American Gigolo > Paul Schrader

Gli anni ’80, l’edonismo e… il segreto del “suo” successo
a cura di Fabrizio Fogliato

Il film di Paul Schrader apre la stagione cinematografica degli anni ’80 e segna, in qualche modo, il momento di passaggio tra la New-Hollywood “autoriale” del decennio precedente e la Hollywood rampante e “disimpegnata” dell’era reganiana. Nel cinema entrano il linguaggio del videoclip e soprattutto i meccanismi e i marchi pubblicitari, così che anche un film può rappresentare, a tutti gli effetti, un veicolo commerciale e promozionale. Julian Kay (Richard Gere trentenne), il protagonista di American Gigolo diviene in breve tempo icona e, assieme al Jack (Michey Rourke) di 9 settimane e ½ di Adrian Lyne (1986) e al Gordon Gekko (Michael Douglas) di Wall Street di Oliver Stone (1987), diventa il simbolo e il modello di un edonismo spietato, raffinato ed elegante. I tre personaggi costituiscono i vertici di un ipotetico triangolo ai cui angoli sono posti i (presunti) valori degli eighties: bellezza, sesso e denaro; all’interno di questo spazio si muove una società confusa e frastornata, investita da un fiume di denaro inarrestabile, che sembra (ri)vivere una favola in cui ogni attore agisce in funzione del proprio ruolo, in cui l’accumulo diventa norma e in cui l’apparenza cancella l’essere, con la costante e imprescindibile presenza del lieto fine. Il cinema hollywoodiano si prende l’impegno “politico” di rassicurare lo spettatore, di tenerlo lontano dai problemi (del decennio precedente) e di mostrargli l’American Way of Life, scandita sulle coordinate del benessere. American Gigolo, diventa (anche) archetipo di un nuovo modo e di fare e di intendere il cinema: il film esce nelle sale americane il 7 febbraio 1980 e, oltre a consacrare la bellezza e la bravura di Richard Gere, segna l’inizio della carriera di Jerry Bruckeimer (anche se la sua “gavetta” inizia alla metà degli anni’ 70 è American Gigolo a determinare il suo stile, il suo fiuto e la sua ascesa). American Gigolo inoltre, è anche il primo film in cui si consolida il trait d’union tra cinema e pubblicità: Bulgari, Mercedes, Hertz, Perino’s e il Country Club di L.A., sono tutti marchi ben in vista, il cui nome viene pronunciato senza falsi pudori e ostentato come uno status symbol, mentre gran parte dell’eleganza e della classe del film e del personaggio di Julian Kay sono da ascrivere al guardaroba firmato Giorgio Armani.

Il calvinista Paul Schrader compie opera di astrazione, immergendo il film in una Los Angeles irriconoscibile, per far emergere pienamente la figura complessa e contraddittoria di Julian Kay. Ciò che interessa al regista è dimostrare come l’edonismo sia un “valore” fragile e inconsistente e come esso non possa nascondere e/o cancellare i sentimenti dell’uomo. Come sempre, nel suo cinema, al protagonista è destinato un cammino di espiazione cristologico, al termine del quale si pone l’altare del sacrificio sui cui immolare la propria ri-nascita. Per puntualizzare questo percorso il regista costruisce il film su uno schema semplice e immediato votato a mettere in luce contraddizioni e discrasie che animano l’animo tormentato e confuso di Julian Kay. I titoli di testa scorrono sulle immagini “turistiche” di Palm Springs, mentre la voce extra-diegetica di Blondie canta Call Me, evidenziando da un lato la figura dell’accompagnatore a pagamento e dall’altro la solitudine della cliente.

 

 

