Patty Hearst > Paul Schrader

Patty Hearst, che nell’1988 viene presentato al Festival di Cannes passando nell’anonimato più totale, è da sempre considerato uno dei film minori di Paul Schrader, legato a quel periodo “poco ispirato” che va dalla metà degli anni ’80 fino ai primi anni ’90. L’opera in questione è la trasposizione cinematografica dell’autobiografia di Patricia Campbell Hearst pubblicata nell’81, Every Secret Thing, dalla figlia del wellesiano William Randolph Hearst. Patty Hearst non è un film “sbagliato”, ma “splendidamente sbagliato”, e questo a causa del fatto che non imbocca alcuna strada univoca, ma preferisce acuire l’ambiguità e il parossismo della vicenda, esasperando questa scelta attraverso un continuo cambio di registro narrativo: dalla farsa al dramma, passando per il surreale, dentro a un “clima” profondamente claustrofobico, trascrive (letteralmente) i passaggi essenziali della vicenda senza esprimere un giudizio. I terroristi dello SLA appaiono come una massa di “disperati” riuniti in una comune dell’illegalità in cui sesso e violenza sono ambiti interscambiabili, mentre gli ideali sono monolitici e conformisti: lo stato è fascista, i poveri dei bisognosi e i terroristi dei benefattori. Millantando la presenza (inesistente) di altre cellule Sinkiou cerca di convincere il gruppo, e se stesso, che le masse di diseredati che vivono ai margini delle periferie delle grandi città sono pronti a seguirli, mentre non solo non è così, ma gli unici aiuti che trovano vengono da immigrati musulmani, che poco hanno a che spartire con i “presunti” ideali dello SLA. Tutta la vicenda Hearst è infatti trattata da Schrader con disarmante semplicità, non tanto per una scelta irresponsabile (come potrebbe apparire), ma perché le incongruenze e le iperboli che la caratterizzano non possono trovare altra chiave di lettura se non quella del grottesco e (talvolta) della parodia.

Patricia “Patty” Campbell Hearst nasce a San Francisco il 20 febbraio 1954. Il suo bisnonno era George Hearst, un ricchissimo imprenditore minerario statunitense e senatore degli USA, mentre suo nonno è il magnate della carta stampata William Randolph Hearst. Patty è la terza di cinque figlie, nata da Apperson Randolph Hearst e Catherine Wood Campbell. Il 4 febbraio1974 Patty Hearst viene rapita nel suo appartamento di Berkeley (California), dai membri della Symbionese Liberation Army (Esercito di Liberazione Simbionese). Il gruppo, che conta circa una dozzina di membri complessivamente, è già noto per l’omicidio di Marcus Foster sopraintendente alla scuola di Oakland. Il commando dell’operazione è composto da due uomini e una donna, i quali, dopo aver aggredito il fidanzato, portano via la donna, allora diciannovenne. Lo SLA è una delle molte formazioni combattenti degli anni ’70 negli USA, nate dopo le sanguinarie repressioni da parte della Polizia e della Guardia Nazionale del movimento Radicale. L’ Esercito di Liberazione Simbionese è composto da attivisti/e che hanno lavorato in carcere ed ex-prigionieri afroamericani; salgono agli onori delle cronache mondiali, proprio grazie all’incredibile vicenda di Patty Hearst. Inizialmente la ragazza viene bendata e chiusa in uno sgabuzzino, mentre in un secondo tempo (vedi alla voce sindrome di Stoccolma), stringe amicizia con i suoi rapitori e in meno di due mesi decide di unirsi al loro movimento. Cambia il suo nome in Tania (nome preso da Haydée Tamara Bunke Bider) e prende parte a un gran numero di rapine armate presso delle banche.

