Post mortem > Pablo Larraín

Cile 1973. Un cingolato avanza lungo una strada. Un uomo, Mario Cornejo (Alfredo Castro) guarda fuori dalla finestra della sua abitazione. Esce e bagna il giardino. Una donna entra nella casa antistante. Mario paga il biglietto ed entra in un locale di cabaret della periferia di Santiago. Sul palco si esibiscono prima un comico e poi un corpo di ballo che imita il Can Can. Mario è seduto in sala tra il pubblico e si diverte. Si alza dal suo posto e senza farsi vedere si reca nei camerini sotterranei del teatro. Qui osserva la sua vicina di casa Nancy Puelma (Antonia Zegers) discutere con don Patricio (Aldo Parodi), il titolare del locale. L’uomo la rimprovera per essere troppo magra. Mario entra nel camerino. Si presenta a Nancy e poi le chiede se può accompagnarla a casa. Lei accetta, ma durante il viaggio incrociano una manifestazione socialista, e la donna, sporgendosi dal finestrino riconosce un certo Victor (Marcelo Alonso), il quale si avvicina e la invita a scendere dalla macchina. Nancy si allontana con il giovane.
Ospedale, reparto di patologia: un medico esegue un’autopsia e detta il referto che Mario, funzionario pubblico, scrive a mano su dei fogli; il referto riguarda Nancy Puelma, morta per malnutrizione e disidratazione. A casa sua Mario, riscrive a macchina il referto autoptico facendoselo dettare da un bambino che poi paga per il servizio. Notte: Mario si masturba. Il mattino dopo Mario guarda fuori dalla finestra, poi esce e si reca al lavoro. Stesura di un nuovo referto. Durante la pausa pranzo Mario parla con Sandra
(Amparo Noguera) l’assistente patologo; il Dr. Castillo (Jaime Vadell), il patologo, seduto allo stesso tavolo, inneggia alla rivoluzione e alla necessità di armare il popolo. Terminato il turno, Sandra invita Mario a casa sua, ma lui rifiuta sdegnato, a causa del fatto che la donna riceve altri uomini in casa sua. Piove, Mario torna a casa. Suona alla porta di Nancy, ma è Victor ad aprirgli la porta perché in casa c’è una riunione di socialisti e Nancy sta dormendo. Mario sta mangiando da solo in casa sua, suona il campanello: è Nancy. Mario invita la donna a mangiare con lui e lei accetta; a tavola i due scoppiano a piangere assieme e poi fanno l’amore. I due vanno al ristorante cinese, dove Mario chiede alla donna di sposarlo, ma lei non risponde. Il mattino dopo Mario si reca al teatro dove lavora Nancy e chiede a don Patricio di reintegrare la donna nello spettacolo: il titolare accetta ma chiede in cambio la macchina di Mario e questi gliela lascia istantaneamente.
Notte. Mario non riesce a dormire. Al mattino, mentre sta facendo la doccia, la casa di Nancy esplode. Mario cammina tra le macerie fumanti, sente un guaito e da un’apertura del muro nel giardino recupera un cagnolino ferito, è Pituca, il cane di Nancy. L’uomo prende una macchina, attraversa strade deserte tra macerie e macchine rovesciate, davanti al locale di cabaret vede la sua macchina schiacciata da un cingolato. Risale in macchina e si reca al lavoro, dove trova i corridoi presidiati dai militari: il governo Allende è stato rovesciato con un colpo di stato dell’esercito. Nel reparto, Mario cura il cagnolino. Esce nel cortile e vede i militari che scaricano continuamente cadaveri da mezzi dell’esercito e li ammucchiano su dei carrelli. Mario li trasporta lungo i corridoi del reparto. Successivamente viene convocato nell’ufficio del Dr. Castillo. Per ordine dell’esercito il patologo e i suoi assistenti devono recarsi in un palazzo del governo per eseguire l’autopsia dell’ex-presidente. Durante l’esame autoptico, Mario non riesce a seguire la velocità con cui gli viene dettato il referto, e così viene sostituito da un militare. Sandra non riesce ad assistere il Dr. Castillo che opera sotto gli occhi dei generali schierati di fronte a lui. Diagnosi finale: suicidio. Notte. Mario torna a casa. Il cagnolino gli scappa di mano, lui lo segue e scopre Nancy nascosta nell’apertura del muro del cortile. Mario le porta da mangiare e lei le chiede una radio. Mario posiziona un mobile davanti all’apertura.
Il mattino seguente, all’ospedale, mentre trasporta uno dei carrelli carichi di cadaveri, Mario scopre che è un giovane è ferito ma ancora vivo, con Sandra, di nascosto, lo trasportano all’ospedale per farlo curare. Notte. Mario porta a Nancy la radio, tenta un violento approccio sessuale ma lei si ritrae. Il mattino seguente, a patologia, Mario assiste alla scenata isterica di Sandra: il reparto è sommerso di cadaveri e il ferito, salvato è stato ucciso così come l’infermiera a cui lei e Mario l’avevano affidato. Un militare spara in aria e sui cadaveri. Sandra tace. Mario torna a casa e scopre, nel nascondiglio, Victor a letto con Nancy. La donna gli chiede da mangiare e delle sigarette, in cambio Mario si lascia masturbare. Mario si allontana, poi ritorna e posiziona il mobile davanti all’apertura: comincia ad ammucchiare mobili e materassi davanti al nascondiglio, in modo che i due amanti non possano più uscire.

