A…come Animazione

La linea, Osvaldo Cavandoli

Dopo le decine di migliaia di visite di lettori da ogni parte del mondo che hanno seguito i miei articoli sul linguaggio del cinema disegnato pubblicati su «Cinemino», abbiamo deciso la pubblicazione on line del libro Cartoni d’Italia, che si avvale della prefazione esclusiva di un maestro dell’animazione internazionale come Bruno Bozzetto, con la speranza che l’inedita raccolta di studi che lo compone permetterà, di fatto, a tutti di vivere la Storia dell’Animazione Italiana, dalle origini sino ad oggi.

di Mario Verger

Cartoni d’Italia.

Cos’è l’animazione italiana? Oggi come ieri la situazione non è cambiata granché… Ne è prova ciò che affermò oltre un trentennio addietro il critico Mario Pintus in A…come Animazione, un libro straordinario ormai introvabile sulla Storia del cinema di animazione mondiale, quando, introducendo il capitolo riguardante il Bel Paese, scrisse: «Una vera e propria scuola dell’animazione, in Italia, non è mai esistita. E’ piuttosto esatto affermare il contrario, in quanto, così come in molte altre nazioni, tale forma di spettacolo ha potuto vivere esclusivamente grazie, al talento e alla perseveranza di pochi e fanatici assertori del disegno in movimento.
L’artista italiano, salvo alcuni e recentissimi casi, ha sempre impostato il lavoro su base artigianale, quasi casalinga, affinandosi autonomamente nello studio delle tante soluzioni del disegno e delle riprese. Assume quindi maggior valore quanto prodotto dai primi coraggiosi pionieri, da noi ancora tali quando in altri paesi il genere animato vantava ormai una storia di oltre trent’anni. Tanto più rimarchevole se si pensa di come certe creazioni non abbiano avuto il tempo di essere standardizzate. Hanno vissuto si lo spazio di un attimo – per la mancanza di un mercato idoneo e maturo – ma hanno vissuto bene nel senso che rimangono spontanee e felici, perché dovute alla passione, che è la prima molla dell’arte, ma anche perché realizzate con gusto genuino e grande libertà tematica
».
Sull’Animazione Italiana c’è stata una grande approssimazione in passato la quale ha portato ad una grossolana e frammentata conoscenza odierna.
I critici cinematografici – i quali non soffrono della “deformazione professionale” di cui spesso sono oggetto gli specialisti settoriali dell’animazione –, rimangono a dir poco spiazzati nel vedere tante pagine dedicate ad autori di ridotta importanza erti a maestri del cinema animato, mentre, per il versante opposto, gli appassionati conoscitori non trovano una riga in omaggio ai loro autori preferiti – oggi al contrario di ieri riconosciuti dalla critica ufficiale – ignorando, per contro, del tutto o quasi le espressioni artistiche dei settoriali autori festivalieri; e, in conseguenza a ciò, per gli uni e per gli altri, l’“equivoco” non può che proseguire… venendosi così a creare, di fatto, lacunose confusioni relative a stili e date, settorialismo e approssimazione di giudizio.
Oggi, quindi, l’animazione italiana, dopo Carosello appunto, è qualcosa di evanescente, un’incongruenza di stili mal capiti espressa con il massimo dilettantismo, il fanalino di coda d’Europa se non dell’intero pianeta.
Esaminiamo dall’interno e vediamo laddove c’è l’«errore» che ha portato di fatto a far crollare l’intero edificio.
Comparando gli scritti dell’epoca dei vari studiosi trattati, è interessante notare che il discorso risulta più o meno unanime sui vari Luzzati, Zac e Manfredi, mentre severe discordanze si possono evidenziare quando, per la prima volta, gli stessi critici si cimentarono a studiare forme espressive le quali, al di là delle apparenze, si rivelarono straordinarie novità, risultando in seguito le pietre miliari dell’animazione italiana.
Nel testo di Rondolino, senz’altro inizialmente il più compiuto, vi sono pagine eccelse, soprattutto nella prima parte riguardante il cinema astratto e la cinepittura futurista ma, è da notare, che nessuno dei suoi studenti, forse per sincero rispetto al docente, forse per accettare teorie per partito preso, ha mai osato andare oltre i “dogmi”, quando invece lo stesso studioso aveva soltanto e in perfetta buona fede espresso una sua valutazione relativa ad un proprio gusto relativamente ai film dell’animazione italiana da lui in quei decenni visionati.
Ciò che, invece, c’è di veramente scandaloso è che altri se avessero seguito le sue intuizioni, approfondendole verso un progresso futuro anziché per la stagnazione del presente, ne avrebbero senz’altro tratto il meglio; quando invece, per non sbagliarsi, per non contraddirsi, per non osare oltre la certezza, hanno ripetuto come un dogma ciò che era semplicemente l’espressione un gusto, facendone, di fatto, una sterile tradizione farisaica.
Personalmente non ho motivi per seguire i rondoliniani, ma scelgo esclusivamente il meglio delle intuizioni del Rondolino, Bendazzi e Pintus.
Lascio quindi l’ovvio e prendo il meglio dai loro studi.
Ad esempio, dove possiamo rintracciare le intuizioni sul Pioniere di Alassio?
Negli scritti dei suoi stessi “scopritori”. Vediamoli.
In Storia del cinema d’animazione, al capitolo L’Europa occidentale dopo il 1945, alla p. 299, Rondolino scrisse: «Al di fuori dei lungometraggi di Domeneghini e dei Pagot, ci furono in quegli anni alcuni tentativi isolati di disegni animati spettacolari come Lalla, piccola Lalla (1947) dei Pagot, una delicata fiaba infantile, o L’ultimo sciuscià (1948) di Gibba (Francesco Maria Guido), di tendenza neorealistica; ma i risultati furono alquanto deludenti e, in ogni caso, questi esempi non aprirono la strada al disegno animato spettacolare che […] si affermò in Italia, tra non poche difficoltà, soltanto nel corso degli anni sessanta, con i primi cortometraggi di Bruno Bozzetto, di Pino Zac, di Emanuele Luzzati e Giulio Gianini, dei fratelli Gavioli e di altri. Saranno questi autori e le loro opere a segnare la vera e propria nascita del disegno animato italiano, per troppi anni incerto tra pubblicità e spettacolo, tra disneysmo e antidisneysmo».
Lasciamo andare farisaiche precisazioni: chi è dell’ambiente sa bene dell’impossibilità effettiva di prender diretta visione del materiale della cinematografia animata d’epoca: esso è quasi sempre andato perduto, distrutto durante la guerra, girato su pellicola infiammabile o semplicemente mai portato a termine. E questo gli esperti lo sanno.

