di leoni vissuti in cattività, di cui, il giovane erede Gal non vuol saperne di ravvedersi, preferendo il linguaggio della sopraffazione a quello della pace reciproca, giocando sulla forza di un vero leone; mentre la giovane sorella Linka si accorge che il loro stile di vita è sbagliato, perché affascinata dal carattere nobile ed altruista del leone bianco. Leo, però, fedele e generoso, non capisce, se non in modo latente, che Linka prova un debole per lui; cosa invece “avvertita” dalla moglie Lia, quando Leo gliela le presenta, in un atteggiamento reciproco di diffidenza e rivalità femminile; come anche lo evidenzia la gelosia fraterna di Gal, il quale intuisce che i rimproveri di Linka, passata ad apprezzare il coraggio e la lealtà del re della giungla, ne tradiscono un innamoramento; come interessante è la figura del vecchio padre di Gal e Linka, il quale, se pur tradizionalista e orgoglioso di essere un leone, riconosce, non senza difficoltà, che bisognerebbe essere più “moderni” e cambiare stile di vita (v. la figura del vecchio burbero dei film nipponici).
Nel terzo episodio, ‘La conquista della Golden Valley’, la protagonista è Lukyo, uno dei due cuccioli di Leo, la quale, perdutasi nella Savanah, fa amicizia con l’enorme gorilla rinomato per la sua forza bruta, Dombei, il quale, grazie alla piccola leoncina, rivelerà il suo lato umano. Nell’ultimo episodio, ‘Leo contro la diga’ (presentato dallo speaker italiano che dice, “Per Leo un nuovo, temibile avversario: l’uomo”), Tezuka mette in rilievo come il progresso della civiltà provochi i suoi danni all’interno di un mondo pericoloso ma naturale come quello della giungla, nel quale la corruzione dell’uomo è sempre più meschina del mondo naturale; Leo si imbatte con un anziano e misterioso costruttore di dighe, pensando invano di venirvi a patti, chiedendogli di lasciargli almeno il tempo di evacuare l’intera foresta coi tanti amici per portarli altrove.
(Jungle Taitei – © Toei Animation)
(Shonen Jack to Mahotsukai – © Toei Animation)
Un altro lungometraggio giapponese straordinario, sempre della Toei Doga, è La storia di Alice… fanciulla infelice (2) (Tit. orig.: Shonen Jack to Mahotsukai, 1967), diretto dal grande Taiji Yabushita. Il Film (3), nonostante sia apparso ripetutamente nelle TV private negli anni 70 privo di titoli originali, non è mai stato commentato su pubblicazioni italiane di cinema di animazione giapponese. La protagonista è una bambina, Alice (in originale Kiki), strana e misteriosa, perché in realtà vittima di un sortilegio. Avendo conosciuto Gianni (Jack) e i suoi amici animali con cui fa amicizia, li conduce con l’inganno sul suo strano elicottero in un castello stregato, dove una macchina trasforma i bambini in piccoli demoni, schiavi di una regina malvagia. Alla fine Alice, alla quale è rimasto un lato di umanità forse perché innamorata di Gianni, il quale sfugge alla macchina stregata, riuscirà con lui a distruggere la strega annullando così il sortilegio che tiene prigionieri i bambini riportandoli alle loro fattezze naturali, Alice compresa. Lo stile è quello di Yabushita: Alice e i bambini stregati, sono caratterizzati da grandi occhi a mandorla con l’iride da gatto e il naso all’insù ricavato dall’ombra delle narici, mentre gli animali di contorno, pur apparendo antropomorfi, hanno un non so ché di severo e adulto. Di certo il film non manca di fascino ed originalità ed è interessante notare come, nonostante i richiami evidenti alla tradizione del lungometraggio giapponese, gli interni del castello nonché i bambini stregati assomiglino notevolmente ai mostriciattoli della Strega de La bella addormentata nel bosco di Walt Disney, realizzato qualche anno prima. Vale la pena ricordare l’apporto di due grandi collaboratori alla Toei sin dagli inizi: i veterani Yasuji Mori e Akira Daikuhara.
(Yasuji Mori & Akira Daikuhara – © Toei Animation)
Graficamente La storia di Alice… fanciulla infelice, si rifà, nello stile e nei movimenti, alla matrice dei primi lungometraggi nipponici, vista l’impronta classica e all’antica di Yabushita, con tempi di sceneggiatura ben diluiti, col ‘delineo’ più scuro del colore sottostante e l’animazione ‘fluida’ e morbida, spesso a passo uno. Taiji Yabushita, al contrartio del suo primo lungometraggio, pare voglia modernizzarsi, ispirandosi ad un design geometrizzato e angoloso, anche se ormai la direzione verso la quale sembrava orientarsi il lungometraggio del Sol Levante era già più sganciata dagli schemi classici. Notevole è la partecipazione, con Gianni e Alice, di un piccolo gruppo di animali quali l’orso Gruntor, lo yorkshire Bubu innamorato della vezzosa siamese Jo Jo, dai tratti stilizzati (v. lo stile angoloso di Mimi de Il Serpente bianco), e il topino Cip, i quali si rifanno, se pur più spigolosi e meno aggraziati, ai primi clichés di Yabushita.
