Pazar – Bir Ticaret Masalı (The Market – A Tale of Trade) > Ben Hopkins

Mihram, giovane commerciante indipendente e padre di famiglia, vive in una piccola regione della Turchia orientale. Le sue attività quotidiane si riassumono in piccoli commerci, contrattazioni e bevute. Aspirando a mettere in piedi un’attività nel settore in espansione della telefonia mobile, Mihram si interessa a un locale in cui aprire un negozio, ma sfortunatamente non possiede il denaro necessario per l’acquisto. Un giorno, il medico locale gli chiede di procurargli sul mercato nero alcuni medicinali per bambini dopo che questi sono stati rubati da un camion prima di giungere all’ospedale. Mihram vede in questa richiesta l’occasione di risolvere i suoi problemi finanziari.

Metà anni ’90: in una remota regione dell’Est della Turchia, ai confini con l’Azerbaijan, vive Mihram, commerciante e intermediario giovane e povero con una visione lungimirante sui cambiamenti in atto nella regione ma anche il problema del gioco e dell’alcol. Vedendo ingegneri impegnati nella posa di antenne per la telefonia mobile, intuisce che il futuro consiste proprio nella vendita di questi apparecchi. Mancandogli però i mezzi finanziari,  vede nella richiesta del medico del locale ospedale di comperare sul mercato nero al di là della frontiera delle medicine rubate da un camion una soluzione al suo problema.
Mette in atto quindi uno schema che prevede l’investimento dei soldi in merci da portare in Azerbaijan e comperare là le medicine da portare in Turchia e parte in viaggio con suo zio Fazil, un uomo nervoso e lamentoso che nel Paese confinante vanta alcune connessioni.
L’inglese Ben Hopkins, che lavora con una troupe cosmopolita (Inglesi, Turchi, Tedeschi, Curdi e produttore iraniano), decide di mantenersi in equilibrio tra commedia e tragedia nel raccontare il mondo della piccola economia, semplice riproduzione in miniatura di quella imperante, il punto di forza del film, mettendone a nudo i limiti. Concentrando la sua attenzione sulla contrapposizione tra commercio e etica, Hopkins realizza un’opera nel contempo poetica e densa di umorismo, alla cui riuscita contribuiscono interpreti di grande bravura.
Presentato nel 2008 al Festival internazionale del film di Locarno, dove l’attore Tayanç Ayaydın è stato premiato per la sua interpretazione.

Due anni prima, Ben Hopkins aveva realizzato sempre in Turchia l’interessante documentario 37 Uses for a Dead Sheep premiato con il Caligari alla Berlinale. Attualmente sta lavorando al suo primo film dopo Pazar, nella regione del Caucaso.

Roberto Rippa

Pazar – Bir Ticaret Masalı
(titolo internazionale: The Market – A Tale of Trade. Germania-Inghilterra-Turchia-Kazakistan, 2008)
Regia, sceneggiatura: Ben Hopkins
Musiche: Cihan Sezer
Fotografia: Konstantin Kröning
Montaggio: Alan Levy
Produttore: Roshanak Behesht Nedjad
Interpreti principali: Tayanç Ayaydın, Genco Erkal, Şenay Aydın, Rojin Ülker, Özlem Başkaya
35mm
93’

Classe 1969, Ben Hopkins studia alla Oxford University e al Royal College of Art.
Esordisce nella regia di pièce teatrali studentesche, grazie alle quali ottiene diversi premi, prima di dedicarsi al cortometraggio. National Achievement Day, realizzato come lavoro di diploma per il Royal College of Art, ottiene 14 premi internazionali. Il suo primo lungometraggio, Simon Magus, viene presentato al festival di Berlino. Il secondo, The Nine Lives of Thomas Katz, gli vale il premio come migliore regista al Festival Internacional de Cinema do Porto nel 2000.
Il documentario del 2006 37 Uses for a Dead Sheep ottiene il premio Caligari al festival di Berlino.