Una celluloide di Gibba

Lasciamo anche perdere per l’identificazione anagrafica del Pioniere ligure i vari Sic e parentesi quadre ad essi annesse, anche se bisogna ricordare che in passato non solo l’opera ma perfino il nome è stato ripetuto in tal modo. Io stesso, nell’opuscolo che conteneva l’estratto di Paolone, lessi il nome di Gibba quale pseudonimo di “Francesco Maria Guido” – anche se forse suona perfino meglio…
Ma la pubblicazione del Rondolino risaliva al 1974 e si può senz’altro supporre che lo studioso piemontese non avesse ancora preso personalmente visione de L’ultimo sciuscià, visto che la pellicola infiammabile non era disponibile fino agli inizi del 1980, anno in cui ne entrò in possesso con una copia la Cineteca Nazionale di Roma.
Infatti, in seguito, lo stesso Gianni Rondolino ebbe a visionarlo in prima persona in Cecoslovacchia, in occasione del Simposio Internazionale sul «Cinema di animazione del dopoguerra. 1945-1959» a conclusione del Convegno Fiaf (Federazione Internazionale degli Archivi del Film), tenutosi a Karlovy Vary, di cui egli per primo rilevò sul quotidiano torinese La Stampa il 2 luglio 1980, con l’eloquente titolo «Lo sciuscià rivale di Walt Disney» scrivendo: «…Vi è infatti in questo film un tono decisamente antidisneyano, nella forma e nel contenuto, che indica, sia pure timidamente, una strada “nazionale” al disegno animato del dopoguerra, fuori dalle strade battute dai confini imposti dalla produzione hollywoodiana, in particolare da quella di Walt Disney. […] Il film di Gibba, come molti altri presentati a Karlovy Vary, testimonia di questa progressiva liberazione e costituisce anche un buon esempio della nascita di una scuola nazionale».
Come si può notare, quindi, fu lo stesso Rondolino, una volta visionato il film del giovanissimo alassino, ad identificare in Gibba e ne L’ultimo sciuscià la «nascita di una scuola nazionale».
Come si può ora facilmente vedere, comparando le due versioni scritte dal medesimo scrivente a distanza di sei anni, dapprima egli “slitterà” di un ventennio la nascita dell’animazione italiana, riferendosi a Bozzetto, Zac, Gavioli, Luzzati e Gianini, scrivendo: «Saranno questi autori e le loro opere a segnare la vera e propria nascita del disegno animato italiano…»; quando, in seguito, fu lo stesso Rondolino ad “anticipare” riconoscendo in Gibba e nel suo L’ultimo sciuscià la vera «nascita di una scuola nazionale».
Mario Pintus, del pioniere ligure, in un’epoca in cui era ancora visto fra i proto autori anni quaranta, così evidenziò: «…La sempre impegnata produzione di Guido è importante nel movimento di innovazione del cinema italiano. Egli non ha mai ceduto alla facile tentazione puramente stilistica o al pezzo di bravura fine a se stesso; nelle sue brevi storie non ha mancato piuttosto di riproporre situazioni attuali. Si è fatto paladino dei drammi e della vita della piccola gente, ed in questo è stato un grande poeta, tanto nella essenziale raffigurazione del suo messaggio quanto per la coraggiosa ed a tratti violenta volontà di denunciare i problemi dei giorni che viviamo».
Però già allora ci avevano visto giusto e prima di altri, e dopo le pionieristiche intuizioni di Pintus, Rondolino, e Bendazzi, il nome di Gibba è stato definitivamente consacrato alla fine del secolo da un esperto Rai come Marco Giusti, e l’intera sua opera è in possesso degli archivi delle Cineteche di Bologna e di Roma, come anche diverse pubblicazioni sono state rese al Pioniere d’Alassio.
Sempre nel panorama del cinema di animazione italiano, un altro capostipite – per anzianità e percorso artistico – è Osvaldo Piccardo. Basti pensare che iniziò giovanissimo a Milano al fianco dei due Cossio, diventando negli anni di guerra animatore alla Pagot Film per I fratelli Dinamite; e in seguito, molti anni dopo, sviluppò un suo personale stile a metà fra la ricerca sperimentale e la psicologia umana; inoltre ideò personaggi per la Gamma Film quali l’indimenticabile Ulisse e l’Ombra e altri, dirigendo a Roma il reparto animazione della Incom, alternando l’attività televisiva con filmati d’autore quali L’Asfodelo, Gigetto Carogna e il Capostazione, L’Onesto Giovanni e in seguito il più colto Egostrutture. Fratello del più schivo Marcello, anch’egli mosso da piani di ricerca grafici e intellettuali, quest’ultimo realizzò moltissimi esempi di cinema di animazione sperimentale assieme a Bruno Munari, all’interno di un atelier d’élite che comprendeva nomi della musica contemporanea, dell’arte e della cultura. Sempre di Osvaldo Piccardo non è da scordare l’ideazione grafica del personaggio di Mr. Linea, da lui ideato per la pubblicità, e ripreso dal suo ex assistente della Pagot Film, Osvaldo Cavandoli.
Un altro capostipite a lungo fuori dai contesti che racchiude l’intero percorso del cinema disegnato italiano, di cui se ne accorse a perfezione lo stesso Rondolino. Se altri avessero saputo leggere fra le righe, anziché prendere solo fra la quantità di parole, avrebbero potuto ‘leggere’. Fu infatti Gianni Rondolino ad intuirne definitivamente il valore, quando sul Pioniere di Monte Olimpino concluse: In ogni caso è indubbio che Piccardo, nel panorama del cinema d’animazione italiano, costituisce un caso un po’ particolare proprio per i suoi molteplici tentativi in direzione d’un superamento del disegno animato tradizionale e d’un recupero originale di esperienze d’avanguardia».
I discepoli rondoliniani hanno spesso riproposto retrospettive su La Lineae sul suo creatore, quando forse pochi ricordano che fu lo stesso Rondolino – se non l’unico – a mettere per iscritto che la creazione di Cavandoli sarebbe originaria dello stesso Piccardo.