(Shonen Jack to Mahotsukai – © Toei Animation)
(Shonen Jack to Mahotsukai – © Toei Animation)
(Shonen Jack to Mahotsukai – © Toei Animation)
(Taiyo no oji Hols no daiboken – © Toei Animation)
La grande avventura del piccolo principe Valiant (4) (Tit. orig.: Taiyo no oji Hols no daiboken, 1968), sempre della Toei, è un assoluta innovazione, ad opera di due maestri dell’Anime: Hayao Miyazaki per l’animazione e Isao Takahata per la regia (autori in seguito, tra l’altro, di Heidi e Lupin III nonché di capolavori quali Nausicaa, Il castello di Cagliostro, Porco Rosso, fino al più recente La città incantata). Il primo lungometraggio dove è evidente e distinta la mano di Hayao Miyazaki, autore di molti capolavori a lungometraggio di successo, è il primo archetipo del genere e ha come protagonista il giovane Hols, unico superstite del suo villaggio che, a causa del malvagio Grunwald, è costretto a fuggire rifugiandosi altrove, con tutte le diffidenze con cui viene accolto uno straniero.
Il character design è molto inerente allo stile del giovane Miyazaki: viso ovale, naso piccolo, accennato e maggiormente marcato al di sotto, occhi lucenti con un leggero strabismo di Venere, bocca piccola, a fessura e arrotondata ai lati, piuttosto distante dall’ovale che definisce il mento; figure ben geometrizzate e massicce ma al contempo ugualmente realistiche e descrittive nel tratto; contorno sottile e ombre “frastagliate”, spesso direttamente tracciate col segno nonché particolari minuziosi in aggiunta alle vedute d’insieme. Miyazaki, inoltre, è portato ad animare situazioni catastrofiche, come rocce che si sgretolano, mari in tempesta, battaglie aeree, nelle quali l’uomo è in balia di situazioni naturali più grandi di lui, e più in generale situazioni dal sapore apocalittico di alta spettacolarità. Interessante l’idea dei ‘lupi argentati’, dagli occhi vitrei dalla forma allungata privi di iride; linguaggio usato dai giapponesi quando rappresentano animali dall’aria ambigua, (v.il felino cattivo de Il gatto con gli stivali; la volpe pirata e il Capitano Flint de L’isola del tesoro; e, ad esempio, il gatto cieco con la benda dell’episodio “Caccia allo smeraldo” della prima serie di Lupin III, animazioni firmate non a caso da Miyazaki e Takahata).
Il giovane Hols è un ragazzo vestito in abiti scamosciati, con a tracolla le sue armi. Per quanto ambientato nei freddi villaggi nordici, Hols ha armi da difesa che si ricollegano a quelle antiche dei samurai giapponesi: egli è dotato di un’ascia agganciata ad una lunga corda ed una spada speciale, la Spada del Sole. Hols è accompagnato, inoltre, dal fedele amico Goro, un orso ricollegabile ai clichés già descritti ma meno antropomorfo, (occhi languidi e distanti, design squadrato e piuttosto ‘orizzontale’ nelle linee visto che cammina a quattro zampe); il ragazzo, dovendo rifugiarsi in un pacifico villaggio di pescatori, viene ospitato da un vecchio (che ha un figlio di età coetanea a Hols), il quale richiama per certi aspetti il futuro nonno di Heidi: silenzioso, vagamente burbero ma nell’insieme generoso, che anziché essere un montanaro, lavora il ferro mettendo il giovane in condizione di temperare la sua “Spada del Sole”, lasciatagli dal padre in punto di morte (un vecchio anzianissimo caratterizzato da una lunga barba bianca, che ricorda uno dei protagonisti di Ercolino e di altri saggi “anziani” degli Anime, fra l’altro col segno ‘spoglio’ e lineare), per poter sconfiggere il potente Grunwald, che si appresta ora a distruggere questo nuovo villaggio, per sottomettere al proprio volere gli abitanti delle terre artiche. Qui Hols diventa un eroe uccidendo un gigantesco luccio mandato da Grunwald.
