Il piacere dell’illusione. “La ronde” di Max Ophüls

Il piacere dell’illusione
La ronde • Max Ophüls • Francia/1950
a cura di Fabrizio Fogliato
da Rapporto Confidenziale 37 | anteprima | compra

Vienna 1900. Un narratore (Anton Wallbrook) entra in scena e recita davanti ad un palco, si cambia d’abito e si avvicina ad una giostra di quelle per i bambini: Il “girotondo” può cominciare. Un prostituta di nome Léocadie (Simone Signoret) conta i soldati che attraversano un portico: quando arriva il sesto di essi, lo seduce e lo conduce con sé. Sotto un ponte l’entreneuse e Franz (Serge Reggiani) consumano la loro passione. Subito dopo lui l’abbandona e si ritira frettolosamente in caserma. Qui lo aspetta il narratore, travestito da trombettiere, il quale lo invita a sbrigarsi per il contrappello, evitare la consegna, perché sabato sera “la ronde” ha bisogno di lui. La sera del sabato Franz presenzia ad una serata danzante al Prater; qui seduce una giovane cameriera di nome Marie (Simone Simon), la quale si lascia abbagliare dal fascino della divisa e si apparta con lui nel parco antistante la villa: qui i due si amano e poi si lasciano. Lui vuole continuare a ballare, lei lo aspetta, rientra in ritardo e viene licenziata. Il narratore la accompagna, lungo un passaggio temporale, verso un nuovo padrone. Tempo dopo Marie è a servizio presso una famiglia il cui figlio è un giovane studente di nome Alfred (Daniel Gélin). Una domenica il giovane è a casa da solo in attesa dell’arrivo del professore di francese. Marie, in cucina, legge una lettera di Franz di ritorno dalle manovre militari. Alfred, con la scusa di avere sete, chiede alla donna di portargli un bicchiere d’acqua; la seduce e con lei trascorre un pomeriggio d’amore. Il narratore, travestito da mercante maghrebino, invita l’ignaro professore a desistere dal recarsi a casa del giovane.
Dall’altra parte della città, in un lussuoso pied-a-terre, alcuni giorni dopo, il giovane Alfred attende l’arrivo di qualcuno. Una carrozza si ferma davanti all’edificio: una donna scende con molta circospezione e si avvia verso l’ingresso: è la Signora Emma Breitkopf
(Danielle Darrieux), donna borghese, elegante e sposata. Nell’appartamento, tra imbarazzo ed emozione il giovane e le donna si guardano e si studiano reciprocamente. I due sembrano non concludere nulla, al punto che il narratore vede la giostra incepparsi, sbuffare e singhiozzare: il meccanismo si ferma ed egli si deve mettere al lavoro per farlo ripartire prima che sia troppo tardi. Mentre Alfred si reca in cucina per prendere una bottiglia di vino, la donna si spoglia e si infila nel letto per attendere il giovane. I due si abbandonano ad una lunga passione poi, la donna si riveste celermente, saluta il giovane studente con la promessa di rivedersi al ballo la sera successiva. Emma Breitkopf torna a casa dal marito. I coniugi Breitkopf sono in camera da letto, sdraiati nei loro letti, vicini ma separati, discutono del passato, rielaborano ricordi e portano la discussione sul tema del tradimento. Poi ogni parola viene meno, i due fanno l’amore e si addormentano insieme.
Alcune sere dopo Charles Breitkopf
(Fernand Gravey) ospita nel salottino privato di un ristorante una giovane e disinibita fanciulla di nome Anna. L’uomo, prima le offre la cena e poi si prodiga di avance nei suoi confronti. Affascinata dal lusso, dalla ricchezza, e dal proibito, Anna (Odette Joyeux) si abbandona alla passione dell’uomo. Al momento dei saluti promette al marito fedifrago che si rivedranno la sera dopo. L’uomo attenderà inutilmente seduto da solo al tavolo del privè. Anna ha incontrato un giovane poeta, Robert Kuhlenkanpf (Jean-Louis Barraut) e con lui trascorre un pomeriggio d’amore. Il poeta la lusinga, le promette piaceri e viaggi ma già alla sera l’ha dimenticata perché nel frattempo ha incontrato Charlotte un’esuberante soubrette con la quale si ritira nel suo camerino per dare sfogo ad una nuova passione.
Al mattino dopo Charlotte
(Isa Miranda), ancora sdraiata nel letto di casa sua riceve un conte (Gérard Philipe) in alta uniforme militare. Qui, senza batter ciglio, dopo aver invitato il nobile a fermarsi i due consumano il loro amplesso mentre dai vetri filtra ancora il sole del mattino. Al momento del saluto la donna rinnova al conte l’invito per la sera stessa. La notte il conte si risveglia tutto intorpidito, in un luogo sconosciuto: ricorda l’ubriacatura della sera precedente, di aver cenato da solo con il suo levriero Harras. Il conte si risveglia in una stanza povera, semplice e disadorna. Nel letto di fronte a lui Léocadie giace addormentata. Il conte non ricorda di aver seguito la prostituta. L’uomo non ricorda di aver avuto con lei alcun rapporto sessuale, ma la donna afferma il contrario. Il conte si allontana con Harras e incontra il narratore. La giostra si è fermata, il girotondo è finito e il narratore si allontana e scompare sullo sfondo.

