DocLisboa, il cinema è perdersi nel tempo
Doclisboa 2015 | 22 outubro – 1 novembro | doclisboa.org
Si è concluso il 1 novembre DocLisboa, un festival in cui è difficile avventurarsi senza delle coordinate precise, indubbiamente somiglia alla città che lo ospita, una città magnifica in cui è facilissimo perdersi in stradine impervie che poi diventano splendidi miradouri, in piazze magniloquenti che portano a quartieri storici, una città che è quasi un passaggio da una dimensione all’altra del tempo.
DocLisboa è uguale, già dai luoghi capisci di esser capitato in un festival unico: l’enormità del cinema Sao Jorge non può lasciare indifferenti, la splendida Cinemateca è un gioiello così come il minuscolo Cinema Ideal ai piedi del Bairro Alto. La sede del festival è invece in un posto stravagante, il Culturgest, che si trova all’interno di un inquietante edificio della Caixa Geral de Depósitos del Portogallo, è come se un nostro festival avesse la sede dentro al palazzo della Banca d’Italia.
Avevamo già presentato il festival nell’intervista con uno dei tre direttori, Davide Oberto, e possibili visioni fin da subito mi erano sembrate spropositate, perciò non ho potuto che selezionarle. Il bello del festival è stato passare dai documentari contemporanei a incredibili reperti storici, da piccoli film portoghesi alla retrospettiva sulla rappresentazione del terrorismo, da un film fiume sull’Iraq a cortometraggi sulle periferie algerine. È stato un festival ricchissimo che ha regalato visioni fuori dall’ordinario, vado perciò a ruota libera mischiando vari film tra concorsi e non, retrospettive e omaggi.
Parto da una delle esperienze più strabilianti: Homeland (Iraq Year Zero) di Abbas Fahdel, incredibile film di 5 ore e 34 minuti sulla quotidianità in Iraq tra il 2002 e il 2003 in attesa e durante la guerra. Tra Baghdad e un vicino villaggio si compie la vita di una famiglia che vive cercando di razionare cibo e acqua, un attore cerca di aprire un teatro ma poi si ubriaca al matrimonio della figlia, altri vivono e aspettano. Nelle prime 2 ore e 40 aspettiamo, le persone sono nella inquietante normalità dell’attesa di essere bombardati, molti ricordano la guerra del golfo e cercano di ripetere le stesse cose. Nella seconda arriva una guerra che noi non vediamo, almeno non vediamo la guerra nell’atto di compiersi ma vediamo cosa è rimasto dopo dieci giorni dall’invasione di terra: i checkpoint, le macerie, i racconti dei bambini che guardavano i bombardamenti, gli aerei che sorvolano la città mentre in casa si cucina e si guarda la tv. Capiamo chi morirà da semplici e terrificanti didascalie, il digitale è sporco e brutto ed è perfetto per un film umanissimo, senza retorica e senza proclami. Una di quelle esperienze che solo ai festival sono possibili. Per fortuna.
Sobytie – The Event di Sergei Loznitsa è stata l’altra folgorazione del festival, un film enorme con materiale girato nel 1991 nell’allora Leningrado, ora San Pietroburgo, durante i giorni del tentato colpo di stato del 1991 che porterà alla fine dell’Urss. Tutto girato in piazza, in mezzo alla gente comune che scende in strada, giovani soprattutto, reduci dall’Afghanistan che espongono striscioni “i soldati non sparano al loro popolo”, la costruzione di barricate, il sindaco della città che appoggia la piazza, i tentativi di capire cosa succede, i comunicati che vengono lanciati dalle finestre del potere, radio e tv improvvisate sono l’unico mezzo di informazione. Il modo di stare in mezzo alle persone di Loznitsa (e dei suoi operatori e del poco footage che ha utilizzato) è straordinario, nella prima parte è sempre addosso ai volti, la camera si muove tra lo stupore e la voglia di reagire, ci fa arrivare la dignità delle persone più della rabbia, i discorsi dei politici o le invettive sono sempre fuori campo, emerge un popolo al centro di un evento storico e l’incombente “Lago dei cigni” di Tchaikowsky ne sottolinea la grandiosità. Nella seconda parte invece il discorso pubblico emerge e anche il modo di riprendere la piazza cambia, ci sono spesso inquadrature dall’alto, dai palchi, i politici e i religiosi riprendono il potere, c’è il cambio simbolico della bandiera, si ammaina quella sovietica e si ostenta il tricolore russo. C’è la piazza che si svuota, negli ultimi cinque minuti si entra per la prima volta in un interno, il Palazzo è preso, il nuovo ordine è arrivato. Rimangono le stesse persone di prima, sempre in bianco e nero, come se poco fosse realmente cambiato.