Osvaldo Piccardo

Rondolino, infatti, alla p. 302 del suo famosissimo libro, volle in qualche modo ricordare la possibilità che l’idea fosse di Piccardo pur riconoscendone la non assoluta originalità, quando scrisse: «L’idea di costruire un raccontino, o meglio una serie di situazioni comiche o grottesche, utilizzando una semplice linea stesa da un capo all’altro dello schermo che assume via via le forme d’un personaggio divertente e di vari oggetti, pare sia di Osvaldo Piccardo e risalga al 1964. Fu tuttavia Cavandoli che la utilizzò nel 1968 per alcuni caroselli pubblicitari e il successo di quei piccoli spettacoli lo spinse a realizzare dei film a soggetto in cui il personaggio lineare deve di volta in volta superare le più impreviste difficoltà. […] E’ probabile, data la complessa e varia personalità di Piccardo, e il suo continuo sperimentalismo che il progetto di un film pubblicitario basato sullo sviluppo narrativo di una semplice linea sia suo (come ha recentemente dichiarato), anche se l’idea non è del tutto originale e può farsi addirittura risalire a Cohl e al suo disegno lineare continuamente mutevole».
Per non parlare di un altro straordinario esempio del cinema disegnato quale Lalla, piccola Lalla, scomparso presto dai circuiti e relegato in seguito a “robetta per bambini”, quando invece fu il Pintus l’unico ad appuntare che, «…La prima esperienza dei due fratelli [Pagot] risale comunque agli anni della guerra, durante i quali lavorarono per i fratelli Leoni, e si concretizzò con il successo solo quando ottennero la medaglia d’oro al Festival di Venezia del 1947 per il film ‘Lalla, piccola Lalla’. La cara bambina è forse una derivazione della ‘Paola’ dei fumetti, interprete con ‘Poldo’ di una lunga serie firmata Nino Pagotto, ma è anche una piccola Alice perché di quest’ultima vive le avventure straordinarie di un mondo fiabesco che è evasione e sogno insieme. Lalla infatti, diventa piccola come un fungo, è in grado di proporre lievi avventure in un mondo pieno di esaltanti novità, certamente al livello di incontro con animaletti e fiori, ma ben sappiamo come da un cannovaccio simile possa venir fuori una storia tale da colpire spiritualmente e figurativamente i sentimenti dello spettatore. Tutte le piccole cose che hanno un’anima e un cuore puri sono suscettibili di adattamenti scenici che, pur nella prevedibilità dell’intreccio tenero e commovente, lasciano ampio margine a quelle soluzioni comiche e fantasiose che si trasformano in elementi di ottimo, godibile e salutare passatempo. Viene quindi rispettata essenzialmente l’impronta tutta americana di una trama basata su codici fissi quali la tenerezza, lo sgomento, l’ingenuità e la candida petulanza della creatura umana, ma si dà anche risalto ad elementi facilmente riconducibili alla realtà fanciullesca, quella realtà che spesso non è priva di accenni di maturità. E’ una piccola fiaba che risente inoltre di centrati riferimenti caricaturali, spontanei ed istintivi».
Per La Rosa di Bagdad e I fratelli Dinamite, dopo esser stati presentati entrambi al Festival di Venezia nel 1949, inizialmente ne parlarono in termini seri e molto elogiativi i primi testi scientifici, come cito, ad esempio, quello di Walter Alberti, dando ovviamente più risalto alla compiutezza del film di Domeneghini, anche se in quello dei Pagot, meno legato agli schemi del lungometraggio tradizionale, bisognava in seguito rintracciare le migliori espressioni dell’animazione italiana dei decenni susseguenti, quando invece, influenzati probabilmente dal gusto in voga nel Sessanta si arrivò a preferire una certa sintesi espressiva nel disegno dei tre scanzonati fratelli Din, Don, Dan, che ebbe la meglio sulla poesia pomposa e barocca della storia d’amore fra il pifferaio Amin e la principessa Zeila.