Anche i personaggi del villaggio sono interessanti, richiamando quegli elementi di semplicità e di pulizia descrittiva dello stile Miyazaki-Takahata, presenti anche in Heidi. Hols, ha ovviamente modo di conoscere una strana ed ambigua ragazza, dai tratti angelicati e severi: Hilda (definita con lo stile ancora arcaico ma riconoscibilissimo di Miyazaki), unica superstite di un villaggio distrutto, una giovane che se ne sta sola suonando la lira con accanto il suo scoiattolino (anche lui secondo la tradizione dei animaletti giapponesi); la ragazza si presenta con una sobrietà signorile e una semplicità disarmante, vestita con un abito lungo fino alle gambe, a campana, una tonaca “indiana” che la fa apparire quasi una “figlia dei fiori”; elementi spesso ricorrenti nelle prime creazioni femminili di Miyazaki. L’amore latente tra i due giovani è evidente ma alla fine Hilda vuole uccidere Hols in quanto si rivela essere la sorella minore del malvagio Grunwald, signore dei ghiacci. Ovviamente Hols riuscirà a sconfiggere il nemico riportando la pace nel villaggio artico. Inoltre Il principe Valiant è il primo film in cui venne definitivamente adottata la tecnica della riproduzione Xerox su celluloide; non più toni sovrastanti il colore o un delineo netto definito nero, ma la stampa a fotocopie dei disegni originali su acetato; tecnica messa a punto dai tecnici Disney con La carica dei 101, e adottata definitivamente dalla Toei con quest’ultimo film; ciò sembra accadere al momento giusto, poiché permette di far combaciare le esigenze tecniche della produzione con quelle espressive ed artistiche del giovanissimo Miyazaki, in quanto lo stile grafico di lucidatura di Hols, appare “leggero”, fresco e arioso; il segno è sottile e delicato nel design, sfumato e leggermente grezzo nella lucidatura; elementi che conferiscono un tono di velata e poetica “sfumatura” alla confezionatura definitiva, in perfetta armonia con l’animo del grande autore dell’Anime. Il film, all’epoca, considerato il più grande fiasco della storia della Toei Animation, verrà rivalutato solo diversi anni più tardi. Terminato nel 1968, richiese ben oltre tre anni di lavoro, ma fu proiettato solo per pochi giorni e tolto dalla circolazione. Peccato, dato che oggi è considerato uno dei capolavori dell’animazione classica giapponese.
(Taiyo no oji Hols no daiboken – © Toei Animation)
(Taiyo no oji Hols no daiboken – © Toei Animation)
(Taiyo no oji Hols no daiboken – © Toei Animation)
(Taiyo no oji Hols no daiboken – © Toei Animation)
(Andersen Monogatari Match Uri no Shojo – © Toei Animation)
Le meravigliose favole di Andersen (5) (Tit. orig.: Andersen Monogatari Match Uri no Shojo, 1968), ha ben poco del fascino dei primi lungometraggi; il tratto più moderno, l’animazione meno fluida, non ha né l’accuratezza dei precedenti né la compiutezza e la sintesi dei nuovi; pur preannunciando la modernità dei successivi, rimane un film privo di innovazione ed originalità. Il piccolo Hans Christian Andersen, dai tratti piuttosto bamboleggianti, grazie al Signore dei Sogni, fa conoscenza con diversi personaggi delle sue storie, da Scarpette rosse intrecciata a La piccola fiammiferaia, tanto che da questi incontri ne trarrà ispirazione da adulto per alcune delle sue più belle e commoventi fiabe. C’è comunque tracciata, in modo latente, la strada a film e serie successivi giapponesi, che vedono un bambino solo, spesso “orfano”, in balia delle durezze del mondo degli adulti; come anche iconograficamente il piccolo Hans, dai capelli castano chiaro, preannuncia i successivi clichés iconografici di Pierre de Il gatto con gli stivali e Remigio di Senza famiglia, anche se il tutto non contribuisce a rendere particolarmente originale quest’opera.
(Andersen Monogatari Match Uri no Shojo – © Toei Animation)
(Nagagutsu o haita neko – © Toei Animation)
Il gatto con gli stivali (Tit. orig.: Nagagutsu o haita neko, 1969), prodotto da Hiroshi Okawa e diretto da Koro Yabuki, divenne in breve tempo uno dei classici dell’animazione giapponese, conferendo al Gatto Perrault il ruolo di “mascotte” del logo della Toei Doga, nonché il personaggio più popolare in quegli anni in tutto il Giappone. Il film, divenuto famoso anche grazie alla preziosa collaborazione di Miyazaki e Takahata, si nutre di tutta la tradizione precedente dei lungometraggi del Sol Levante, corroborato, però, da un gusto più fresco e moderno che si avvicina ormai sempre di più alla narrativa occidentale. Il lungometraggio ha inoltre, tutti quegli ingredienti necessari al film spettacolare, quali l’amore, l’umorismo, la suspance, ed il trionfo del bene sul male. Il lungometraggio del ’69 ebbe un tale successo che il Gatto Perrault divenne protagonista di altri due, senz’altro dal ritmo più moderno e da un’animazione più vicina a quella seriale; Continuavano a chiamarlo il gatto con gli stivali (Tit. orig.: Nagagutsu Sanjushi, 1972), ambientato nel selvaggio West, dove compaiono, seppur cambiati e riadattati, gli stessi protagonisti del precedente film: in quest’ultimo il gatto Perrault, perennemente inseguito dai tre sicari che vogliono eliminarlo per vendicarsi dei torti subiti, lo conducono questa volta nel selvaggio West; Pierre è, infatti, il giovane sceriffo Jim, mentre la principessa Rosa è la ragazza. Il gatto con gli stivali in giro per il mondo (Tit. orig.: Nagagutsu o haita Neko 80 Nichikan sekai isshu, 1976), è una rivisitazione del romanzo di Verne, questa volta composto di soli animali, più semplice del primo ma ben fatto nel ritmo, serrato e svelto, e nell’animazione, più semplice ma fluida. Il gatto Perrault, si trova questa volta a combattere col ricco Lord Porcon e il suo braccio destro (i quali ricordano molto Capitan Uncino e i suo scagnozzo Baron de L’isola del tesoro).
