La vita agra > Carlo Lizzani

da Rapporto Confidenziale, numero31 (febbraio 2011)

«Oggi, a distanza, penso che sia stata proprio la lezione de “La vita agra” a farmi scegliere man mano – tra i tanti fatti di cronaca, di violenza che negli anni Settanta dilagavano sulle prime pagine dei giornali – quelli in cui riconoscevo con sempre maggiore chiarezza i tratti di una società che aveva preso a correre in modo via via più febbrile verso due traguardi: il consumo e il successo.»
Carlo Lizzani, Il mio lungo viaggio nel secolo breve (2007)

Luciano Bianchi è responsabile delle iniziative culturali presso in una miniera di Guastalla ma viene licenziato a causa dei tagli al personale dovuti ad una riduzione dei costi generali che servirà a tenere aperta la miniera. Qualche giorno dopo la miniera esplode per colpa della riduzione dei sistemi di sicurezza, causando la morte di quarantatre operai. Luciano decide così di partire per Milano e vendicarsi, facendo esplodere il grattacielo sede della società mineraria. Arrivato a Milano, Luciano conosce Anna, giovane rivoluzionaria con cui instaura una relazione extraconiugale. Luciano però è costretto a trovare un lavoro per sopravvivere: inizia così a fare il traduttore, cercando una strada nel mondo dell’editoria. Ma sarà l’universo della pubblicità ad accoglierlo e ad introdurlo della società.

Milano è finalmente Milano
Come ne “Lo svitato”, Milano continua ad essere una città perennemente in costruzione, anche se il significato di questa continua espansione e ricostruzione, assume toni diversi rispetto a quelli affrontati nel film precedente. Se prima la crescita di Milano era lo specchio di un mondo che aveva il desiderio di migliorare, ora è diventata il riflesso di una coscienza che mira a dimostrare solamente la sua superiorità industriale e commerciale con edifici sempre più imponenti, moderni, enormi. Milano smette di essere una città a misura d’uomo e diventa una città fatta su misura dei suoi irraggiungibili sogni e desideri di grandezza, che però lo schiacciano e lo opprimono con edifici che continuano a ricordagli quanto piccolo è l’uomo se confrontato con quel sogno lontanissimo di successo e denaro. Ed ecco il proliferare di grattacieli, di enormi condomini moderni che sbocciano come fiori spaventosi ai margini della città. Nascono le città-satellite, i nuovi quartieri che dipendono in tutto e per tutto dalla città, piccoli mondi esclusi e rinchiusi in cui Luciano si trasferisce annullandosi definitivamente. Lizzani però non dimentica di registrare anche tutto l’affascinante mondo degli artisti milanesi (che aveva personalmente conosciuto già nel dopoguerra), qui rappresentati nella famosa Latteria Pirovini in cui un giovane Enzo Jannacci si esibisce nel suo repertorio. La Latteria Pirovini sembra essere l’ultimo avamposto in cui regna un poco di libertà, un mondo non ancora attaccato dal pensiero del successo e del denaro.
Milano è diventata, nel bene e nel male, finalmente Milano.