L’ultimo sciuscià, Gibba

Ma qui si è veramente in difettoso errore anche perché un confronto tra i due film è alla base del tutto ingiusto, poiché ciò offenderebbe l’una e l’altra ‘scuola’, e chiedo scusa agli studiosi contemporanei i quali, forse, si lasciarono prendere da una ventata di modernismo non altrettanto sostanziato dall’oggettività dei fatti… anche se, intanto, bisogna ricordarlo… scripta manent!
Sempre riguardo i due lungometraggi, alla p. 298 dello stesso volume, Rondolino scrisse: «…Si tratta di La Rosa di Bagdad di Anton Gino Domeneghini e di I fratelli Dinamite di Nino e Toni Pagot: due opere differenti per concezione stilistica e per risultati che, se testimoniano dello sforzo tecnico ed artistico degli autori – o, se si vuole, del loro coraggio –, non escono dall’ambito delle buone intenzioni».
Rondolino, antidisneyano per eccellenza, al primo sembra quasi preferire il secondo quando appuntò: «I fratelli Dinamite paiono più sganciati dalle formule hollywoodiane, sia nel segno sia nel racconto, che si limita ad unire insieme episodi indipendenti delle avventure grottesche di tre fratelli scanzonati e liberi alle prese con un mondo “condizionato”, ma i risultati sono alquanto modesti».
Nonostante celeberrimi e mille volte più famosi di altri, sui Pagot, ad esempio, contro i fatti evidenti, poche parole liquidatorie e niente più.
Il punto per cui I fratelli Dinamite appare sganciato da formule hollywoodiane, più che per una scelta fu perché semplicemente perché trattasi di diversi cortometraggi radunati in un unico lungometraggio, motivo per cui design dei personaggi, tempi e gag sono per logica più semplificati rispetto alla sofisticatezza di cui necessita un lungometraggio in animazione tradizionale, i cui parametri saranno sempre superiori, per complesso e sontuosità nonché di stile iconografico, rispetto ai clichés subordinati al cortometraggio animato. Ciò non toglie, per converso, che fu proprio l’intuizione del grande Nino Pagot a radunare più spettacoli in un unico film, a donargli quel ritmo e brio pirotecnico, che si rivelò innovativo per un lungometraggio d’animazione, nonché è da notare il gusto ancora antico che contraddistinse in seguito l’inconfondibile e straordinario stile Pagot che tutti noi conosciamo.
Riguardo il confronto fra i lungometraggi di Domeneghini e dei Pagot, Pintus scrisse: «…Piero Zanotto preferisce, alle storie d’amore tra il pifferaio Amin e la Principessa Zeila, ‘I fratelli Dinamite’, e può avere le sue ottime ragioni, ma noi pensiamo migliore il primo. E questo tanto per il risultato grafico, che costituisce sempre una riscoperta felice – indimenticabile la caricatura dei tre vecchi ministri che bevono alla fontana della giovinezza e la pirotecnica scena finale dei festeggiamenti con le maschie figure degli arcieri stagliate in controluce –, e per il grande mestiere dimostrano nel sapere rimescolare le carte in quel gioco tanto caro alla favolistica orientale: l’amore ostacolato dalla malvagità.
In questo gioco si inserisce appunto la magia – rappresentata dal sinistro Burk e dall’etereo spirito della lampada –, quella magia che può servire tanto i buoni quanto i cattivi e che in Domeneghini è pretesto per nuove ed equilibrate proposte di racconto, certamente fiabesco ma sempre stupendamente avvincente».
Ma come mai, ci fu questa imperdonabile sottovalutazione negli anni Settanta dopo tanta iniziale enfasi, ad esempio riguardo l’opera dei fratelli Nino e Toni Pagot?
Il motivo è presto detto. Il Pintus rilevò per primo che essi «…diedero di questa maniera di fare l’animazione un saggio – che possiamo definire insuperato – con ‘I fratelli Dinamite’ nel 1947, un film che ebbe solo il torto di anticipare i tempi».