(Nagagutsu o haita neko – © Toei Animation)
(Nagagutsu o haita neko – © Toei Animation)
(Nagagutsu o haita neko – © Toei Animation)
(Nagagutsu o haita neko – © Toei Animation)
(Nagagutsu o haita neko – © Toei Animation)
(Nagagutsu Sanjushi – © Toei Animation)
(Nagagutsu o haita Neko 80 Nichikan sekai isshu – © Toei Animation)
(Dobutsu takarajima – © Toei Animation)
Gli allegri pirati dell’isola del tesoro (Tit. orig.: Dobutsu takarajima, 1969), è una singolare versione composta quasi totalmente da animali antropomorfi. Anche qui l’impronta di Miyazaki, che ha curato l’Art Direction, è evidente: come in Heidi, dove Petar è leggermente più piccolo d’età, anche Jim, al quale fa riferimento, è in netta inferiorità della scaltra Ketty, in quanto è la nipote del Capitano Flint; è interessante notare che mentre il vecchio pirata è un grosso gatto con tanto di benda all’occhio, la nipote è un personaggio umano, dolce ed aggraziata nei tratti del viso, leggermente zingara nella pettinatura, scaltra e scostante verso il più piccolo Jim; anche qui l’amore nasce a poco a poco, più basato sull’amicizia, che si viene a creare grazie alla competizione tra i due per ottenere la mappa dell’isola del tesoro, consegnata a Jim dal Capitano Flint e contestatagli dalla nipote per diritto ereditario; straordinari i personaggi della nave: Capitano Uncino, all’epoca uno degli uomini del capitano Flint, un grosso maiale vestito da pirata; la volpe Baron, dotata di monocolo (personaggi rielaborati ne Il gatto con gli stivali in giro per il mondo); il tricheco Otto, che stranamente si affeziona al fratellino piccolo di Jim; il cane cuoco della nave; il vecchio babbuino, altra caratterizzazione tipica degli Anime di quegli anni.
(Dobutsu takarajima – © Toei Animation)
(Dobutsu takarajima – © Toei Animation)
(Dobutsu takarajima – © Toei Animation)
(Dobutsu takarajima – © Toei Animation)
(Chibikko Remi to meiken Capi – © Toei Animation)
Senza famiglia (Tit. orig.: Chibikko Remi to meiken Capi, 1970), diretto da Yugo Serikawa, rappresenta il primo adattamento cinematografico dell’orfanello Remì di Hector Malot. Il film, per quanto meno impegnato dei primi lungometraggi, è davvero notevole perché richiama fortemente gli elementi iconografici classici (v. i protagonisti umani: il bambino, il vecchio, e gli animali), portando una ventata di modernismo definitivo al lungometraggio di ‘scuola’ nipponica ma rimanendo saldo alla tradizione. Oltre a Remigio (6), un bambino dal viso ovale e (che richiama l’ideazione di Hans de Le meravigliose favole di Andersen, e di Pierre de Il gatto con gli stivali) è semplice nei tratti come nello sguardo vagamente bamboleggiante, caratterizzato da una pettinatura a paggetto con la riga di traverso ed un berretto, simile ai precedenti Hans e Pierre, nonché dotato di un bel vestito a frange coi bottoni dorati e l’arpa a tracolla (v. l’idea dell’ascia di Hols); Capi, invece, è rappresentato come un goffo San Bernardo (altro stereotipo degli Anime), codardo ma buono, che non conosce le difficoltà della vita, che ricorda il più realistico cane di Anju to Zushiomaru, dello stesso autore. Anche i due cani della compagnia Vitali, Zerbino e Dolce, personaggi di contorno, ben si amalgamano per eterogeneità. (v. la psicologia dei: due marinai di Simbad, Tommy e Coco di Leo, Tortuga e Octopus di Ventimila leghe