 

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Il 7 Gennaio del 1897 Arthur Schnitzler termina la stesura di “Reigen” affermando che «Qualcosa di così irrappresentabile non si è ancora visto», al punto che l’autore è dubbioso se dare alle stampe il suo dramma. Non a caso, la prima rappresentazione teatrale dell’opera è messa in scena solo venti anni dopo da Max Reinhardt al Kleines Schauspielhaus di Berlino nel 1921. È la prima di una serie di rappresentazioni tormentate e ostacolate dal moralismo e dalla furia censoria: a Vienna, tempo dopo, la messa in scena di “Reigen” scatena tumulti di piazza e interpellanze parlamentari. La ronde di Max Ophüls viene girato in Francia tra il gennaio e il marzo del 1950. Durante i 43 giorni di lavorazione le riprese si interrompono continuamente a causa dell’insolvenza nei pagamenti della casa di produzione La Sacha Gordine. Il film una volta terminato viene presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, accolto con favore dalla critica internazionale e accompagnato da proteste e clamori che giungono, da parte cattolica, fino al limite della scomunica come dimostra il caso di Münster luogo in cui la chiesa impedisce la proiezione del film. Sin dal prologo, La ronde svela la sua complessità registica, in cui, già nella sequenza iniziale emerge la cifra stilistica e avvolgente dei movimenti della macchina da presa di Ophüls: il piano sequenza iniziale viene realizzato dopo la costruzione di oltre cinquanta metri di binari, curve e scambi.

Max Ophüls segue Arthur Schnitzler nella costruzione di La ronde come un “ballet mecanique” in cui il tema “osceno” (nell’accezione greca del fuori-scena) e l’immediatezza realistica della messa in scena si coniugano in un ritmo centripeto vorticoso e incessante volto a stritolare i propri personaggi. Oltre alla circolarità del valzer, delle riprese, delle trombe delle scale, della giostra, Ophüls progressivamente restringe lo spazio abitativo dei personaggi portandoli ad una condizione claustrofobica e inabitabile dalla quale ognuno di loro è costretto a fuggire e, di conseguenza, entrare nella storia successiva. L’assunto di fondo, quello di matrice schnitzleriana è disarmante nella sua linearità e (apparente) banalità: l’amore dapprima si esprime attraverso un’irrefrenabile passione, un inesausto desiderio fisico e poi, dopo il coito, si spegne progressivamente nella routine e nell’abitudine. Gli incontri nel film, altro non sono che pura pulsione biologica in cui il momento della seduzione, più che preambolo necessario, risulta essere mero ornamento. Lo sguardo oggettivo di Ophüls è impietoso e imperioso nel tratteggiare una società manipolata e manipolabile, che ha rinunciato ai sentimenti e che sembra essere travolta dal vuoto e dall’assenza. A dimostrazione di ciò è interessante notare l’uso della parola nel film: quasi sempre contraddittoria, ipocrita e inautentica, modulata sulla retorica che accompagna l’idea ( e non la realtà) di ogni ruolo sociale, che trova perfetta sintesi nell’affermazione del conte: «Proprio le cose di cui si parla…non esistono.»