Nel film si intrecciano classe, ricchezza e tradimento e sembra che l’una non possa esistere senza le altre e viceversa; Julian crede per gran parte del film di avere la situazione sotto controllo: lui spavaldo, sicuro di se e del suo corpo ritiene di essere il dominatore della situazione per poi, improvvisamente, accorgersi di essere diventato pedina di un gioco molto più grande di lui; il “pubblico” in American Gigolo è dominio della politica e della stampa, mentre il “privato” non esiste in quanto tale, ma solo come spazio “permeabile” (come dimostra l’appartamento di Julian). Rigore e dissoluzione, altro non sono che due facce della stessa medaglia, quella del “culto dell’apparenza”, come dimostra la famosa scena degli abiti scelti da Julian e mostrati ordinati e allineati nei cassetti, sul letto o negli armadi, come ad evidenziare la perfezione della forma: ma, se si osserva bene, la scena inizia con il dito di Julian che raccoglie la cocaina rimasta su uno specchio per poi sfregarsela sui denti. Allo stesso modo anche le architetture asettiche e impersonali presenti nel film e le inquadrature geometriche delle strade di Los Angeles e di Palm Springs, al loro interno nascondono un mondo arrivista e perverso (le abitudini dei Rheiman, il mercimonio di corpi offerto da Anne e Leon), e appaiono così come architetture di “morte” in cui ogni sentimento è stato cancellato per lasciar spazio alla freddezza della merce (di qualunque tipo). Non a caso dunque la scena iniziale mostra Julian intento a fare ginnastica mentre impara lo svedese (richiamando il motto: mens sana in corpore sano), mentre quella finale, che chiude la parabola di Leon, si svolge nel suo appartamento di fronte ai manifesti della serie “Torsos” di Andy Warhol: il corpo, da oggetto di culto, ammirato e venerato (come “sacro”) è diventato merce di interscambio, svilito, snaturato e offeso, e dunque, non ha più nulla né di vitale né di artistico, ma è solo un involucro inerte in grado di produrre denaro e solitudine.

Julian Kay (Richard Gere) esercita il mestiere di “gigolò” un tempo alle dipendenze di Anne e ora nell’interesse di Leon Jaimes, un uomo privo di scrupoli. Incontrata casualmente Michelle Straton (Lauren Hutton), giovane e trascurata moglie del senatore Charles, Julian ne diviene l’amante non prima di essere venuto in contatto, per commissione di Leon, con i coniugi Rheiman dai gusti depravati. Quando Judy Rheiman viene trovata sadicamente uccisa a Palm Spring, Julian si trova ferocemente incalzato dall’ispettore Sunday e invano chiede soccorso alle precedenti amiche o clienti Anne e Lisa Williams. Per quanto non gli sia difficile capire di essere vittima di una macchinazione partita da Straton e manovrata direttamente dal traditore Leon, Julian non può dimostrare alcun alibi. Schiacciato da numerosi indizi, il giovane tenta di reagire aggredendo Leon nel suo stesso appartamento…

Paul Schrader costruisce American Gigolo sullo sguardo oggettivo: guarda, osserva, studia, con la meticolosità dell’entomologo, i suoi protagonisti, agitarsi dentro la gabbia dorata in cui vivono. I lunghi carrelli laterali e a seguire, i “raggelati” campi medi in cui chiude i protagonisti, sono riproduzione filmica della trappola (cardine del suo cinema), qui rappresentata dall’edonismo. Il culto della bellezza, l’esasperata attenzione per il corpo, per la forma, per il modo di vestire, nascondono, evidentemente, un vuoto esistenziale, fatto di intelligenza e presunzione. Il paradosso si concretizza durante la scena del risveglio mattutino di Julian e Michelle, dopo la loro prima notte d’amore. Un lento carrello in avanti, perlustra la moquette dell’appartamento di Julian, mentre il sonoro fa immaginare allo spettatore una situazione di erotismo telefonico: quando la m.d.p. Arriva ad inquadrare il letto, si vede Julian simulare la situazione erotica con la cliente e accanto a lui il corpo nudo e addormentato di Michelle; quando la donna si sveglia, l’uomo interrompe la conversazione telefonica e ordina la colazione. Michelle vuole sapere tutto di Julian e gli chiede chi sia, da dove viene, e la risposta dell’uomo è , a suo modo, disarmante: «Io sono di questo letto; tutto quello che c’è da sapere su di me, lo vieni a sapere facendo l’amore con me». Poi Julian si alza, e nudo, si avvicina alla veneziana, e guardando fuori, racconta alla donna di sentirsi utile ne risvegliare i piaceri sessuali delle vegliarde cui fa da “accompagnatore”. Il vuoto esistenziale unisce, dunque, cliente e offerente, e a testimonianza di quanto la finzione sia solo di facciata e l’edonismo, una sorta di corazza dentro cui proteggersi, interviene il dialogo iniziale tra Julian e Michelle, dentro il ristorante. Girato secondo gli stilemi del cinema “classico”, e pertanto costruito sui raccordi, il dialogo tra i due si sviluppa come una partita a scacchi, animato da una tensione interna crescente e teso al climax della “rottura”. Julian: «L’ho vista seduta qui. Lei voleva che mi avvicinassi, e io mi sono avvicinato…Guardi che io ho buon fiuto…». Michelle: «Quanto avrebbe voluto da me?». Julian: «…In che veste, quella di interprete o di autista?». Michelle: «No… solo per una scopata…». Julian: «Ora è lei che si sta sbagliando… io non faccio queste cose… arrivederci…». Michelle, fa subito cadere la maschera e il suo gesto risulta oltremodo simbolico nel film, perché coincide con il ribaltamento dei ruoli: Julian, da convinto dominatore, passa al ruolo di dominato, e da li a poco, ignaro, diventerà pedina di scambio “commerciale”.