Il fatto clamoroso della vicenda è che la stessa Patricia Hearst rilascia un comunicato, registrato su audiocassetta, in cui dichiara la sua convinta adesione al gruppo terroristico nella lotta contro l’oppressione e il dominio delle multinazionali. Messaggio accompagnato da una fotografia in cui Tania (Patty Hearst) posa con basco e abiti da guerrigliera, imbracciando un mitra davanti al simbolo dello SLA (un cobra a sette teste). La prima operazione cui partecipa la donna è l’assalto alla Hibernia National Bank di San Francisco il 15 aprile 1974, occasione durante la quale Tania/Patty viene ripresa dalle telecamere di sorveglianza e riconosciuta durante la rapina. In seguito al rapimento i sequestratori dichiarano Patty Hearst prigioniera di guerra e pongono le condizioni per il rilascio in questi termini: tutti i messaggi (lettere e audiocassette) devono essere resi pubblici attraverso i media; 400 milioni di dollari devono essere distribuiti fra tutti i bisognosi che si trovavano nelle strade della California; 90.000 pacchi da distribuire per il programma denominato “People of Need”. La sua prigionia, sia quella coatta che quella “volontaria”, dura in tutto 591 giorni. Il 24 settembre 1974 Patricia Hearst compare nella lista dei ricercati dell’FBI, perché nel suo ruolo non si limita a compiere rapine, ma pure una serie di attacchi dinamitardi ad alcune auto della polizia. Il 18 settembre 1975 viene catturata dopo lunghi mesi di ricerche insieme alla compagna Wendy Yoshimura. Durante il processo la difesa ottiene l’intervento di diversi psicologi e psichiatri per valutare la condizione psichica della donna, sostenendo una linea difensiva tutta poggiata sull’ipotesi del plagio da parte dei rapitori e invocando a più riprese il quinto emendamento (in cui si prevede che nessun individuo può essere costretto a testimoniare contro di sé). Nonostante gli sforzi della difesa, Patty Hearst viene condannata in primo grado a trentacinque anni di reclusione (venticinque per la rapine alle banche ai quali si sommano dieci anni per il possesso illegale di armi da fuoco), successivamente la condanna verrà mitigata e ridotta, prima a sette anni, poi a ventidue mesi, per via di una grazia concessa dal presidente Jimmy Carter nel 1979 (anni dopo Ronald Reagan le concederà l’indulto, confermato da Bill Clinton nel 2001).

 

Questa la vicenda reale, sulla quale il film di Paul Schrader imbastisce una continuità narrativa pressoché fedele, ma dalla quale si distanzia nel tono della messa in scena, perennemente in bilico tra dramma e farsa. Il film ha il merito di non sciogliere e di non indagare l’ambiguità di fondo, lasciando che i vari passaggi oscuri (e alcuni anche incredibili) rimangano tali, lasciando allo spettatore la ricerca della plausibilità. Tutta la prima parte, quella incentrata sul sequestro, altro non è che la rappresentazione di un’allucinazione, agita e vissuta in uno spazio “inesistente”, un non-luogo metaforico. Le immagini sgranate in bianco e nero, insertate lungo la lunghissima sequenza della prigionia, raccontano le paure di Patty e la sua convinzione di essere vicina alla morte: visioni di morte, incubi veri e propri, dentro ai quali il corpo di una donna rotola in una fossa buia che verrà ricoperta di terra da un gruppo di uomini/diavoli. È semplice pensare che Schrader abbia voluto, con queste immagini, ricostruire l’enorme shock nel quale Patty era immersa e con questo giustificare (o quantomeno individuare le motivazioni) delle sue scelte criminali successive. L’inquadratura fissa e sbilenca in cui la porta dello sgabuzzino si apre e si chiude ossessivamente lasciando vedere solo le silhouette dei rapitori che di volta in volta pronunciano slogan farneticanti, è sottolineata da una musica ipnotica che corre sottotraccia e “oscurata” dalla fotografia pervasiva e minacciosa di Bojan Bazelli (non a caso uno dei direttori della fotografia di Abel Ferrara). Schrader cerca di trasmettere tutto il disagio e l’ansia provati dalla donna, perennemente bendata e, dunque, incapace di identificare e distinguere (come gli spettatori) ciò che la circonda.
Non a caso tutta la parte relativa al sequestro è mostrata attraverso inquadrature deformanti, uso del grandangolo, panoramiche ossessive e claustrofobiche che mostrano il rifugio come un luogo obliquo e indefinito immerso nell’oscurità più totale (solo il bagno è dipinto di un rosso acceso), ristretto e perturbante; i membri delle SLA sono “solo voci” (come dichiara la stessa Patty), sagome indefinite, ombre. Una volta dismessi i panni della prigioniera, tutto (a lei e allo spettatore) appare molto più “normale”: una stanza come tante, percorsa dal disordine della convivenza, con i volti dei componenti dello SLA persino banali e sorridenti. La benda sugli occhi ritorna in tutta una serie di flashback legati all’infanzia e alla vita familiare di Patty, evidenziando una tesi integralista (calvinista e dunque profondamente autobiografica per Schrader), secondo cui l’agio, la sicurezza e l’intoccabilità raggiunte dalla donna durante la sua crescita, se da un lato dovrebbero renderla immune dal contagio del Male, dall’altro rappresentano un detonatore imprevedibile nei confronti della fascinazione verso il Male. In contrasto a questo aspetto ambiguo e complesso, il regista dipinge i membri dello SLA in maniera bidimensionale e schematica, evitando di tracciare sopra di loro alcuna complessità psicologica, come ben si evince dalla risposta data da Cujo a Patty quando questa dice di aver bisogno di andare in bagno: «Parli come una principessa. Se devi pisciare, dì “devo pisciare”, se devi cacare dì “devo cacare”… così parla la povera gente».