I dieci episodi di La ronde (1950) seguono un identico impianto strutturale: la casualità di un incontro tra un uomo e una donna e il loro dialogare mirato ad un unione sessuale, l’amplesso (suggerito e mai mostrato), e l’abbandono tra i due repentinamente giunti alla condizione di sconosciuti l’uno all’altra. Quella messa in scena da Max Ophüls è a tutti gli effetti una catena in cui ogni anello è legato a quello successivo attraverso la presenza o dell’uomo o della donna. Così facendo il regista vede ogni sui personaggio nella duplice veste di “vittima e carnefice”. La ronde, nonostante le apparenze, è un film funereo, un film in cui si celebra il “nero” come l’unica forma di riempimento possibile per una società spersonalizzata e imbalsamata. Il “nero” in cui domina l’assenza, quello della dissolvenza che nega la visione del rapporto sessuale e che al contempo esalta il vuoto pneumatico di esistenze allo sbando. Provocatoriamente Ophüls compensa la miseria morale dei suoi personaggi con un’ostentazione barocca e ridondante dei costumi da loro indossati; posiziona le sue “pedine” in una città, Vienna al tempo della Belle Epoque, volutamente di cartapesta: uno scenario fittizio, un palco, per una recita teatrale di manichini diretti e orchestrati dalla sagacia e dall’arguzia del “meneur de jeu”. Espliacativo, a tal proposito, è l’epilogo dell’episodio del giovane studente e della signora, che mostra un valzer danzato dai due inquadrati dal basso in modo da sembrare quasi sospesi nel loro volteggio, con alle spalle una giostra che ruota a sua volta (ma in senso inverso) su cui sono posizionate in pose plastiche altre coppie borghesi che li guardano, vi si rispecchiano e ammiccano al loro essere ipocriti; poi il “menu de jeu” introduce, con malcelata costernazione e alterità l’episodio successivo. Non a caso, quindi, il regista elimina quasi del tutto i nomi dei personaggi per lasciare spazio ai ruoli sociali che essi rivestono: archetipi paradigmatici prima ancora che individui. Al centro della società c’è il nucleo familiare, quello composto da marito e moglie. Max Ophüls, che posiziona l’episodio in questione al centro del film, si diverte a sbeffeggiare la morale borghese attraverso lo svolgimento stesso della sceneggiatura. Per il regista, l’ipocrisia dominante che accomuna tutta la società, a partire dalla famiglia per giungere alla prostituta, è evidenziata da un’antropologia sessuale che rifiuta ogni condizionamento ma che, al tempo stesso pretende di autolimitarsi.

È curioso vedere, come i personaggi nei film alle buone intenzioni iniziali, facciano repentinamente seguire scelte dissolute e libertine quasi come se essi stessi rifiutassero di riconoscere la loro natura tragica e distruttiva.

Emblematico è l’episodio in cui Emma, recatasi a casa del giovane studente, tenti in ogni modo di convincersi a non concedersi all’uomo, indossando persino una doppia veletta e confidando ad Alfred la volontà di fermarsi solo per pochi minuti. Successivamente, invece si scopre che non solo non ha preventivamente indossato il busto, ma che ha portato con sé un allacciascarpe, in modo da non perdere tempo ulteriore al momento di rivestirsi. È in questi piccoli scarti caustici ma eleganti, che Max Ophüls personalizza e piega alle sue esigenze artistiche il testo teatrale di Arthur Schnitzler. Scarti narrativi, che il regista orchestra attraverso una messa in scena circolare in cui il “meneur de jeu” è al contempo narratore interno ed esterno, suggeritore per lo spettatore e personificazione del punto di vista del regista all’interno del film. Lo spettatore in La ronde è introdotto e accompagnato (durante tutta la durata del film) dalla presenza costante del “meneur de jeu”, figura enigmatica che, in avvio di film, spiega essa stessa il suo ruolo: «E io? Che sono in questa storia? La ronde? L’autore? Il commento? Un passante?… Io sono voi. Proprio uno qualsiasi di voi. Sono l’incarnazione del vostro desiderio di conoscere tutto. Gli uomini conoscono solo una parte della realtà. E perché? Perché vedono un solo aspetto delle cose. Io invece le vedo tutte, perché vedo… en ronde. E sono dappertutto in una volta sola…»

Il prologo è quindi una dichiarazione programmatica: l’eternità scorre inesorabile e ininterrotta davanti ai nostri occhi, i quali possono solo vedere la superficie delle cose, perché nessuno può mettere il piede giù dalla giostra, la quale diventa una sorta di meccanismo infernale (e non a caso nel film rumoreggia, sbuffa, fuma ed è percorsa da ombre sinistre) che accompagna storie (apparentemente) frivole e di poco conto, trasformandole in tante piccole morti (l’amplesso, ovvero la “petit morte”). Personaggi perdenti, sconfitti prima che dalla vita da loro stessi, dalla loro incapacità di vivere e di essere sinceri, come dimostra l’episodio che vede protagonisti i coniugi Breitkopf, quello centrale in La ronde, il fulcro attorno a cui, in senso anti-orario ruota la prima parte del film, e in senso orario la seconda parte (ecco spiegata la presenza insistente dell’orologio al centro dell’inquadratura). Emma e Charles sembrano non accorgersi del loro fallimento come coppia, ma dalle parole del marito sembra emergere la presenza di un vuoto ontologico innato nella relazione matrimoniale, quello della fedeltà cerebrale prima ancora che fisica, come dimostra il suo ragionamento sulle “pause dell’innamoramento”.