Un film italiano ha invece vinto il concorso principale: Il solengo di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, una coproduzione italo-argentina stravagante, un film sostanzialmente diviso in due parti: una prima in cui un gruppo di arzilli vecchietti discutono di una specie di “matto” del villaggio e una seconda in cui tutto il senso del film è ribaltato. Il paesaggio della bassa toscana accompagna un viaggio nel mistero, sicuramente è un lavoro visivamente notevole che si inserisce proprio nell’idea del festival, un film senza coordinate che pone delle domande e non per forza deve dare risposte.
Sempre sui film di casa nostra, finalmente sono riuscito a vedere Bella e perduta di Pietro Marcello, un regista che amo molto. Il film parte dalle viscere del Vesuvio, c’è Pulcinella, c’è un bufalotto chiamato Sarchiapone, c’è una Reggia abbandonata, c’è un angelo. È un film complesso, non può che essere così quando si perde il protagonista durante le riprese. Marcello è un regista che ha voglia di rischiare come pochi, per certi versi questo è il suo viaggio in Italia, un film che fa politica, un po’ fiaba e un po’ documentario, un po’ sogno e un po’ realtà, un film alla ricerca della bellezza perduta che fa pensare al nostro paese e anche al modo di fare cinema.

Cinemateca Portuguesa. Rua Barata Salgueiro 39, Lisboa – img by Claudio Casazza
Un altro film importante è stato Matériaux de Hongrie di c, notevolissimo lavoro che parte dalla svolazzante bandiera ungherese con un buco al centro, poi alterna vita quotidiana, monumenti, filmati di archivi di stato, documentari industriali, repertorio con partite di calcio, film muti, camere d’albero, sfilate di moda, bambini che giocano, manifestazioni. Senza commenti e senza volontà narrative. 2 ore e mezzo di immersione nell’immagine, il montaggio fa il film e con l’associazione di materiali diversi si prova a ricostruire cos’è un paese.
Molto interessante Aragane di Kaori Oda, film bosniaco ambientato in una miniera. Aragane è una parola giapponese che si usa per indicare pezzi di carbone o qualcosa estratto da una roccia. Il film è tutto su questa parola, su quel che esce dalla miniera, sulle persone, il lavoro e il loro sforzo fisico in turni di otto ore sotto terra, tutti i giorni, senza la luce del sole. Classico documentario di osservazione dove quel che sembra noioso non lo è. Quel che poteva essere il film cinese osannato a Venezia, Behemoth, che invece non è.
Tra gli altri film visti in concorso è stata una delusione il corto di Ben Rivers, A Distant Episode, che riprende il suo lungometraggio The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers, presentato a Locarno e anch’esso visibile a Lisbona: è un film nel film in terra marocchina con il suo solito stile che affascina ma che non riesci ad afferrare, a tratti ti immergi nei suoi film ma poi pensi che sia tutto un esercizio di stile, un gioco fine a se stesso.