 

 

Mentre, lentamente, la trappola si stringe intorno a Julian, l’uomo, comincia a prendere coscienza del proprio ruolo e di quanto pericoloso possa essere il diventare oggetto di ricatto e ricattabile. Il potere contamina ogni cosa e la distrugge e la legge non riesce neanche a salvare gli innocenti, perché questi, come Julian, sono comunque colpevoli di fronte a Dio. Non a caso, prima, nel centro commerciale, Julian afferma rivolto al detective: «Le leggi le fanno gli uomini e a volte sbagliano… o sono stupidi… o sono gelosi… e certi uomini sono al di sopra della legge», per poi ammettere di fronte a Michelle nel parco: «Ho passato tutta la vita a cercare qualcosa, senza sapere che cosa. Forse sei tu, quello che cercavo». Il peccato, dunque, agisce da riempitivo di esistenze tormentate, la colpa è un palliativo dietro a cui mascherare comportamenti poco onorevoli, e infine, la scelta è dominata dal libero arbitrio, ma di fronte alla misericordia di Dio (qui rappresentato come l’Amore), l’uomo trova la strada (impervia) della redenzione.

Così avviene per Julian, cha da questo momento in poi inizia un progressivo percorso di destrutturazione della sua esistenza precedente. Distrugge l’appartamento, muovendosi in esso come un animale braccato prima e rabbioso poi, alla ricerca della prova che può incastrarlo; trascura il suo abbigliamento e il suo corpo, incurante dell’etichetta richiesta in locali come Perino’s (dove gli viene rimproverato di presentarsi senza giacca); smonta la sua Mercedes e noleggia un altra vettura meno glamour e più comune, infine si trova a confrontarsi con Leon, l’uomo che lo ha incastrato («Perché con te era facile Julian, hai pestato troppi piedi…»), e si ritrova a dover subire tutto il peso della colpa regressa e quello del sacrificio necessario all’espiazione: la morte di Leon, è dunque il “bagno di sangue” dovuto alla volontà di rinascita, perche se da un lato Leon gli intima: «Non ha importanza quanto saresti disposto a pagare Julian, …tanto l’altra parte pagherebbe sempre molto di più», dall’altra il carcere è un passaggio temporaneo: il purgatorio prima del paradiso. Solo Michelle ha in mano le carte per salvarlo, e la donna decide di sacrificare reputazione, ricchezza e prestigio sull’altare dell’Amore, con un gesto simbolico (quello dell’autodenuncia) che appare programmatico nella condanna, da parte del regista, nei confronti dell’edonismo imperante. Una carezza sul vetro del parlatorio, per uno dei finali più romantici e morali degli ultimi anni: da una parte la mano di Michelle e dall’altra la fronte di Julian; la donna: «Non avevo scelta Julian… perché io ti amo..», e l’uomo replica: «Anche io Michelle… quanto tempo ci ho messo a capirlo…». •

Fabrizio Fogliato
fabriziofogliato.com

 

 

 

American Gigolo

Regia, soggetto, sceneggiatura: Paul Schrader
Fotografia: John Bailey
Montaggio: Richard Halsey
Musiche: Giorgio Moroder
Scenografia: Ferdinando Scarfiotti
Interpreti: Richard Gere (Julian Kay), Lauren Hutton (Michelle Stratton), Hector Elizondo (Detective Sunday), Nina Van Pallandt (Anne), Bill Duke (Leon), Brian Davies (Charles Stratton), K Callan (Lisa Williams), Tom Stewart (Mr Rheiman)
Produzione: Paramount Pictures
Rapporto: 1,85:1
Suono: Dolby
Paese: USA
Anno: 1980
Durata: 117′

 



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