Guardando Patty Hearst si ha la sensazione che Paul Scharder si sia concentrato solo sulla prima parte del film. Tutta la parte centrale, con le vicende criminali del gruppo, la stereotipata escalation della violenza, le prevedibili divisioni interne e il preannunciato annientamento dello SLA da parte dell’FBI, come pure il finale, con il processo e lo stucchevole confronto tra padre e figlia, sono anonime e prive di consistenza, superficiali. Sembra quasi che di fronte all’assurdità della vicenda e alla manifesta pochezza dei protagonisti della stessa, il regista si sia arreso a una messa in scena pedissequa e divulgativa senza mai cercare di sondare l’ambiguità della scelta (?) di Patty. Anche la recitazione di Natasha Richardson, efficace e puntuale nei primi quaranta minuti, dopo diventa macchiettistica e caricaturale, rasentando il ridicolo e ammiccando (nel sorriso) al Norman Bates di Psycho.

In definitiva Patty Hearst non svela ma racconta, non giudica (e questo è un pregio) ma non spiega (e questo non lo è), e risulta un’occasione mancata (volutamente?) per analizzare l’ambiguità dell’intera vicenda, ma anche per dire qualcosa sul capitalismo americano, sui suoi scheletri nell’armadio, sulle sue ipocrisie e sulle sue omissioni, come dall’altro lato sarebbe stato interessante immergere la vicenda dello SLA in un tessuto sociale più articolato e meno manicheo. Resta il racconto compiuto, formalmente ineccepibile, ma non inventivo, di una pagina della storia americana percorsa da ombre e sottotesti, che Schrader porta a termine come un compitino ben fatto, ma rinunciando ad affondare il bisturi nella carne, come invece aveva fatto con tutt’altra maestria in precedenza, quasi a volersi allontanare da un cinema profondamente critico, religioso e complesso, e provare ad essere mainstream attraverso un biopic ordinato e accessibile a tutti. •

Fabrizio Fogliato
fabrizofogliato.com

 

 

Patty Hearst
Titolo italiano: Patty – La vera storia di Patty Hearst

Regia: Paul Schrader
Sceneggiatura: Alvin Moscow, Nicholas Kazan dall’autobriografia di Patricia Hearst Patricia Campbell Hearst Every Secret Thing (1981)
Fotografia: Bojan Bazelli
Montaggio: Michael R. Miller
Casting: Pamela Guest
Musiche: Scott Johnson
Produttore: Marvin Worth
Interpreti: Natasha Richardson (Patricia Hearst), William Forsythe (Tekp), Ving Rhames (Cinque), Frances Fisher (Yolanda), Jodi Long (Wendy Yoshimura), Olivia Barash (Fahizah), Dana Delany (Gelina), Marek Johnson (Zoya), Kitty Swink (Gabi), Tom O’Rourke (Jim Browning)
Produzione: Atlantic Entertainment Group, Zenith Entertainment
Souno: Stereo
Rapporto: 1.85:1
Paese: USA, UK
Anno: 1988
Durata: 108′

 



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