 

Un film di rara dolenza e impressione emotiva, Post Mortem si sviluppa tra due piani sequenza: uno in apertura (durata 1 minuto) mostra l’incedere inarrestabile di un cingolato inquadrato al livello del terreno mentre schiaccia tutto ciò che trova sulla sua strada, l’atro, chiude il film (durata 6 minuto) ed è un campo medio fisso posto a mostrare un uomo costruire una barricata davanti ad una porta per mettere in atto la sua “rivoluzione” esistenziale. «L’ideale di Mario di conquistare l’amore impossibile di una donna è anche l’ideale di una nazione che insegue un modello politico – il Socialismo – tra i cadaveri di coloro che sono stati uccisi in nome di quegli stessi ideali militari imposti con noncuranza, senza misurare i costi e le conseguenze. Post Mortem, ambientato in uno dei periodi più bui e sanguinosi della storia del Cile, attraverso l’incrocio di tre registri cinematografici, estetici ed etici – testimoniale, storico e narrativo – va in cerca della sua funzione poetica attraverso il turbamento, l’assurdità e la conseguenza di un viaggio senza scopo» (Pablo Larraín).
Il film di Larraín nasce dalla lettura di un articolo di giornale in cui si parla di un certo Mario Cornejo che è stato uno degli autori materiali dell’autopsia sul corpo di Salvador Allende il giorno del Golpe Militare. La domanda che si è posto il regista, dunque, è: com’è stato possibile che questo uomo, uno qualunque, sia stato protagonista “non visto e non visibile” della storia del Cile? Non a caso, la scelta iniziale di Larraín per girare Post Mortem è stata quella, poi abbandonata in fase di inizio riprese, di utilizzare una handy-cam che vedesse, in soggettiva e in presa diretta, gli eventi narrati. In seconda istanza, il regista ha invece optato per uno sguardo testimoniale e distaccato: inquadratura fissa, quasi inerte, sospesa in uno spazio “immaginifico” con un punto di vista orizzontale in grado di osservare e analizzare l’azione a debita distanza ma con una durata prolungata nel tempo. L’uso di lenti anamorfiche che alternano profondità e piattezza dell’immagine, va proprio in questa direzione: osservare senza svelare. Il regista con inusitata asprezza e durezza, costruisce una messa in scena glaciale che osserva il dramma intimo e casuale di due vite allo sbando, immerse in un contesto che il regista percorre in lungo e in largo, facendo opera di sottrazione e di sintesi: il contro-campo dall’interno del locale di cabaret che mostra Mario osservare i resti della “rivoluzione” appena passata, è emblematico e possiede una potenza visiva complessa e imponente. Un contesto periferico e anonimo, in cui Santiago viene rappresentata attraverso locali scalcinati di quart’ordine, lividi appartamenti spogli e impersonali, i grigio-verdi (stessi colori dell’esercito) corridoi sotterranei dell’obitorio in cui si muovono i “fantasmi” (perché è così che il regista li rappresenta) di un’epoca, divisi tra amore e orrore, tra desiderio di felicità quotidiana e rivoli del sangue dei cadaveri, tra la gioia dell’incontro e il fiele del tradimento.
Pablo Larraín non indietreggia mai, mantiene la sua macchina da presa fissa ad altezza uomo, frontale verso l’orrore, e costruisce un’atmosfera che gronda amarezza e ripugnanza: la “rivoluzione” porta solo mucchi di cadaveri accatastati su carrelli come merce di magazzino, mentre in anonime stanze di ospedale rimane sospeso un silenzio “urlato” che uccide il corpo e l’anima. Il tavolo autoptico è al centro della scena perché l’indagine ha il suo centro nel post-mortem di una vita, come dalla Storia di una nazione. L’autopsia, rappresenta l’ultimo atto della vita di un corpo e, oltre ad essere un’indagine necroscopica di carattere clinico-letterario, in grado di diagnosticare le cause della morte di un individuo, rappresenta da parte del corpo disteso sul tavolo patologico, l’unico momento della propria vita in cui gli è negata ogni forma di controllo che, viceversa è totalmente nelle mani del patologo. Mario, redige, dunque referti di “assoluta verità”, perché questi non possono essere messi in discussione: storie di morte che prendono forma nell’obitorio, l’unico luogo, veramente “segreto” in cui si chiude la vita di ogni individuo, uno spazio freddo, asettico, nascosto nei sotterranei degli ospedali ma presente in ogni luogo così come cinema, teatri e supermercati e a suo modo un ambiente che vive di una quotidianità non dissimile da quella dei luoghi sopraelencati. Ecco, dunque, che il film di Larraín non può essere che ambientato, paradossalmente, in questo luogo di verità inconfutabile, visto che vive di incertezza di impressioni, di velati ricordi come conferma il regista stesso: «Sono cresciuto ascoltando le narrazioni sul colpo militare. Siccome non le ho vissute, quell’evento storico è diventato per me e direi per tutta la mia generazione, una scatola chiusa, un enigma, un fantasma. […] Il film è la storia di una scena immaginata, non vissuta, sfocata, attraversata da corpi che non ho conosciuto ma che cerco di recuperare, di un immagine nebbiosa, indefinita e mal partorita. Come un sogno che si ricorda a pezzi. Soltanto i pezzi» (Pablo Larraín).

