Suor omicidi > Giulio Berruti

Ite, missa est!
Suor omicidi di Giulio Berruti (Italia/1978)

recensione a cura di Fabrizio Fogliato

Prodotto da Enzo Gallo, che in realtà si preoccupa solo di depositare un titolo di giornale che recita appunto Suor omicidi, questa è una delle pellicole più iconoclaste e provocatorie che il nostro cinema di genere abbia mai prodotto. Intelligente e raffinato nella messa in scena, il film appartiene di diritto a quel cinema medio trans-genere, in grado (più di ogni altro) di leggere e filtrare la realtà. Uscito nel 1978 ed esempio pregnante del filone denominato nun-exploitation, Suor omicidi (aka The Killer Nun) di Giulio Berruti è un film sfortunato e maledetto, distrutto dalla censura, scomparso dalla circolazione per quasi trent’anni e divenuto oggetto di culto, anche per la sua capacità di andare oltre al facile erotismo di facciata e di non affondare nelle paludi del soft-core, evitando ogni scivolone nel cattivo gusto.

«In tutta franchezza: non lo so. Non l’ho mai pensato e se è veramente così, ne sono lusingato, anche se Suor omicidi editato è la metà del film che avrei voluto girare. Penso di dovere molto a Pedro Almodóvar che ha spalancato le menti ed annullato certe irritanti forme di rispetto che rasentano la superstizione. Considero Almodóvar il mio maestro. Il mio guaio è che l’allievo ci ha provato due anni prima.» (Intervista a Giulio Berruti al Ravenna Nightmare Film Festival)

La storia di Suor Gertrude (ispirata a un fatto realmente accaduto in Belgio), mentalmente disturbata e morfinomane, dedita al vizio ed ai piaceri della carne, accusata degli omicidi ai danni di anziani e malati che scuotono la realtà di un ospizio cattolico, attraversa, al termine della lavorazione, un crocevia di contrattazioni, accuse e veleni nei confronti del comitato censorio che ne pretende una sostanziale revisione con il taglio di molte sequenze anche fondamentali nell’economia del film. Dopo patteggiamenti e modifiche il film esce nelle sale, seppur in una versione spuria e manipolata, ed ottiene un ottimo risultato nei cinema di Roma. La distribuzione, all’insaputa di Berruti, compie un tremendo passo falso lanciando il film con la dicitura “dagli archivi segreti del Vaticano”. Dopo pochi giorni, il Vaticano stesso ne chiede e ottiene così il sequestro. Il film scompare nel nulla e non viene più proiettato in Italia, (è proibito anche in Inghilterra per “indegnità”), e diviene reliquia invisibile ma ottiene successo in Spagna (anche a causa della caduta del franchismo) e in Germania. E se la Ekberg offre un’ottima interpretazione, così come tutto il resto del cast, è nelle sequenze degli omicidi, lisergiche e musicalmente trascinanti, che Berruti dimostra un talento visivo fuori dal comune, degno del miglior Argento.

«Dopo i problemi con la censura e vari tagli, il film andò nelle sale. A Roma fece il quarto incasso della settimana, poi capitò il disastro. Il distributore e il produttore avevano pensato bene, e senza consultarmi, di lanciare il film con un manifesto dove, a caratteri cubitali, spiccava la scritta: Dagli archivi segreti del Vaticano! Il Vaticano, invitato a nozze non ci pensò molto a chiedere il sequestro del film. Il sequestro provocò il fallimento del distributore che già navigava in cattive acque e il film non venne più proiettato in Italia.» (ibidem)

Giulio Berruti è nato a Torino nel 1937. Terminati gli studi presso un istituto salesiano, si affaccia sul mondo del cinema, all’epoca imperniato su produzioni locali e distribuzioni regionali, ma è andando a Roma, che entra ufficialmente nei ruoli attivi della settima arte. Dopo una decina di anni cinematografici che lo occupano a ricoprire importanti mansioni come sceneggiatore, aiuto regia e montatore, Giulio Berruti esordisce alla regia nel 1976 con Noi siam come le Lucciole:

«Il film era ispirato allo “scandalo Profumo” e rivolto tutto a favore della squillo che lo aveva provocato. Era una commedia brillante; pensai fosse un buon modo per iniziare la regia: pochi soldi ma anche pochi rischi. In quegli anni, gli esordienti correvano dietro al film “capolavoro”, a quello ricco di messaggi. Io non avevo dottrine da comunicare ai posteri. Così scrissi, girai e montai Noi Siam Come le Lucciole con Silvia Dionisio, Paolo Ferrari, Roberto Hoffman, Claudio Undari (Robert Hundar). Il film fece la sua strada senza troppa gloria ma anche con poca infamia.» (ibidem)

Il seguente e popolarmente più apprezzato film Suor omicidi sarà il suo ultimo lungometraggio. Tra le pellicole più interessanti che ha scritto, oltre agli horror di Corrado Farina, Hanno cambiato faccia (1971) e Baba Yaga (1973), vanno ricordati il noir La mano lunga del Padrino (1972) di Nardo Bonomi, e l’anticlericale d’autore Albero Verde (1966) di Giuseppe Rolando. Giulio Berruti ha abbandonato il mondo del lungometraggio di fiction dopo il calvario di Suor omicidi ed è incredibile notare come il cinema italiano, in questi anni, auto-contorcendosi nella propria infinita crisi, abbia perso per strada un regista dalle simili potenzialità.

«Tieni conto che quando arrivò la mazzata del sequestro io avevo già chiuso con Carlo Maietto un contratto per la realizzazione di un film che ancora oggi considero – sulla carta – il mio capolavoro. Dopo quelle vicissitudini, nessun distributore si dichiarò disponibile a investire sul mio nome. Il film che parla della disgregazione della famiglia è ancora nel cassetto, anche se qualche regista(anche di chiara fama) si è offerto di acquistarlo. In altre mani, quel film si trasformerebbe nel più colossale splatter della storia del cinema. Ed io non voglio. Preferisco sperare di riuscire a metterlo in piedi.» (ibidem)

Sin dai titoli di testa Suor omicidi svela la sua architettura. Con tre stacchi il regista Giulio Berruti affonda il bisturi nella ferita. Sulle note cupe di un Dies Irae di Alessandro Alessandroni, l’inquadratura dal basso di un prete (interpretato dallo stesso Berruti) che consacra il sangue di Cristo nel calice innalzato al cielo, introduce al sacrificio. Il controcampo è un’inquadratura dall’alto (e quindi opposta alla celebrazione) che mostra una lunga fila di monache che si apprestano ad inginocchiarsi all’altare per ricevere la comunione (e quindi il sacrificio). Il terzo stacco mostra di lato, in profondità di campo un confessionale con una suora inginocchiata (la remissione dei peccati che precede il ricevimento dell’eucarestia). Dio è nella visione del regista l’espressione tronfia e contraddittoria del potere. La monaca incarna, attraverso la sua sacralità il “ministro” di quel potere e l’eucarestia è il “cibo” che alimenta l’esercizio del dominio sui deboli. Tutto avviene nella solitudine, dove il peccato prospera e si ri-genera ciclicamente, e solo l’espiazione attraverso la confessione prima e il sacrificio poi, può allontanare momentaneamente il peccato e la dannazione.