Recentemente parlando con Carlo Montanaro, sono venuto a conoscenza di un suo personale e prezioso ricordo, il quale, vista la competenza e l’intuizione che ebbe l’allora giovanissimo studioso veneziano, desideriamo pubblicare «All’inizio degli anni ’70 l’Istituto per lo Studio e la Diffusione del Cinema d’Animazione approdò con i suoi Incontri annuali a Milano. Le rassegne, nate a Busto Arsizio e a Legnano sulla spinta dell’ideatore dell’ISCA Massimo Maisetti, trovarono collocazione al Centro San Fedele e per l’organizzazione la base operativa passò all’AGIS Lombarda. Avendo più visibilità divenne necessario dedicar loro più tempo. E, nei ritagli, divenne possibile anche “peregrinare” nelle basi operative dei vari animatori che, in buona percentuale, lavoravano a Milano. Ho potuto così visitare gli studi di Cavandoli, la Gamma film a Cologno Monzese, la Bozzetto Film in via Melchiorre Gioia, Marco Biassoni, Luciano Paganini eccetera. Ma uno degli incontri che ricordo con più affetto fu quello con Nino e Toni Pagot, in via di Porta Romana (se non erro). Gentilissimi mi accolsero in vestaglia bianca (anche Gino Gavioli e Paolo Piffarerio li ricordo con la “svelandrina” bianca da lavoro…). Ridemmo molto con Nino, reduce da un’operazione delicatissima – in particolar modo allora agli inizi dell’era della cardiochirurgia – per l’impianto di una valvola cardiaca che faceva costantemente un “tic tac” percepibile standogli accanto… Presto la conversazione scivolò sulla mancanza di testimonianze dello sviluppo del cinema d’animazione italiano. Ovvero, lì, alla Pagot Film, sull’impossibilità di vedere LALLA PICCOLA LALLA e I FRATELLI DINAMITE: due pietre miliari. Mi palesarono il loro dispiacere nell’aver perso il controllo delle pellicole. Dei negativi (soprattutto di LALLA) o non più ritrovati a Londra presso l’unico, all’epoca, stabilimento europeo della Technicolor o ritirati da Londra e poi resi inservibili da una non buona conservazione. E dell’unica copia che loro avevano tenuta in una casa sul Lago di Garda (o Maggiore…) e che era sparita probabilmente rubata. Ed io raccontai loro di grappoli d’immagini che mi rimanevano in mente de I FRATELLI DINAMITE. Immagini in bianco&nero viste una mattina in un programma sperimentale della RAI che o stava facendo le prove tecniche in vista dell’avvio dei programmi regolari o era appena appena partita (dal 3 gennaio 1954). Ero in uno strano negozio in Calle larga Goldoni a Venezia, il Bazar 33. Dove vendevano un po’ di tutto, giocattoli, scope e piccoli utensili per la casa. Li troneggiava per richiamo promozionale questo enorme televisore carrozzato di legno. E li passava il film. Non potei vederlo tutto perché mia madre aveva fretta. Ma quelle immagini le ho ancora stabilizzate nella mente. Mentre raccontavo a Nino e Toni di questo ricordo ragionavo: “passare allora un film a colori in TV era impossibile perché i contrasti erano troppo forti. Così di per certo o dal negativo o da una copia hanno tratto un lavander in bianco&nero, una copia dai contrasti ammorbiditi come pretendeva la tecnologia dell’epoca. La RAI ha magazzini infiniti. Magari se lanciate qualche segnale…”. E così fu fatto. E qualche tempo dopo fu effettivamente identificata in un magazzino RAI una copia bianco&nero del film che poté essere trasmessa, sempre in RAI nel corso del programma di Mario Accolti Gil MILLE E UNA SERA. Un mitico programma che allora, alla metà degli anni ’70 fece non solo il punto sull’animazione italiana proiettando il poco, ad allora identificato e salvato, ma in generale sull’animazione europea. Non eravamo ancora entrati nell’era della videoregistrazione. E anche di MILLE E UNA SERA io posso dire di conservare immagini, sensazioni, ricordi». Infatti, oggi grazie anche all’interessamento di Marco Giusti, l’arte dei fratelli Pagot occupa definitivamente il posto d’eccezione che merita, e tutto il complesso della produzione Pagot Film, pellicole 35mm, materiali e rodovetri d’epoca compresi, è stato rilevato e salvaguardato dall’apposita sezione della Cineteca di Milano.