A un certo punto degli anni ’90, ho trovato su un quotidiano un articolo sulla Moldavia.
Si trattava di un breve articolo che menzionava il fatto che, in seguito al crollo del comunismo, il sistema statale di distribuzione era collassato e che i beni non circolavano più liberamente. A colmare il vuoto erano intervenuti imprenditori locali, che agivano come meri intermediari in cambio di denaro contante. Acquistavano magari una lavatrice, la consegnavano e incassavano la loro parte di guadagno sulla transazione. Mi era sembrato una cruda forma di capitalismo semplice: la fornitura di beni e servizi a una comunità con lo scopo del profitto in una società priva di un’economia organizzata.
Naturalmente, ciò che e accaduto nei Paesi dell’Est europeo e della ex Unione sovietica è che le mafie locali si sono sostituite a questi innocenti esempi di imprenditorialità e hanno isituito un controllo monopolistico dei beni e dei servizi usando il profitto che ne deriva per costuire imperi criminali.
Questi due aspetti del capitalismo mi colpiscono come paradigma della sua intrinseca natura: un sistema che incoraggia e premia la creatività mercantile e la produzione di ricchezza e nello stesso tempo si apre facilmente agli sfruttatori e ai predatori che spesso finiscono con il dominare il mercato.
Il capitalismo viene troppo spesso dipinto come troppo bianco o troppo nero: una strada per il paradiso dove la felicità è garantita a coloro che sanno usare il gioco e raccoglierne i frutti o come un inferno in cui i poveri e le persone vulnerabili vengono sfruttate in modo spietato.
Dopo avere letto la storia che citavo poco fa, ho capito subito di avere voglia di scrivere una sceneggiatura che avesse a che fare con il mio sentimento conflittuale sul capitalismo: la mia ammirazione per la sua innovazione e creatività e il mio cinismo a riguardo del fatto che non riesce mai a portare benefici senza nel comtempo creare ineguaglianze e sfruttamento.

Può necessitarmi molto tempo per trovare i miei personaggi.Talvolta anni.
Oppure capita che io scopra di avere piazzato un personaggio nel progetto sbagliato e che sia necessario piazzarlo in un altro perché funzioni.
Lentamente, nel corso dei mesi, emerge quindi una sorta di dramatis personae – un gruppo di persone che possono popolare una storia e farla funzionare.
Quindi ciò che nelle mie note è indicato come “un aristrocratico italiano che ama lamentarsi ed è innamorato della sua infelicità in un modo comico” può diventare alla fine zio Fazil (zio del protagonista di
The Market. ndr) oppure la considerazione su “la grande popolarità di Only Fools and Horses – (una serie televisiva comica inglese di grande successo con protagonista un volgare imprenditore) – la gente ama i complottisti che falliscono”, può portare alla creazione di Mihram.
Mentre lavoravo ai personaggi, ho iniziato a chiedermi dove avrei potuto ambientare la storia. Naturalmente ho trovato difficile ambientarla in Inghilterra, il mio Paese, con la sua economia fortemente sviluppata ma d’altro canto non sapevo nulla della Moldavia e dei Paesi dell’ex blocco sovietico.
Ho iniziato a frequentare la Turchia a partire dal 1999, per partecipare a festival dove i miei film venivano presentati, e mi sono immediatamente innamorato del posto e del suo cinema.
Soprattutto nei film di Yılmaz Güney ho trovato un autore preoccupato e contemporanemante affascinato dall’economia nella società, sia nel fallimentare baratto di The Herd (Sürü, 1978, scritto da Güney e diretto da Zeki Ökten) o nei sogni di diventare ricco in fretta di Hope (Umut, 1970, co-diretto da Güney con Serif Gören).
Attraverso Güney e il mio crescente amore per il Paese, ho iniziato a concentrarmi sulla Turchia come possibile luogo dove ambientare la mia storia.

Con The Market, spero di avere realizzato un film che rifletta accuratamente l’esperienza di vivere nell’est della Turchia negli anni ’90 e che nel contempo parli al pubblico al di là di questi confini.
Su un livello, il film è il semplice racconto di un uomo che aspira a una meta totalmente ragionevole – un futuro migliore per la sua famiglia – che scopre essere raggiungibile solo a prezzo della compromissione. Su un altro, spero che il film descriva i complessi meccanismi del capitalismo, il tira e molla della domanda e dell’offerta, la sofferenza causata dalle carenze nel mercato, le ineguaglianze e le distorsioni causate dai grandi giocatori di questo gioco, eccetera…
Mi auguro insomma di avere girato un film piccolo, modesto, circoscritto, che indica con delicatezza un mondo più grande, complesso e globale.

Ben Hopkins



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