Sempre nel concorso internazionale, è stato Interessante ma fin troppo calligrafico And when I die, I won’t stay dead di Billy Woodberry, un’inchiesta sul poeta nero (e beat) Bob Kaufman, un documentario dalle belle atmosfere e con un’ottima colonna sonora piena di musica sixties, sicuramente utile per chi non conosce Kaufman ma nulla di più. La Visite di Pippo Delbono è invece un cortometraggio ambientato a Versailles che mi ha lasciato perplesso, una perplessità che accompagna tutta l’opera cinematografica di Delbono.
Sorprendente è stata invece la visione di Babor Casanova di Karim Sayad, un doc corto svizzero di poco più di mezz’ora che racconta senza orpelli la vita di due ragazzi alla periferia di Algeri. I due passano il tempo tra piccoli traffici e il tifo per la locale squadra di calcio, un piccolo film intenso in cui la vita sgorga da ogni inquadratura.
Molto interessante anche se molto faticoso è stato Last Man in Dhaka Central che il realtà è la terza parte della trilogia The Young Man Was del giovane regista del Bangladesch Naeem Mohaiemen. Capita spesso una visione difficile in un festival, il bello dei festival è proprio questo, essere freschi come una rosa la mattina e devastati la sera. Il film narra la storia di un olandese che va in Bangladesh nel 1973 per conoscere i movimenti rivoluzionari nel paese e finisce per essere imprigionato dal nuovo governo militare. Il documentario si inserisce negli altri due film, il primo sul dirottamento di un aereo di cui sentiamo solo l’audio della torre di controllo e il secondo più generico sui movimenti rivoluzionari narrati da un voce off. Un percorso sicuramente importante.
O Futebol di Sérgio Oksman è invece un buon film incentrato sul rapporto padre-figlio: i due non si vedono da più di 20 anni ma alla vigilia della Coppa del Mondo 2014 il figlio torna a San Paolo nella speranza di vedere le partite con il padre, come si usava quando era un ragazzino. Sembra essere un piano perfetto ma con il passare dei giorni si trasforma in un rito pericoloso, è un film intimo, amaro e divertente. Qualche dubbio mi permane ma è film sicuramente interessante.
Schicht di Alex Gerbaulet è anch’esso un film personale, un cortometraggio su un piccolo villaggio tedesco, una fabbrica e di come la modernità ha cambiato la vita alla famiglia della regista. Alternanza di materiali diversi cercando di scavare tra pubblico e privato che fatica un po’ nella scelta di una narrazione troppo convenzionale.

Cinema Ideal. Rua do Loreto 15, Lisboa – img by Claudio Casazza
La competizione portoghese comprendeva invece sei film, sono riuscito a vederne tre: Portugal – Um Dia de Cada Vez di João Canijo e Anabela Moreira è il più classico, si tratta della prima parte di una trilogia sul Portogallo meno conosciuto, rurale soprattutto. I registi vanno in piccoli paesi del nord, al confine con la Spagna, e incontrano le persone, li riprendono nella quotidianità e realizzano quasi dei piccoli cortometraggi, molto umani che scavano nel privato, il fado li accompagna a metà film e il tocco rimane lieve, mai torbido.
Gli altri due sono invece molto particolari: Wake up, Leviathan di Carlos Conceição è un oggetto non identificato che prima sembra un documentario sulla trasformazione dell’Angola, ex colonia portoghese, che poi diventa fantascienza e apre orizzonti inesplorati. Il film indubbiamente migliore è stato Rio Corgo di Maya Kosa e Sérgio da Costa, anch’esso uno strano oggetto poiché parte da un personaggio vero che interpreta se stesso ma che poi prende strade surreali: un vecchio vagabondo arriva in un remoto villaggio, incontra Ana con il quale crea un rapporto di amicizia e di iniziazione. La ragazza scivola gradualmente nel suo universo immaginario, popolato da esseri soprannaturali. Strane crisi colpiscono il vagabondo e lo portano in ospedale. È un film che affascina per il rigore e per certe scelte di messa in scena, i due giovani registi hanno un’idea di cinema chiara.