Luciano Bianchi e l’altra faccia del boom
Arrivato a Milano con l’idea della rivoluzione, Luciano si ritrova nel giro di qualche mese ingabbiato nelle logiche di una città che divora letteralmente le coscienze dei suoi abitanti per piegarle al suo volere. Arrivato a Milano con l’idea di cambiare il mondo, l’unica cosa che Luciano cambierà sarà sé stesso. “La vita agra” è il racconto del progressivo smarrimento di un immigrato che, giunto in un nuovo paese, è costretto (volente o nolente) ad accettare le regole del luogo per sopravvivere giorno dopo giorno. Lo smarrimento della propria identità con la relativa sostituzione di valori, desideri e sogni, è un passaggio graduale e sottilmente ambiguo, protratto in piccoli ed invisibili ricatti che tendono a fare di Luciano, prima una persona privata dei suoi punti di riferimento e, successivamente, un individuo con i piedi ben saldati su quell’asfalto che lo ha intrappolato ormai per sempre e che, a partire da ora, può modellarlo a suo piacimento. Il film si apre con un’azzardata sequenza (siamo nel 1964) in cui Luciano Bianchi, interpretato da Ugo Tognazzi, si rivolge direttamente agli spettatori introducendo alcuni temi della pellicola e la storia che a grandi linee sarà raccontata. L’intento di Carlo Lizzani e dei suoi sceneggiatori (Sergio Amidei e Luciano Vincenzoni) è chiaro: creare complicità tra il protagonista e lo spettatore in modo da rendere graduale il cambiamento di Luciano, farlo quasi sembrare un processo naturale in cui il protagonista non ha che da guadagnarci. Di fatto è solo nel finale grottesco e amarissimo, che scopriamo il risultato di questo silenzioso cambiamento. Un finale che, pur chiudendo la pellicola, apre un capitolo di inarrestabile declino morale di una Milano sempre più sprofondata nel suo illusorio e vacuo benessere.
Ugo Tognazzi è il corpo attoriale perfetto per impersonare Luciano Bianchi, capace di fraternizzare
immediatamente con lo spettatore e di rendere ancora più cinico e doloroso il ribaltamento finale.

La cattedrale
Il grattacielo ossessiona Luciano. Lo vuole distruggere, far esplodere, lo vuol vedere saltare in aria. La stessa aria che sente soffiare sulla sua pelle durante i sopralluoghi onirici in cima al grattacielo, dove sotto ai suoi piedi continua a scorrere la città tra la nebbia. Un’immagine ossessiva che ritorna nel film a più riprese, imponente e minacciosa, come un’oscura cattedrale che racchiude in sé il segreto della sopravvivenza, anzi, il segreto stesso della vita, ovvero lo spirito di adattamento. E quando Luciano si adatta alla visione così disturbante e divina del Torracchione (come lui lo chiama), diventa membro di quella chiesa e dall’edificio scompare il suo terrore gotico. Ora il grattacielo si confonde con i palazzi, i condomini, si confonde con i ponti e le ferrovie, diventa anonimo ed invisibile all’occhio anestetizzato e distante di Luciano.

Il libro e il film
Impossibile non affrontare con un film come “La vita agra”, l’annoso problema dell’adattamento cinematografico di un’opera letteraria. Scritto da Luciano Bianciardi, che trae spunto per le vicende raccontate partendo dalla propria biografia, il libro arriva sugli scaffali delle librerie nel 1962, ponendo
subito in evidenza la voce fuori dal coro del suo autore, capace di una riflessione in itinere di quel boom economico che aveva travolto l’Italia e dal cui passaggio cominciavano a riemergere le macerie. Nel 1964 Lizzani si mette al lavoro con Amidei e Vincenzoni sull’adattamento del libro e, il primo cambiamento che apportano, è quello di variare le origini del protagonista, che da toscano diventa emiliano, scelta motivata dall’esigenza di cucire il personaggio su Tognazzi, e pure per modernizzarlo. A parte questo piccolo cambiamento, ciò che muta radicalmente, è il tono complessivo della narrazione. Se il libro di Bianciardi è un’acuta osservazione esistenzialista (percorsa da un solido e cupo senso dell’umorismo), il film di Lizzani è invece incasellato nella cornice della commedia all’italiana, di cui sfrutta modi e stili. Il cambiamento c’è e si fa sentire, la scelta optata da Lizzani e dai suoi sceneggiatori, pur creando all’epoca qualche perplessità, può essere vista oggi una scelta di rottura per entrare ancora di più nel significato intrinseco dell’opera letteraria. Conferma questa direzione anche il finale che differisce dal libro, ma che ne amplifica il senso. Lo smarrimento dello spettatore nel vedere il suo eroe integrato con la società contro cui si batteva, è il grande e sofferente risultato ottenuto da Lizzani, che ingabbia ulteriormente il suo personaggio con la sequenza finale in cui Luciano si ritrova intrappolato nella gabbia piccoloborghese, con i suoi sogni esplosi per sempre insieme ai fuochi d’artificio del Torracchione.