sotto i mari); la scimmietta Belcuore, un po’ la mascotte del film, anch’essa vestita in abiti da circo, farà amicizia coi nuovi arrivati, soprattutto con Capi, al quale insegnerà attraverso duri sforzi il coraggio nella vita; è alla fine dopo che la scimmiotta, nonostante la febbre alta, è morta intirizzita per svolgere ugualmente il suo spettacolo per aiutare Vitali e gli altri in difficoltà economiche, sarà Capi, sul finale, a ricordarsi dei suoi insegnamenti, portando in groppa Remigio per raggiungere a nuoto il battello con a bordo sua madre già partita; Belcuore, dal manto azzurro grigiastro e dalle “guance” formate dal vello in stile nipponico si va a collocare nella migliore tradizione dell’animazione giapponese, richiamando lo scimmiotto Goku, protagonista del primo film di Tezuka, nonché l’iconografia e il vestiario degli animaletti di Robin, dello stesso autore, realizzati quasi un decennio prima. Anche qui, accanto alle caratterizzazione degli animali, i personaggi adulti e di contorno, come Jerome, il vecchio Vitali e Giacomo Milligan (zio cattivo di Remigio dall’aria mefistofelica che si accompagna con un avvoltoio sulla spalla) sono tracciati attraverso il grafismo lineare e spoglio (v. i personaggi non protagonisti del Serpente bianco e di Sindbad), mentre straordinariamente riuscito è Vitali (che a metà film, visto che gli si affeziona, Remigio lo chiama direttamente nonno), inerente alla figura del vecchio barbuto, saggio e silenzioso, che si affeziona senza mostrare troppo i sentimenti al giovane protagonista di turno, figura riscontrabile nei lungometraggi animati giapponesi di cui ho parlato. Interessante la sceneggiatura attraverso cui Remigio conosce sul battello la signora Milligan, non sapendo si tratti della sua vera madre, la quale è in compagnia della figlia minore Lisa, che sembra avere con Remigio, quell’amore romantico, ideale, paterno e “protettivo” tra fratello maggiore e sorella, di cui ho richiamato l’attenzione descrivendone la psicologia nei primi lungometraggi giapponesi, rilevato soprattutto in Robin e i 2 moschettieri e ½, non a caso firmato anche dallo stesso autore. Capi, però, sul battello dei Milligan prova un feeling per la piccola Violetta, la piccola Yorkshire di Lisa, che timidamente rimane affascinata dal carattere bonario del grosso San Bernardo; anche la yorkshire fa parte dell’universo più classico giapponese (v. ad es. lo Yorkshire di Alice…fanciulla infelice, del suo maestro Yabushita). Nel film non mancano momenti commoventi: l’anziano girovago Vitali, un tempo il famoso cantante lirico Carlo Balzani, si affeziona a Remigio spontaneamente (non lo aveva “comprato” ma preso soltanto in “prestito”, come egli stesso aveva detto); come anche Remigio, che durante lo svolgersi del film si prende cura dell’anziano “nonno Vitali” quando ormai la sua vita è alla fine; come anche il rapporto con la signora Milligan, la quale, come Remigio, è ignara che il ragazzino sia suo figlio; ma entrambi, però, prima di lasciarsi avvertono un legame particolare che va ben oltre la conoscenza casuale tra la ricca e gentile vedova che offre ospitalità al piccolo suonatore girovago. Lo saprà poco dopo che Remigio l’avrà lasciata perché troverà nel battello un ciondolo, perduto da Remigio, che gli aveva donato da piccolo prima che il bambino le venisse rapito dal fratello.