Il Focus sulla Grecia è stato una fucina di film straordinari, si poteva spaziare dalla trilogia di Jean-Daniel Pollet (L’ordre, Bassae e Trois jour in Grece) all’immenso La recita (O thiasos) di Anghelopoulos, ma è stato anche il luogo del film che non ti aspetti: Aldevaran di Andreas Thomopoulos, film greco del 1975 a me totalmente sconosciuto. Sono entrato in sala senza aspettative poiché era l’unico film possibile da vedere e sono rimasto frastornato. Pellicola e b/n che ti fanno immergere negli anni ’70, una storia d’amore impossibile tra un poeta rocker e una prostituta. Vita vera che si sovrappone a una finzione che sbalordisce, colonna sonora che alterna Rolling Stones e Jethro Tull, follia visiva e narrativa, sperimentazione ed emozione. Cinema.
Altri film fuori dal concorso principale rappresentano un pezzo di storia del cinema documentario: il molto divertente How to smell a Rose: a Visit with Ricky Leacock di Les Blank e Gina Leibrecht è piccolo lavoro in cui due grandi vecchi si confrontano e discutono tra loro. Leacock è stato uno dei pionieri del cinema documentario, ha lavorato con Flaherty in Louisiana Story nel 1948, il più giovane Les Blank è stato anche lui un grande documentarista. In questo incontro Leocock ci parla con amore dei suoi maestri e di come è cambiato il cinema nel corso degli anni, narra soprattutto della suo vita francese, è un lavoro giocoso e pieno di vita, nonostante i due moriranno pochissimo dopo la fine del film.
Si poteva vedere anche il nuovo Wiseman In Jackson Heights (che purtroppo non ho visto) e l’ultimo film di Chantal Ackerman No Home Movie, un ritratto della madre novantenne che ci fa vedere il mezzo cinema in tutta la sua forza, la Ackerman filma la madre in lunghe sequenze nel suo appartamento a Bruxelles, si filma mentre è in viaggio e mentre è su skype, lunghe chiaccherate a tavola ci mostrano un legame fortissimo dove la quotidianità si mescola al passato. Forse non è il suo testamento ma è un film ancora più significativo conoscendo il legame che c’era tra le due donne e la scelta tragica che ha fatto poi la regista.
Sempre in tema di cinema personale, che mi affascina sempre, devo scrivere qualcosa su Five Year Diary: Reel 22, 23 e 26 di Anne Charlotte Robertson. Il suo cinema che non conoscevo è qualcosa che sorprende e inquieta. Questi tre Diari, girati tra il 1982 e il 1983, sono una piccola parte di un materiale ancora più corposo: tutto in super8 con la regista davanti alla camera, montaggio serrato e vita che scorre come nella migliore tradizione del documentario in prima persona, alla Ed Pincus per intenderci. Questi Diari sono diventati parte della sua vita, la regista ha sofferto di disturbi mentali, ha frequentato ospedali psichiatrici e ha sempre documentato le sue esperienze davanti la camera. Il cinema diventa così quasi terapeutico e la Robertson mescola le sue ossessioni: dalla cucina alle diete, ma soprattutto la malattia e il desiderio d’amore. Documenti eccezionali, intensi ed emotivi, intimi e ossessivi, clamorosi.
In conclusione l’ultimo film di un altro grande vecchio del documentario che appena scomparso: Albert Maysles e il suo In Transit (co-regia con Lynn True, Nelson Walker, Ben Wu, David Usui), è un viaggio attraverso i cuori e le menti dei passeggeri a bordo dell’Empire Builder, il treno a più lunga percorrenza d’America. Grande metafora di viaggio e di persone nel cuore degli Stati Uniti.
Un viaggio per finire, come è un viaggio andare al cinema, soprattutto a Lisbona. •
Claudio Casazza
Doclisboa 2015
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