Il disincanto di Marco Ferreri [El cochecito]

marcoferreri

articolo pubblicato su Rapporto Confidenziale numero21, gennaio 2010, pp.16-17.

 

Il disincanto di Marco Ferreri
di Stefano Andreoli

Cinema di provincia verso la fine degli anni Sessanta: mentre le luci sono ancora accese e il pubblico seguita ad entrare, un gruppo di disabili reclama con il gestore della sala il diritto di spettatori che hanno pagato, come loro, a vedere il film. Il gestore, preoccupato che la loro presenza violi le norma di sicurezza, tenta inutilmente di respingerli.
«Hanno ragione – urla Adelina, una procace prostituta seduta nella penultima fila – tutti abbiamo diritto a guardare un film, anche i paralitici!». «Ma chi rispetta i nostri diritti?», continuano a protestare i disabili col gestore. Uno di loro, un giovane maturo dall’aria timida, posizionatosi al termine della penultima fila, incrocia lo sguardo di Adelina. Intanto il gruppo di disabili ha definitivamente fiaccato le ultime resistenze del gestore che li ammonisce: «…ma che questo non costituisca un precedente!». Le luci si abbassano, inizia la proiezione dei Dieci Comandamenti. Adelina si sposta in fondo alla fila verso il giovane in carrozzina. «Me lo dai un bacio?», chiede al disabile. «No!», le risponde lui risolutamente e, osservando la reazione spazientita della donna, subito si giustifica: «Qui davanti a Mosè che attraversa il Mar Rosso… Porta male, già sono ridotto così…». Adelina risponde: «Ma se ti porto fuori, lontano dagli occhi di Dio, me lo dai un bacio?». «Ti do anche di più», le risponde il giovane, che orgogliosamente aggiunge: «Perché sto seduto qui credi che non so fare l’amore?». Adelina felicemente sorpresa si alza e spingendo fuori la carrozzina, gli sussurra: «Ma l’hai promesso, eh!».
Quella descritta è una sequenza tratta da Nitrato d’argento (1996), l’ultimo film girato da Marco Ferreri prima della sua morte, sulla storia del cinema raccontata direttamente attraverso il cinema e le reazioni del pubblico in sala.
Il flash di Nitrato d’argento ricorda El cochecito (La carrozzella, 1960), uno dei tre film d’esordio girati in Spagna da Ferreri, recatosi trentenne per vendere attrezzature cinematografiche, ma che ben presto decise di mettersi dietro alla macchina da presa, grazie alla collaborazione con lo scrittore Raphael Azcona.
Nel Cochecito, Don Anselmo, un anziano vedovo da tempo, vive con la famiglia del figlio avvocato. In casa si annoia, i familiari lo considerano un peso. Il suo unico amico, Don Lucas, un invalido, si è comprato una carrozzella a motore e se la spassa con una compagnia di invalidi, anch’essi “motorizzati”. Don Anselmo simpatizza subito con gli amici di Don Lucas, ma quando essi decidono di fare una scampagnata, egli si ritrova nuovamente solo, poiché nessuno è disposto a montarlo sulla carrozzella. E così, in seguito al rifiuto di familiari di acquistargli una carrozzella, dato che ha le gambe sane, se la comporterà da sé, vendendo i gioielli della moglie defunta. Il figlio avvocato, scoperto il sotterfugio, lo costringerà a restituire il mezzo, minacciando persino di fargli causa! A questo punto, per rientrare in possesso della carrozzella, Don Anselmo avvelena tutta la famiglia, ma anche in questo caso la sua felicità durerà poco: ad attenderlo ci sarà la galera.
Rispetto alla sequenza del cinema, in Nitrato d’argento, nel Cochecito la logica dell’esclusione viene rovesciata. Nel primo caso è la società (rappresentata dal gestore del cinema) che non vuole riconoscere alle persone disabili pari diritti (Adelina la prostituta non ha invece alcuna prevenzione), nel secondo caso sono invece i disabili a discriminare chi non appartiene alla loro cerchia e che – pur non essendo svantaggiato nel fisico – vive una condizione di maggiore infelicità, causata, come nel caso di Don Anselmo, dalla solitudine.
Emblematica è la sequenza della gara di carrozzelle: il circuito di gara diventa la metafora (ancor più grottesca nel suo essere reale) della società borghese, che obbliga gli individui a mettersi in concorrenza tra di loro, promuovendo (in base all’ordine di arrivo) coloro che sono in grado di tagliare il traguardo e marginalizzando coloro che a questa competizione non possono o non vogliono partecipare. Non a casa, la presenza di Don Anselmo senza il “mezzo” all’interno del circuito di gara infastidisce i partecipanti, compreso l’amico Don Lucas che egli è andato a salutare.