(Chibikko Remi to meiken Capi – © Toei Animation)
(Chibikko Remi to meiken Capi – © Toei Animation)
(Chibikko Remi to meiken Capi – © Toei Animation)
(Chibikko Remi to meiken Capi – © Toei Animation)
(Kaitei sanman miles – © Toei Animation)
Ventimila leghe sotto i mari (Tit. orig.: Kaitei sanman miles, 1970), ideata dal celebre mangaka allievo di Osamu Tezuka, Shotaro Ishimori, per la regia di Kimio Yabuki (7), è un film notevolmente interessante, leggermente più sintetico del precedente, il quale si collega molto allo stile del noto autore di manga. Il giovane Isamu, in compagnia del suo ghepardo Cheetah, si ritrova a giocare a palla sulla montagna, quando, dalle viscere della terra, escono dei draghi-robot sputafuoco, creando il panico tra la gente. Lo stesso Ishimori portò al successo qualche anno dopo la serie Ryu, il ragazzo della caverne, con lo stesse musiche del compositore Takeo Watanabe, ed è da notare la sua passione per i draghi e i dinosauri facenti parte dell’antica mitologia nipponica, rivisitati attraverso l’ottica di giganteschi robot (l’idea del drago di questo film è presente anche nella serie del 1972, che vede Ryu combattere più volte contro il dinosauro Tyrano, come anche le musiche di sottofondo, riscontrabile in entrambe le produzioni). Shotaro Ishimori rappresenta spesso ragazzi con l’aspetto pre-adolescenziale, i quali si trovano all’improvviso a fronteggiare situazioni parossisticamente catastrofiche (v. il precedente, Sora tobu yureisen, 1969, non importato in Italia). Isamu, viene raffigurato attraverso lo stile inconfondibile di Ishimori: dal tratto rotondo, vagamente rievocante Tezuka nella sintesi, coi capelli compatti su una testa tondeggiante (v. anche il protagonista di Cyborg 009), dagli occhi enormi e ancora ragazzino nell’aspetto, il quale ha occasione di conoscere la giovane erede di Atlante. La principessa Angela del reame degli abissi, (che ricorda la ‘maghetta’ Tansuko della serie The Monkey del maestro Tezuka e, più in generale, gli stereotipi della mocciosa degli Anime giapponesi), è una ragazzina viziata con una pettinatura semi-spaziale con al centro una vistosa stella marina a mo’ di stemma, erede al trono del regno sottomarino minacciato dal malvagio Magma VII (v. tipologia di Grunwald de Il principe Valiant). Cheetah il ghepardo, slanciato e dai grandi occhi in pieno stile nipponico, si avvicina però maggiormente ai personaggi di Tezuka di Leo rispetto alla consueta iconografia degli animali dei cartoon giapponesi (Ishimori era stato fin da ragazzo un grande estimatore di Tezuka, tanto che il suo stile ne fu molto influenzato al punto che le sue prime opere risentono notevolmente dello stile del suo Maestro).
(Kaitei sanman miles – © Toei Animation)
Anche l’animazione è più secca, compensata però da una cura nel segno, sottile e delicato, con numerosi particolari delineati a tratto colorato così da ammorbidire le figure, anch’esse dai colori accesi e luminosi all’interno di un’impostazione della scene ariosa e panoramica; inoltre molti sono i riferimenti alla tecnica di animazione di Tezuka: anche qui i personaggi hanno spesso il viso fermo, disegnato su una celluloide di base, mentre la diversa espressione delle bocche (di allegria, di stupore, di gioia o spavento), ne determina la psicologia emotiva. I due scagnozzi della principessa Angela a bordo del sommergibile spaziale ‘chiocciola magica’, Tortuga e Octopus, uno basso e grasso e l’altro magro e alto, dalla faccia schiacciata e tridimensionale al tempo stesso, fanno parte invece del grafismo lineare (v. i due marinai di Simbad, ecc.), più modernizzati con caschi e tute spaziali e aderenti allo stile del film. Naturalmente mi riferisco a caratteristiche comuni, filtrate però attraverso personalità e stili propri. Per quanto il design di Ishimori sia sintetico, è da rilevare l’ottima regia nonché inquadrature cinematografiche che preludono ai film dal vero e ai lungometraggi con i robot giapponesi, dall’effetto anamorfico e panoramico. E’ interessante notare che negli Anime, oltre la situazione dei primi lungometraggi in cui l’uomo ha una funzione adulta e protettiva, nei successivi l’uomo è in netta inferiorità o perché è più piccolo d’età o perché la donna appare sempre misteriosa o ambigua, ambiguità che ovviamente stuzzica l’uomo, la quale si rileva, prima del finale, sempre più scaltra del suo corrispettivo maschile: cattiva e stregata in Alice…fanciulla infelice; doppia e misteriosa ne Il Principe Valiant; furba e scaltra ne L’isola del Tesoro; semi-spaziale e proveniente da una civiltà tecnologicamente più evoluta in quest’ultimo film. Anche qui, la donna, oltre a un che di misterioso e ad una certa scaltrezza è in una condizione di netta superiorità: è una principessa di un altro regno, ma semplice e alla mano col piccolo bambino giapponese: quando Isamu la salva dal mostro di fuoco, Angela lo ripaga facendolo viaggiare nella sua ‘chiocciola magica’; scampati al pericolo, Isamu le mostra dall’alto della montagna la sua casa: una villetta moderna a due piani, (il bambino proviene da una famiglia borghese in quanto è figlio di un ingegnere navale), mentre Angela, quando Isamu gliela indica, gli risponde quasi stupita: “Quella sarebbe la tua casa? Però è molto piccola”; gli dice la principessa abituata ad abitazioni di tutt’altra capienza, provocando la reazione offesa nonché di curiosità del giovane Isamu rispetto allo stato sociale della sua nuova amica. “Cosa ti aspettavi una reggia?”, incalza il bambino seccato. Questo botta e risposta tra i due bambini, conosciutisi casualmente, i quali ancora non assumono il ruolo di giovani innamorati che si instaurerà in modo velato in seguito seguendo ancora un tipico approccio adolescenziale. E’ qui che Angela, saldato il debito col ragazzino, cerca di salutarlo definitivamente, quando Isamu, trovando il modo di proseguire il discorso, le ricorda di averla salvata una seconda volta, tant’è che lo porta a visitare la sua abitazione. La sorpresa è d’obbligo: Isamu a bordo della ‘chiocciola magica’ viene condotto nella “casa” di Angela, un regno sottomarino ignorando che ella ne sia l’erede, finché non la ritrova vestita in abiti principeschi, accanto all’anziano genitore.