La sequenza è interamente costruita, paradossalmente, sul concetto di simmetria, una separazione speculare delle parti (sin dai letti vicini ma non attaccati) volta a evidenziare l’ipocrisia reciproca (entrambi tradiscono e vengono traditi). Il movimento di macchina introduttivo con il carrello ad avanzare che mostra i letti da dietro la testiera è un chiaro riferimento all’anonimato di questi due individui-archetipi e contemporaneamente una negazione della loro fisicità. Non a caso, per gran parte della sequenza, i coniugi appaiono come due “pietre” incastonate nella scenografia della camera da letto che, non solo li sovrasta nella sua grandezza, ma attraverso la regia di Ophüls, li cancella progressivamente dal quadro fino a schiacciarli nell’angusto spazio del piccolo arco sotto l’orologio: scelta che definisce l’isolamento e la separazione che regnano all’interno del matrimonio borghese (e non).

Come afferma all’inizio il “menu de jeu” aspetto centrale della vita e della messa in scena è il concetto di vedere, poiché è quello attraverso cui si manifesta il desiderio: desideriamo ciò che vediamo. Lungo tutta la durata de La ronde ci si trova di fronte ad un numero pressoché infinito di specchi, vetri, superfici riflettenti in cui “guardare dentro” o attraverso cui “vedere oltre”. Max Ophüls, dunque, costruisce una messa in scena voyeuristica a 360° in cui lo sguardo è onnisciente e in cui l’aspetto “pornografico” dell’amplesso è volutamente (non solo per questioni censorie) tenuto fuori-campo nello spazio indefinito e pregnante dell’assenza. Nel penultimo episodio il discorso sul “vedere” diventa esplicito, quando l’attrice, durante i preliminari del coito, dice al conte: «Possiamo quasi immaginare che sia notte e che nessuno possa vederci…», ma la m.d.p. si alza e con un breve movimento di macchina va ad inquadrare lo specchio posto sul letto, per cui non solo “loro” si possono vedere, ma possono essere visti da tutti gli spettatori. Max Ophüls utilizza qui il fuori-campo dell’amplesso per insertare un breve segmento ironico con il “meneur de jeu” che taglia la pellicola dicendo «censura…», poi torna al centro della scena con i due che si rivestono. Questo breve passaggio, è però fondamentale nell’economia del film e nella definizione delle regole dello spettacolo (tema centrale in tutto il cinema di Ophüls), perché spiega al meglio le parole iniziali e il ruolo del “menu de jeu”. «Girano girano i miei personaggi, la terra gira giorno e notte, l’acqua piovana diventa nuvole e le nuvole ricadono come pioggia. Donne oneste, tenere sartine, aristocratici o soldati… Quando arriva l’amore a sorprenderli, girano, danzano con lo stesso passo. Adesso inizia la ronde, è l’ora calma in cui muore il giorno…» •

Fabrizio Fogliato

 

 

LA RONDE
Regia: Max Ophüls • Soggetto: Arthur Schnitzler (dalla commedia Der Reigen) • Sceneggiatura: Jacques Natanson, Max Ophüls • Fotografia: Christian Matras • Montaggio: Léonide Azar • Musiche: Oscar Straus • Costumi: Georges Annenkov • Trucco: Carmen Brel • Scenografie: Charles Merangel, Henri Vergnes • Suono: Pierre-Louis Calvet • Operatore: Alain Douarinou • Adattamento musicale: Joe Hajos • Assistente alla regia: Tony Aboyantz, Paul Feyder • Assistente al montaggio: Suzanne Rondeau • Production Design: Jean d’Eaubonne • Production Manager: Ralph Baum • Produttori: Ralph Baum, Sacha Gordine • Interpreti: Anton Walbrook (Il presentatore), Simone Signoret (Léocadie- la prostituta), Serge Reggiani (Franz, il soldato), Simone Simon (Marie – la cameriera), Daniel Gélin (Alfred- lo studente), Danielle Darrieux (Emma Breitkopf), Fernand Gravey (Charles- marito di Emma), Odette Joyeux (La “grisette”), Jean-Louis Barrault (Robert Kuhlenkampf- il poeta), Isa Miranda (Charlotte, l’attrice), Gérard Philipe (Il conte) • Produzione: Films Sacha Gordine • Colore: b/n • Suono: mono • Rapporto: 1.37:1 • Negativo: 35mm • Processo fotografico: Spherical • Lingua: francese • Paese: Francia • Anno: 1950 • Durata: 95′

 



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