 

 

Mario e Nancy, dunque, sono protagonisti inconsapevoli della Storia. Loro che con le loro vite anonime, grette e anaffettive di individui isolati in una solitudine patologica (a tavolo piangono assieme solo per la composizione dell’inquadratura, in realtà ognuno è chiuso in un proprio inesplicabile dolore), improvvisamente si trovano sulla “scena” del “cambiamento”. Lui nel dietro le quinte del “teatro della Storia”, nei corridoi sotterranei, al «Servizio dell’Esercito del Cile» (come gli dice il capitano) per trasportare carrelli ricolmi di cadaveri e per redigere l’autopsia dell’ex presidente; lei “vittima” del cambiamento, opportunista come non mai, non più chiusa in un fatiscente camerino di teatro per indossare calze smagliate, vestiti mal cuciti, paillettes opache e parrucche rinsecchite e sbiadite, ma in un vano dentro un muro del giardino di casa sua immersa nel terrore e nell’angoscia di non ritornare più la “star” di prima. La loro è una piccola storia intima, che dopo aver dimostrato la loro inadeguatezza a questo improvviso protagonismo (lui, troppo,lento nello scrivere a macchina, viene sostituito da un militare, lei licenziata prima, traditrice dell’uomo che l’ama dopo), lentamente si sovrappone a quella della Storia della nazione. Larraín riesce a costruire una perfetta analogia tra le due vicende e pone il momento della perfetta sovrapposizione nella scena in cui Mario scopre il tradimento di Nancy scoprendola a letto con Victor: qui il ragazzo chiede a Mario del cibo e in quel momento, Mario si rende conto che lui “controlla” le vite di Nancy e Victor; prendendo consapevolezza, egli esercita il suo “potere” nello stesso modo in cui i generali di Pinochet lo esercitano sul popolo cileno: uccidendo. «Mario e Nancy, entrambi, estranei al contesto, alla storia, alla sciagura e al crollo, con i loro corpi sbagliati stanno, senza rendersene conto, rappresentando la tragedia di un Paese che li ignora e che anche loro ignorano» (Pablo Larraín).
I corpi nel film di Larraín sono la materia su cui agisce la Storia: Mario all’obitorio vede solo corpi (e ne vede sempre di più), così come Sandra che ad un certo punto non riesce più a sopportare quella visione di vite estinte nella violenza e, per un istante, si ribella. Corpi inerti come lo sono quelli di Mario e Nancy (come dimostra la scena “glaciale” del loro amplesso ordinario e dovuto), ma anche corpi emaciati e ridotti a pelle e ossa come è quello della stesa Nancy, evidente metafora di una patria affamata e invecchiata male. Corpi assenti, fantasmatici, mai integralmente presenti sulla scena (pochissime le figure intere), ma visibili (e mostrabili) solo per frammenti. L’ossessiva reiterazione del Primo Piano appartiene, dunque, alla volontà del regista di indagare il volto dei personaggi perché il loro corpo è inevitabilmente consegnato alla Storia. Un volto che è “esterno” rispetto alla storia del film, perché la sua immagine rimane al di là del corpo (e non a caso, fuori dall’ospedale, i superstiti vengono cercati attraverso nomi e fotografie di volti), e perché la sua forza “affettiva” oltrepassa lo spazio e il tempo per sedimentare nella dimensione mnemonica senza precisare la nozione di individuo ma distruggendola, frammentandola per ritrovare in essa solo emozioni e sentimenti universali: paura, desiderio, amore, rabbia (come traspare ad ogni fotogramma dai primi piani di Nancy, Sandra e Mario). I corpi dei personaggi, prendono consistenza in Post Mortem solo attraverso i rapporti (prettamente utilitaristici) che stabiliscono tra loro. I protagonisti del film sono “topi in trappola” (si muovono prevalentemente in sotterranei, e spazi angusti, fortemente delimitati: stanze, abitacoli di auto, corridoi, camerini) che vivono le relazioni interpersonali sul principio economico dello scambio di merci (e così vale anche per i sentimenti): Nancy sfrutta l’ossessione amorosa di Mario nei suoi confronti