(Kaitei sanman miles – © Toei Animation)
V’è una disparità, oltre che sociale, anche “professionale” tra Isamu e Angela (nobile e tecnologicamente più avanzata); quando entrambi scendono le miglia sottomarine, Angela, mostrandogli il “suo” ambiente, gli chiede, “Ti piace?” e Isamu, come fosse un argomento che già conosce, risponde con orgoglio, “Non è la prima volta che scendo in fondo al mare. Ho accompagnato mio padre che studia il fondo marino”. La ragazza è pronta a spiegarli, “Non credo che sia mai arrivato fino a questa profondità. Guardati un po’ attorno!”. Anche il Re di Atlante, padre della principessa Angela, ricalca la figura dell’anziano barbuto di cui ho richiamato l’attenzione precedentemente, riportato però alla logica semi-comica dello stile Ishimori-Tezuka (v. il prof. Gillmore di Cyborg 009, che ha un solido naso in fuori, vagamente grottesco, non dissimile da quello del padre di Isamu del film in questione). Inoltre Ventimila leghe sotto i mari, ispirato ai telefilm spaziali giapponesi anni 60, traccia la strada ai modelli di numerose serie televisive nonché di film a lungometraggio.
Sempre di Ishimori nel 1971 in Italia pervenne nelle sale cinematografiche il film col titolo di 009 Joe Tempesta (8) (Tit. orig.: Cyborg 009), a cui seguirà un altro film e ben due serie televisive.
(Kaitei sanman miles – © Toei Animation)
(Kaitei sanman miles – © Toei Animation)
(Kaitei sanman miles – © Toei Animation)
(Ari Baba to Yonjuppiki no Tōzoku – © Toei Animation)
Alì Babà e i 40 ladroni (Tit. orig.: Ari Baba to Yonjuppiki no Tōzoku), del 1971, è invece diretto da Hiroshi Shidara (il regista della futura serie Candy Candy), al quale diede un contributo notevole Hayao Miyazaki, che giocò un ruolo decisivo nello sviluppo della struttura, in special modo nella rivisitazione stilizzata dei personaggi e delle prospettive soprattutto delle sequenze finali. Qui, pur mantenendo l’atmosfera orientalizzata, il protagonista delle Mille e una Notte è rappresentato in una modernizzazione, come dire, generazionale, essendone il discendente diretto Alì Babà XXXIII (idea adottata dai giapponesi presente anche nell’erede del ladro gentiluomo francese, Lupin III). Ma stavolta il vero protagonista è il simpatico moccioso col turbante Huck, discendente del capo dei quaranta ladroni, che assieme a una combriccola di 38 gatti e un saggio topino, si vendicherà del suo antenato e usurperà il trono al re Alì Babà, che si avvale del grottesco genio della lampada, un mostriciattolo rosa affetto dalla paura dei felini (idee rielaborate scherzosamente dal precedente e più serio Il Gatto con gli Stivali).
Ottima l’idea del racconto del topino saggio che rievoca ad Huck le gesta di Ali Babà e del tesoro dei quaranta ladroni, in una grafica trasognata attraverso l’uso delle sagome in penombra di silhouettes o ombre cinesi animate; tecnica usata raramente ma al meglio dai giapponesi (v. la serie, uscita in Italia nel 1979 sulla Rai 2 intitolata Racconti giapponesi, sempre di domenica mattina su Qui cartoni animati dopo il successo dell’anno prima di Fiabe e leggende giapponesi).