Ma all’interno di questa sorta di “circo” troviamo un altro personaggio chiave del film, Don Ilario, il mercante di carrozzelle e di ausili per disabili, che continua a ripetere: «Il nostro lavoro è un po’ un sacerdozio!». Egli prescrive a Don Anselmo l’uso della carrozzella, ammonendolo del pericolo che le gambe vadano in cancrena e ha buon gioco, non perché l’anziano protagonista creda veramente di essere malato, ma perché attraverso questa finzione Don Anselmo può raggiungere il proprio scopo: fare accettare alla famiglia (primo stadio sociale dell’esclusione) l’acquisto del cochecito (il “bisogno indotta dal mercato”, ovvero Don Ilario), senza il quale non verrà accettato dagli amici (secondo stadio dell’esclusione).
In pratica, il “diritto di cittadinanza” è subordinato alla rinuncia dell’individuo ad essere se stesso, in favore di una maschera socialmente etichettabile: si è “normali”, si è “sani”, se si è disposti a spersonalizzarsi e ad impersonare un “ruolo”.
Il confronto tra Don Anselmo e il figlio ne è la dimostrazione evidente: Don Anselmo, l’escluso che vuole integrarsi in una società che lo fa sentire inutile, è sano ma è costretto a fingersi malato, è di animo buono ma sarà costretto ad avvelenare la famiglia; il figlio avvocato – l’integrato che esclude – è l’autorità tesa a reprimere l’istinto vitale del padre, ma in realtà è lui il vero malato (non a caso, lo vediamo continuamente tossire e praticarsi delle iniezioni), così come l’autorità che egli esercita è il vero “cancro sociale” che rende “handicappati” gli individui nella loro libertà e spontaneità.
Che la famiglia sia la prima cellula dell’esclusione lo si vede chiaramente in un altro partecipante alla gara, Don Vincenzo, figlio di una marchesa, disabile fisico e mentale. In questo caso, la famiglia ha completamente delegato la cura di Don Vincenzo all’accompagnatore personale – Alvarez – il quale, dietro una facciata di formale rispetto, si comporta da aguzzino («guarda che chiamo il medico e ti faccio fare l’iniezione» oppure «se non fosse per l’affetto che porta per questo idiota!»). Rispetto alla famiglia piccolo-borghese di Don Anselmo, quella aristocratica di Don Vincenzo agisce attraverso intermediari come Alvarez. I disabili del Cochecito, quindi, riproducono simmetricamente l’esclusione che è alla basa delle istituzioni e della società in cui essi vivono e da cui magari sotto altri aspetti sono a loro volta esclusi. Una società che Ferreri già in questo film, non si illude di cambiare, né si illude possa cambiare attraverso la politica, l’arte e la religione.
L’irrisione, la satira, la deformazione grottesca erano le basi fondanti del linguaggio utilizzato da Ferreri per esprimere il proprio disincanto nichilista su qualsiasi speranza di rendere gli uomini migliori e che si traduceva a livello narrativo nella costruzione della storia come una sorta di “antiparabola circolare” (Don Anselmo finisce dalla gabbia della famiglia a quella del carcere).
La morte che precede il finale (come anche in opere successive quali L’ape regina [1963] e La donna scimmia [1964]) non ha valore né catartico, né di riscatto per la condizione umana. Infatti, la felicità di Don Anselmo durerà poco perché verrà subito arrestato. L’ultima inquadratura del film è un finale alla Chaplin: l’anziano è ripreso di spalle mentre si allontana col suo cochecito lungo una strada deserta, scortato da due guardie in bicicletta alle quali chiede: «Mi lasceranno tenere la carrozzella in prigione?».

[L’articolo di Stefano Andreoli è stato precedentemente pubblicato in DM 138 – periodico dell’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare – per gentile concessione.]

El cochecito (La carrozzella)
Regia: Marco Ferreri; soggetto: dal racconto «Paralítico» di Rafael Azcona, 1960; sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri; fotografia (b/n, 1×1:33): Juan Julio Baena; scenografia: Enrique Alaron; musica: Miguel Asíns Arbó, Marco Ferreri; montaggio: Pedro del Rey; interpreti: José Isbert (Don Anselmo Proharán), Pedro Porcel (Carlos Proharán), José Luis López Vázquez (Alvarito), María Luisa Ponte (Matilde), Antonio Gavilán (Don Hilario), Lepe (Don Lucas), Chus Lampreave (Yolanda), Ángel Álvarez (Álvarez), Carmen Santonja (Julita), Antonio Riquelme (Doctor), María Isbert, Jesusa de Castro, Antonio Jiménez Escribano; produttore: Pedro Portabella per Film 59 (Madrid) [per conto della Paramount]; origine: Spagna; lingua: spagnolo; anno: 1960; durata: 86’.



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