West and Soda, Bruno Bozzetto

Vip, mio fratello superuomo, Bruno Bozzetto

Anche Carosello fu a lungo tralasciato forse perché allora ancora in onda, considerato più un’animazione televisiva che autoriale. Ciononostante ne beneficiarono singolarmente personaggi quali Mr. Linea di Cavandoli o lo stile dei fratelli Gavioli, non tanto per le creazioni in sé quanto più che altro per il tratto stilizzato ed angoloso che si accorpava di fatto a quello in voga negli anni Sessanta.
Per Carosello, capitolo dell’animazione italiana fino a qualche decennio fa in second’ordine rispetto all’animazione d’autore, ha trovato le prime evidenti rivalutazioni da parte dell’allieva di Rondolino, Chiara Magri, ed in seguito è stato finalmente studiato, raccolto e definitivamente catalogato da un esperto Rai del calibro di Marco Giusti e dalla sua prima collaboratrice Guia Croce.

Calimero, Nino e Toni Pagot

Riguardo invece il Pinocchio di Cenci, dopo tre anni dall’uscita del lungometraggio, il Pintus ne intuì per primo l’importanza dedicandogli, come a nessun altro film italiano, ben tre pagine all’interno di un paragrafo comprendente la produzione del nostro paese, scrivendo: «Il piccolo Olimpio dell’animazione italiana è sempre preda di un salutare fenomeno di iniziative – le più diverse e approfondite – alla ricerca di nuove formule tecniche e sperimentazioni narrative, ma la sorpresa degli anni Settanta verrà probabilmente dai fratelli – ancora una volta un sodalizio a due! – Renzo e Giuliano Cenci, che hanno inteso onorare la memoria di Carlo Lorenzini proponendo una versione cinematografica del burattino più famoso del mondo nella maniera più classica e tradizionale.
Pinocchio è sempre stato un po’ la tentazione ed il duro banco di prova di molti animatori, tanto per le enormi possibilità figurative quanto per il grande spazio concesso alla fantasia, ma su questo lavoro tutti sono caduti o più meno rovinosamente. Per Russi, Belgi e Giapponesi il titolo è stato un’occasione per travisare completamente il personaggio e per darne le versioni più disparate e meno reali. Lo stesso Disney, ben conosciuto per l’estremamente accurata e quasi pedante fedeltà alle opere cui si è ispirato, e per la grande opera di documentazione che svolgeva alle soglie della produzione di un lungometraggio, con Pinocchio commise un passo falso: perché dell’eroe di Collodi non seppe penetrare il carattere e non riuscì a far rivivere lo spirito acre e pungente dell’autore, circondando la storia dei soliti elementi stilistici – delizioso e commoventi – ma nel caso troppo artefatti e più spesso estranei all’intreccio ed alla tematica, al messaggio, insomma, del famoso toscano.
I Cenci, provenienti da una ricca attività in campo pubblicitario, hanno tenuto conto di tutti i tentativi precedenti, decidendosi alfine per una linea il più possibilmente collodiana e toscana, rifacendosi in questo anche alle illustrazioni di Attilio Mussino – il creatore del negretto ‘Bilbolbul’ del ‘Corriere dei Piccoli’ –, uno stupendo disegnatore che ai primi del secolo curò la più classica delle edizioni illustrate sulle vicende del burattino.
Il lavoro è venuto su mano mano, vivendo dei piccoli autofinanziamenti che la cooperativa dei collaboratori – fra i quali ricordiamo Alberto D’Angelo e Abramo Scortecci – poteva permettersi; quindi un qualcosa di artigianale, ma non certo a scapito della qualità. Il concetto generale che ha guidato il lavoro è ben chiaro da quanto Giuliano Cenci ha dichiarato al critico Bendazzi: ‘Pinocchio aveva bisogno di una interpretazione letterale ed italiana. Il testo è ricchissimo di elementi importanti e trovo assurdo andarne a cercare di nuovi. Il nostro film sarà la realizzazione cinematografica del Pinocchio che tutti abbiamo amato da bambini, sarà la proiezione dei nostri sogni’.
Questo doveroso film sul burattino più famoso del mondo è un’opera esemplare sotto il profilo stilistico, evidenziata da un disegno decorativo e dolce, e da un ritmo narrativo che va graziosamente in sincronia con lo sfogliare delle pagine. E’ una fiaba realizzata senza intendimenti pretenziosi e senza false giustificazioni moralistiche, perché della singolare favola ha voluto mantenere intatto il sapore così intimamente e gelosamente strapaesano.
Diversi critici, al Festival di Busto Arsizio, hanno storto la bocca, accusando superficialmente i Cenci di ‘morbo di Disney’, ma hanno dimenticato che il buon disegno – rifinito e maturo – non è prerogativa di Burbank, vive a tutte le latitudini: è solo questione di un sapiente e intelligente impiego, una volta che se ne sia padroni. Il film dei Cenci ci pare sia pienamente raggiunto. Essi hanno sempre escluso l’arte come movente imponendosi di pensare esclusivamente al pubblico: quello infantile ride divertito alle peripezie del burattino, quello adulto ritrova sullo schermo un eroe che nell’animo di tutti ha da sempre un piccolo angolo riservato, e ciò che più conta lo riavvicina con la stessa ansia e meraviglia del passato. E non si hanno delusioni, perché gli autori sono stati illustratori fantasiosi ed intelligenti ed il loro Pinocchio non è soltanto bello, movimentato ed avvincente, ma è soprattutto semplice e vero, e con questo essi hanno creato, forse senza volerlo anche un grosso film d’arte
».
Negli anni successivi, il Pinocchio di Cenci venne doppiato e distribuito in tutto il mondo a cominciare dagli Stati Uniti d’America, per poi passare dalla Francia, Inghilterra, Spagna, Australia, Africa, Sud America, tanto che negli USA ha scatenato un vero e proprio culto.