(Ari Baba to Yonjuppiki no Tōzoku – © Toei Animation)
(Ari Baba to Yonjuppiki no Tōzoku – © Toei Animation)
(Ari Baba to Yonjuppiki no Tōzoku – © Toei Animation)
(Panda no Daibōken – © Toei Animation)
L’orsetto panda e gli amici della foresta (Tit. orig.: Panda no Daibōken), 1973, per la regia del veterano Yugo Serikawa, è un film eccellente e perfetto nella confezionatura, una rielaborazione moderna di Robin, con protagonista il piccolo panda nipponico, il principino Din Don, sempre accanto ai due amichetti procioni Pinch e Tonch (non a caso la direzione dell’animazione è affidata allo stesso character designer della serie Toei del ’72, La maga Chappy, nella quale c’è il procione parlante Duncan, praticamente identico a quelli del lungometraggio. La storia è semplice e ben strutturata nella trama: Din Don è un ‘mulatto’, essendo il figlio di una nobile Regina orso e di un Re Panda, dal quale il principino ha preso completamente i caratteri, e deve conseguire una difficile prova per raggiungere l’incoronazione: risalire una cascata, pena il fatto che, non riuscendoci, dovrà essere cacciato dal reame. Ovviamente nel film esistono, oltre ai buoni, i cattivi: il feroce orso Demon, dalla cicatrice in testa, che ambisce in assenza dell’erede a usurparne il trono, e il suo scagnozzo Fifi (l’idea ricorda il Capitan Uncino e il pirata Baron de L’isola del tesoro); e, accanto alla Regina, l’anziano saggio orso dai baffi cadenti che si perde la dentiera… oltre a diversi animali conosciuti all’interno del film, tra i quali anche la protagonista femminile, la pandina Pippi, che Din Don incontrerà nel circo, dove l’orsetto panda si eserciterà per tornare a sostenere la prova della cascate nel reame nel frattempo usurpato dal crudele Demon… Si noterà che alcuni brani musicali vennero in seguito usati nel famoso episodio 19 di Jeeg Robot, Il cavaliere senza macchia e senza paura; come anche la canzone ‘Ninna nanna dei panda’ è eseguita da Masako Kawada e il testo fu scritto da Hiroyasu Yamaura, uno dei sceneggiatori della serie TV Kōtetsu Jīgu; il tutto tradotto in una storia semplice ed efficace, un melodramma dove non mancano momenti di commozione, di avventura, di divertimento, di eroismo, e di lotta tra il bene e il male, per la regia del Maestro del lungometraggio per l’infanzia della Toei Animation Yugo Serikawa.
(Panda no Daibōken – © Toei Animation)
(Panda no Daibōken – © Toei Animation)
(Panda no Daibōken – © Toei Animation)
(Panda no Daibōken – © Toei Animation)
(Panda no Daibōken – © Toei Animation)
Mario Verger
Si Ringrazia: Enrico Morganti
Le origini del cinema di animazione del Sol Levante
Note:
(1) Leo, il re della giungla, arrivò in Italia come altri spacciato come un prodotto americano. Per rendere “comprensibili” i nomi originali, i titoli con le seguenti diciture furono tradotti all’americana in modo umiliante per gli autori giapponesi anche se divertenti nelle assonanze: Regia di All Bisney; Soggetto e Sceneggiatura di Ald Monthen; Adattamento di Henri Bajard; Dialoghi di Boris River
(2) Anche questo film giunse in Italia privato dei titoli originali e risulta della Eighteen Films, distribuito dalla Alexia Cinematografica, per la regia di un certo Gil Gelsen
(3) Il film in questione, per quanto giunto in Italia, doppiato e distribuito, non è stato mai citato come un film pervenuto a noi, neanche sul cospicuo volume dei Kappa Boys che lo indicano identificandolo esclusivamente col titolo originale giapponese. Andrea Baricordi, Massimiliano De Giovanni, Andrea Pietroni, Barbara Rossi, Sabrina Tunesi, dal titolo, Anime. Guida al cinema di animazione giapponese, Granata Press, Bologna, 1991, pp. 320
(4) Il film arrivò in Italia distribuito nei cinema dalla Glam Oriental Films, in un’edizione curata dalla Dragon Films, accreditando la regia di un incerto americano di nome Terence Flasch… un lontano cugino dei fratelli Fleischer
(5) La regia in Italia è formata da un certo Fleish (facendolo passare come All Bisney parente di Walt Disney, per cugino dei fratelli Fleischer
(6) Senza famiglia giunse agli inizi degli Anni ’70 in Italia doppiato col nome del protagonista, Remigio. Dopo la serie Remì, i distributori italiani pensando di sfruttare il successo immediato della nuova serie televisiva, riproposero nei cinema con scarsi successi il film di Serikawa, intervenendo sulla precedente versione italiana, “sforbiciando” le ultime tre lettere finali del nome Remigio, tagliando cioè i fotogrammi o inserendo brevi pause sulla colonna sonora in maniera del tutto arrangiata. Inoltre, al film originale, venne aggiunta in testa la canzone di Jimmy Fontana e nei credits il nome del regista viene italianizzato da Yugo Serikawa in Ugo Serigawa
(7) Nei titoli del film in edizione italiana Kimio Yabuki è diventato Kinio Yabuki
(8) Il film in questione, come al solito venne adattato all’occidente americanizzando il nome del regista in Denis Marin, mentre il regista autentico, Shotaro Ishimori, compare invece come sceneggiatore
L'articolo che hai appena letto gratuitamente a noi è costato tempo e denaro. SOSTIENI RAPPORTO CONFIDENZIALE e diventa parte del progetto!