per trarne vantaggio e per sopravvivere, Mario stabilisce il suo cambiamento etico rispetto alla morte (per lui mera attività protocollare) quando, con orgoglio, sente di appartenere ideologicamente al corpo militare che presidia l’obitorio, Sandra, cerca in Mario l’antidoto al proprio senso di impotenza e infine, il titolare del locale, don Partricio, viene così appellato da Nancy: «Prima generazione con le scarpe». Ecco quindi che la portata del desiderio, cinico e spietato, di sopravvivenza che Nancy manifesta altro non è che lo stesso desiderio che ha il Cile di sopravvivere al proprio crollo. Perché come afferma il Dottor. Castillo in sala mensa: «Nessuno può sfuggire alla ruota della Storia».
I “fantasmi” di Post Mortem, assumo tale fisionomia a partire dalla prima entrata di Mario all’obitorio e visivamente prendono forma durante la sequenza della pausa in mensa che mette a confronto l’immagine mimetica (con i coloro dei vestiti e dello sfondo) del biancore di Sandra e Mario ripresi frontalmente a mezza figura (mentre fuori campo il Dottor Castillo evoca la “forza” della Storia) con il campo/contro-campo del lavaggio dei denti, in cui riflesso nello specchio (e pertanto pura immagine) Mario si trova in mezzo a Sandra (cioè a colei che si ribellerà, inutilmente, ai militari) e al patologo (cioè il “carnefice”, colui che spera nel colpo di Stato). Ecco dunque che Mario si trova perfettamente in mezzo agli ingranaggi della “ruota della Storia”, lui che, inconsapevolmente, è perfetta incarnazione del silenzio-assenso che permette (da sempre) il nascere dei regimi totalitari. Non a caso, dopo il primo “tradimento” di Nancy (quello della fuga con Victor) assistiamo all’autopsia sul corpo della donna: il luogo è diverso da quelli presenti nel film, il personale pure, e tranne Mario di nessun attante viene mostrato il volto. Si tratta di una visione? di un desiderio? Della vendetta di Mario per il tradimento? Larraín, giustamente, non chiarisce, ma è evidente che dopo la morte reale che Mario infligge a Nancy nel finale del film dopo il secondo tradimento, la scena assume i contorni metaforici del desiderio, di ciò che nell’ambito immaginifico è velato e opaco, necessario per illuminare il passato: Mario uccide per un ossessione d’amore impossibile, ma anche perché la società in cui è cresciuto gli ha insegnato a fare questo; la sua è una piccola tragedia immersa in una tragedia smisurata.
Di quanto in Post Mortem, il passato possa solo essere evocato, immaginato, suggerito, se ne ha testimonianza diretta dall’uso del sonoro diegetico che il regista utilizza nel film. Oltre ad amplificare i rumori della “rivoluzione”, a utilizzare il ticchettio dell’orologio come strumento di suspance che preannuncia l’ “esplosione”, è nella breve sequenza della doccia, magistrale (per complessità e rigore), che Pablo Larraín materializza i fantasmi dei suoi ricordi attraverso l’uso del sonoro diegetico che, fuori campo, evoca l’orrore che si confonde, mimeticamente, con il rumore dell’acqua della doccia, dando (allo spettatore) solo la percezione di ciò che accade prima che lo si possa vedere (solo nelle sue conseguenze) attraverso gli occhi dello stesso Mario. Larraín costruisce attorno all’uomo sotto la doccia (spazio già di per sé privato, intimo e claustrofobico) uno spazio asfittico ricorrendo all’utilizzo del “quadro nel quadro” costituito dai contorni della finestra con cui la ripresa è effettuata all’esterno della casa di Mario. Nell’intimità quotidiana dell’azione, esplode il cambiamento della Storia, e l’uomo, ignaro, perso nella sua attività ordinaria (la doccia appunto) non si accorge che improvvisamente da attore passivo della Storia, suo malgrado, ne diventa attore attivo. La sequenza è un pezzo di regia, di rara perfezione, sviluppata su un doppio binario, quello della suspance (di matrice hitchcockiana) e quello della metafora della quotidianità della Storia:

 

[C.L.] Esterno Casa – Mario scosta la tenda e guarda fuori dalla finestra
[C.M.] Esterno casa Nancy – Il fratellino della donna esce di casa / Raccordo sull’asse per mostrare il cagnolino che abbaia (in fuori campo si sente per tutta la durata degli stacchi il ticchettio dell’orologio)
[M.P.P.] Esterno casa – Mario guarda nuovamente fuori
[C.M.] Esterno casa – Mario è sotto la doccia (nel fuori campo rumore di mezzi e urla)
[P.P.] Interno doccia – Volto di Mario che si lava i denti (nel fuori campo urla e colpi di mitra)
[P.P.] Esterno casa – Mario sotto la doccia (nel fuori campo, ancora urla e esplosioni, poi un boato) / Mario chiude l’acqua della doccia
[TOT.] Interno bagno – Mario guarda fuori dalla finestra.

 

L’intento del regista, con questa costruzione complessa giocata sul fuori campo e sull’impossibilità di vedere, è chiaro e riconducibile all’impossibilità da parte sua di mostrare ciò che non ha vissuto direttamente. L’orrore può solo essere evocato e non ipocritamente mostrato per dovere (come spesso accade), e la sua forza sta nell’impressione che esso suscita e non nelle sue plastiche conseguenze (quelle del sangue e della carne martoriata), perché i “fantasmi” che si muovono nel film appartengono ad un passato ormai mascherato dall’oblio, ad un ricordo offuscato i cui dettagli sfuggono anche ai racconti dei sopravvissuti e il cui dolore è ormai estinto nella rimozione, senza mai dimenticare però che «Nessuno può sfuggire alla ruota della Storia».

Fabrizio Fogliato

 

 

Post mortem
Regia: Pablo Larraín
Sceneggiatura: Mateo Iribarren, Pablo Larraín, Eliseo Altunaga (consulente)
Fotografia: Sergio Armstrong
Montaggio: Andrea Chignoli
Musiche: Juan Cristóbal Meza
Casting: Paula Leoncini
Scenografia: Polin Garbizu
Costumi: Muriel Parra
Post-produzione: Alejandro Atenas
Suono: Miguel Hormazábal, Matías Valdés (montaggio), Ivo Moraga, Roberto Zuñiga
Location manager: Mauricio Dupuis
Produttore: Juan de Dios Larraín
Produttori esecutivi: Andrea Carrasco Stuven, Juan Ignacio Correa, Mariane Hartard
Interpreti: Alfredo Castro (Mario Cornejo), Antonia Zegers (Nancy Puelma), Jaime Vadell (Dr. Castillo), Amparo Noguera (Sandra), Marcelo Alonso (Víctor), Marcial Tagle (Capitano Montes), Santiago Graffigna (David Puelma), Ernesto Malbran (Arturo Puelma), Aldo Parodi (Pato)
Produzione: Autentika Films, Canana Films, Consejo Nacional de la Cultura y las Artes, Fabula, The Hubert Bals Fund of the Rotterdam Festival, Ibermedia European Community Program, World Cinema Fund, Distributors
Suono: Dolby Digital
Rapporto: 2.35 : 1
Negativo: 16 mm (Kodak Vision3 500T 7219)
Processo fotografico: Lomoscope (anamorfico)
Formato di proiezione: 35 mm (blow-up)
Paese: Cile, Germania, Messico
Anno: 2010
Durata: 98′

 

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vedi anche


 

Tony Manero
regia di Pablo Larraín (Cile-Brasile/2008)
recensione a cura di Fabrizio Fogliato
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