Un burattino di nome Pinocchio, Giuliano Cenci

In Italia, invece, come sempre succede, non si provvede neanche al ripristino del negativo originale, che a tutt’oggi non si sa neanche più dove sia.
Evidentemente è vero il detto: Nemo propheta in patria!
Infatti, del Pinocchio, il negativo originale del fautore di Carosello è finito anch’esso negli sterminati archivi Rai.
Oggi, ad esempio, le puntate animate da Giuliano Cenci de La Pimpa, e di Lalla, nell’isola di Tulla, con protagonista Raffaella Carrà in cartoon sono quotidianamente riproposte come veri e propri cult della televisione per l’infanzia da Rai Click. Ma del più importante lungometraggio italiano, Un burattino di nome Pinocchio, sempre in Rai a tutt’oggi pare non esista traccia…
Relativamente all’interessamento di Marco Giusti e di Claudia Sasso, quest’ultima responsabile Rai della programmazione ragazzi e figlia di Mario Sasso – un grande innovatore dell’animazione in computer graphic che realizzò molte sigle Rai nei decenni addietro – sappiamo che nelle Teche Rai, del Pinocchio di Cenci, risultano rubricati soltanto i master BVU della messa in onda, quando il film venne programmato per intero ma suddiviso in episodi all’interno di un contenitore televisivo per l’infanzia durante la stagione televisiva 1989/90.
Fortunatamente una copia positiva 35mm del film è presente in archivio presso la Cineteca Nazionale di Roma, la quale fu la prima copia stampata rilasciata dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo, ma di cui oggi, per via dei procedimenti chimici dell’epoca, se ne sta alterando la resa cromatica, tanto che meglio sarebbe ripristinare attraverso gli attuali sistemi di restauro un definitivo negativo in pellicola di un capolavoro di altissima qualità tecnica e artistica senza precedenti nella storia del cinema disegnato, di importanza e notorietà internazionale.
Allora, trascorso un secolo, passate le mode, vogliamo una volta per tutte riscrivere la storia dell’animazione italiana e degli annessi autori sulla base degli scritti dei loro stessi scopritori… anzi scriverla definitivamente noi per la prima volta?

Iniziamo:

L’animazione italiana comincia con Gibba.

Chi però di fatto un decennio addietro ha dato una spinta decisiva è stato Luigi Liberio Pensuti, il quale, dopo svariati filmati didattici e scientifici, già dal Crociato ‘900 per la battaglia antitubercolare commissionatagli dal Duce, intuì che il cartone animato poteva agganciarsi all’attualità, realizzando per l’Istituto Nazionale Luce cortometraggi di propaganda quali, Il Dottor Chukill, Aimé Selassié, Suez, Ahi Hitler!.
Il precursore dell’animazione invece è stato Osvaldo Piccardo, che iniziò giovanissimo e, passando per i fratelli Pagot, proseguì la sua attività trent’anni dopo quale caporeparto Incom per la realizzazione di Carosello, sigle e intermezzi televisivi, ideando personaggi come Ulisse e la sua Ombra, nonché per stile e ingegno dobbiamo riconoscergli almeno la straordinaria ideazione de La Linea.

Quindi, Gibba sta a De Sica come Piccardo sta a Bragaglia, chiaro, no?