Carlo Lizzani e la schizofrenia dei generi
Ci sono voluti quasi quarant’anni prima che Carlo Lizzani venisse riconosciuto come autore in quanto tale, dopo un’intera carriera in cui è stato definito, nel migliore dei casi, un ottimo mestierante con delle tematiche ricorrenti. Questo tardivo riconoscimento, nasce forse dalla difficoltà di inserire il regista e la sua filmografia in un genere ben preciso, compito arduo (se non impossibile) per un regista come Lizzani, che durante la sua carriera ha affrontato ogni tipo di genere cinematografico, dal dramma storico alla commedia all’italiana, dal film in costume alla ricostruzione storica, dall’instant-movie al western, dal film comico al gangster -movie.
“La vita agra”, all’interno del più ampio discorso sui generi, rappresenta in maniera limpida e precisa, la funzione che il genere assume all’interno del cinema di Lizzani. La pellicola parte come un’originale commedia all’italiana (nuova e d’impatto per il nostro cinema, la scelta di far parlare il protagonista direttamente in camera) e continua ad esserlo per tutta la sua durata, se non fosse per dei continui corti circuiti che disturbano la naturale trasmissione del genere, inserendo piccoli elementi destabilizzanti.
L’incontro tra Luciano e Anna, ad esempio, è girato con uno stile documentaristico che poi Lizzani affinerà in “Banditi a Milano”, oppure le sequenze con i proprietari dell’appartamento in cui Luciano vive, che sembrano rifarsi apertamente ad una certa corrente ludica della Nouvelle Vague (“Zazie nel metrò”).
Questi disturbi continua nell’iter della narrazione, contribuiscono a ricreare un’atmosfera instabile dove un luogo sicuro (la commedia all’italiana), è continuamente sovvertito e disturbato da inserti fuori luogo che accrescono la dimensione metafisica del racconto. Ne è una prova la straniante sequenza del colloquio alla casa editrice, sviluppata come se fosse un film di fantascienza alla “1984”, in cui però rimane una forte impronta della ruvida ironia del protagonista.
L’anarchica schizofrenia formale de “La vita agra” è dunque la dimostrazione più ampia e sincera (ma anche imperfetta) del ruolo che il genere ricopre all’interno del cinema di Lizzani: non una gabbia che piega la storia e la narrazione alle sue regole, ma un attrezzo per raccontare e approfondire la realtà.

Matteo Contin

 

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RASSEGNA STAMPA 1964
“La vita agra” non riesce a essere né un film serio, che tenga conto di tutte le componenti della condizione rappresentata, né un film satirico di cui gli mancano la cattiveria, l’indignazione polemica e la capacità di incidere nel profondo. La struttura formale del film, con quella continua dissipazione della aneddotica nel bozzetto e nella facile deformazione caricaturale, è in tal senso rivelatrice: basterebbe ricordare la sequenza della discussione sull’erotismo, il ritratto dei coniugi svizzeri, la descrizione alla Gregoretti dell’interno del “torracchione”. […]
Adelio Ferrero da Cinema Nuovo

 

 

LA VITA AGRA
regia: Carlo Lizzani; soggetto: Luciano Bianciardi dal romanzo omonimo; sceneggiatura: Sergio Amidei, Luciano Vincenzoni, Carlo Lizzani; fotografia: Erico Menczer; montaggio: Franco Fraticelli; suono: Liliano Galli, Mario Amari; musiche: Piero Piccioni; costumi: Dario Della Corte; scenografie: Enrico Tovaglieri; interpreti: Ugo Tognazzi, Giovanna Ralli, Giampiero Albertini, Nino Crisman, Rossana Martini, Elio Crovetto, Paola Dapino, Pippo Starnazza, Augusto Bonardi, Maria Pia Arcangeli, Giuliana Rivera, Misa Pesaro, Enzo Jannacci; casa di produzione: Film Napoleon; distribuzione: Euro International Films; visto di censura: 42801 del 21-04-1964; paese: Italia; lingua: italiano; anno: 1964; durata: 104′

 



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