Lasciamo ora perdere i nozionismi cronologici partendo da La guerra e il sogno di Momi – i quali ovviamente troverete riportati – di fatto Gibba è da considerarsi il vero Pioniere del Cinema d’Animazione Italiano. Appena ragazzo, infatti, superò i suoi maestri Carlo e Vittorio Cossio, Antonio Rubino e lo stesso Pensuti, lasciando intuire come il cartone animato poteva agganciarsi all’attualità, passando per Fellini e Kremos in Hello Jeep!, e appena ventitreenne con L’ultimo sciuscià diede realmente il via ad una scuola nazionale; passando per gli anni Sessanta con la Produzione Corona comprensiva, per gli americani, dei vari Popeye e Kresy Kat, e tornando a definitiva maturazione col mitico lungometraggio cult Il Nano e la Strega.
Come anche su Giuliano Cenci, Anton Gino Domeneghini, Nino e Toni Pagot, dobbiamo al genio di Mario Pintus che per primo intuì parlando di loro come i veri e definitivi capostipiti dell’animazione italiana.
Dapprima il Commendator Anton Gino Domeneghini realizzò la prima grande pietra miliare dell’Animazione Italiana con La Rosa di Bagdad, a cui seguirono diversi cortometraggi pubblicitari tracciando la strada a Carosello; mentre a lui coevi, i più giovani Nino e Toni Pagot, che già avevano notevole esperienza nel settore, portarono a termine il più semplice ma non meno espressivo I fratelli Dinamite, il quale segnò la svolta per le loro creazioni future fino a Carosello, da cui nacque un personaggio celebre in tutto il mondo: Calimero.
Poi arriverà il giovanissimo Bruno Bozzetto che con West and Soda, Vip mio fratello superuomo e Allegro non Troppo e la sua sterminata produzione composta da decine e decine di cortometraggi, film e serie televisive, è senz’altro il cartoonist italiano più popolare e un nome di inimmaginabile importanza internazionale.
Oggi l’intera Produzione Bozzetto è definitivamente custodita dalla Cineteca Italiana.
Sempre all’interno della produzione più innovativa ed importante del XX Secolo non sono da tralasciare i film sperimentali di Luigi Veronesi, Bruno Munari, Cioni Carpi e Pino Pascali, come avevano intuito, prima degli altri, Rondolino, Bendazzi e Giusti grazie ai quali se ne deve oggi la definitiva valorizzazione.
Ma il coronamento definitivo avverrà negli Anni Settanta quando il linguaggio del cinema disegnato non sarà né troppo antico né troppo moderno: Giuliano Cenci, non è quindi solo il regista che ha portato al successo in tutto il mondo Un burattino di nome Pinocchio ma è stato anche il primo ad escogitare in Italia: l’accoppiamento del film dal vero col cartone animato; l’invenzione dell’animazione in plastilina; il miglioramento tecnico del difficile procedimento del Film-Guida; le definitive innovazioni degli effetti speciali le quali sono tutt’oggi una straordinaria novità in campo mondiale; e, cosa più importante, le prime pubblicità animate per la Philco le quali diedero definitivo inizio al più famoso programma della televisione italiana, tanto che Giuliano Cenci può essere veramente definito anche il «Papà di Carosello».
Come detto, tutti gli stili e gli autori, convergono a lui: Giuliano Cenci è il vero Padre dell’Animazione Italiana.
Dopo le decine di migliaia di visite di lettori da ogni parte del mondo che hanno seguito i miei articoli sul linguaggio del cinema disegnato pubblicati su «Cinemino», abbiamo deciso la pubblicazione on line del libro Cartoni d’Italia, che si avvale della prefazione esclusiva di un maestro dell’animazione internazionale come Bruno Bozzetto, con la speranza che l’inedita raccolta di studi che lo compone permetterà, di fatto, a tutti di vivere la Storia dell’Animazione Italiana, dalle origini sino ad oggi.

Mario Verger

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Per ora abbiamo un solo commento...

  1. Arlette Paganini

    Egregio signor Verger,
    sono la figlia di Luciano Paganini, disegnatore-cartoonist milanese, che ha lavorato con Pagot & CO. Purtroppo è mancato nel 1999, ho conservato molti suoi lavori e mia mamma, anni 87, ancora lucidissima, ha seguito tutto il suo percorso dal 1943, era presente al Festival del Cinema di Venezia quando hanno presentato I f.lli Dinamite o Lalla piccola Lalla,ha conosciuto tutti i personaggi da lei citati nel suo articolo che un amico mi ha inviato ieri. Se fosse interessato ad avere piu’ informazioni, mi puo’ contattare alla mail sopra indicata. Ho letto anche che Bozzetto e altri hanno lasciato i loro lavori presso la Cineteca di Milano, penso sia giusto anche per mio padre, gradirei pero’che lei,quale esperto in materia d’animazione, visionasse la documentazione. Un cordiale saluto e i miei complimenti per l’articolo molto preciso e chiarificatore

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