L’anticlericalismo di Giulio Berruti è quindi manifesto ed esplicito, e traduce l’assoluto del potere attraverso l’omicidio sistematico dei più deboli. Se Suor Gertrude esercita con cinismo l’eutanasia sui malati terminali, osservandone (o immaginandone) l’agonia lenta e disperata, Suor Matilde compensa la sua dannazione (ha subito violenza in gioventù) attraverso una serie di omicidi crudeli e sanguinari che diventano materializzazione e metonimia del sacrificio dell’eucarestia. Non a caso i “suoi” morti precipitano sempre verso il basso in una rappresentazione visionaria della dannazione dell’inferno. Il potere inteso come dominio sui deboli ( e quindi in provocatoria antitesi con la vocazione della Chiesa e dei sui ministri), è in Suor omicidi, il motore che guida i comportamenti delle suore. La scena allucinante in cui Suor Gertrude distrugge la dentiera di Josephine è emblematica del volere del regista di dissacrare la consuetudine dei comportamenti monacali. Nella sequenza la donna (con la sua fragilità e le sue nevrosi) prende il sopravvento sulla Suora che attraverso il potere conferitogli dall’abito, prima esercita l’umiliazione degli ospiti dell’ospizio, poi scatena con violenza la frustrazione della solitudine sulla povera e indifesa Josephine a cui distrugge la dentiera schiacciandola brutalmente sotto i piedi. Suor Gertrude compensa la sua solitudine con l’abbandono alla morfina e con l’esercizio clandestino della prostituzione. E’ un’anima persa che ha sostituito la droga a Dio, anzi lei considera la morfina un surrogato di Dio. No a caso, la scena più martoriata dalla censura (e di cui oggi non rimangono che pochi fotogrammi) è quella in cui prima di bucarsi la Suora compie nei gesti una parodia della messa: solleva la siringa al cielo, la bacia e si inietta la morfina in ginocchio. Suor Gertrude agisce come una gazza ladra: vede agonizzare le sue vittime a cui una volta morte, sottrae piccoli oggetti preziosi (anelli, braccialetti…), che vende in un’altra città e con il cui ricavato si compra la morfina.

È una donna sola che di notte si presenta fragile e indifesa (l’accenno al lesbismo con Suor Matilde), ma che di giorno, nascosta sotto l’abito sacro, riacquista vigore ed energia e dirige l’ospizio con piglio militare. In questo suo modo di essere è l’incarnazione del “potere assoluto” ed astratto della Chiesa e ne incarna tutte le contraddizioni relative all’umiltà, alla ricchezza, e alla castità. Suor Matilde è invece il lato oscuro e caricaturale del Male, che si traveste di sacro per agire indisturbato e restare impunito. L’impulso omicida che la guida contiene qualcosa di animalesco che, unito alla metodicità e alla furia con cui vengono riprodotti gli omicidi da lei commessi, le conferisce un’aura luciferina. Giulio Berruti, nelle scene di omicidio mette in scena un vero e proprio rituale della distruzione. La visionarietà lisergica che accompagna la musica psichedelica di sottofondo contempla una visione iconoclasta dell’omicidio. Dettagli, close-up sugli occhi e un montaggio martellante e ipnotico accompagnano le mattanze messe in scene con un eleganza splatter mai vista (su tutte la scena degli spilloni). Nonostante una forte componente di genere, Suor omicidi mantiene (anche oggi) un’ambiguità glaciale e incomprensibile che ne fa un prodotto inclassificabile. È indubbia l’urgenza del regista di smascherare l’ipocrisia del “potere” cattolico (cui paradossalmente il Vaticano porge il megafono ottenendo il ritiro del film dalle sale), ma è altrettanto evidente la voglia di costruire una storia di dannazione attraverso uno spessore psicologico dei personaggi che non può essere apparentato ad altri prodotti del filone nun-exploitation.

Suor omicidi è un’opera intrisa di pessimismo cui la fotografia, traslucida e patinata di Antonio Maccoppi, non riesce a mascherare le zone d’ombra esistenziali e di denuncia contenute al suo interno. Il 1978 è l’anno dei tre papi: l’anno in cui Giovanni Paolo I muore dopo soli 33 giorni di pontificato portandosi dietro una scia di misteri e di ambiguità mai del tutto risolte. Sono gli anni dove lo IOR (la banca vaticana, l’Istituto Opere Religiose), guidato da Paul Marcinkus, intrattiene rapporti a dir poco sconvenienti con il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (riciclatore di denaro mafioso), ed è quindi naturale che un film scomodo e provocatorio come Suor omicidi si scontri con una censura ed un’intransigenza che ne travalicano i soli meriti cinematografici. Il finale del film appare quasi come una dichiarazione programmatica di impotenza: un suora è inginocchiata in un confessionale immerso nella penombra, un lento carrello all’indietro mostra il confessionale vuoto mentre la suora continua a parlare…

Fabrizio Fogliato

 



Suor omicidi
titolo internazionale: The Killer Nun

Regia: Giulio Berruti
Soggetto: Enzo Gallo
Sceneggiatura: Giulio Berruti, Alberto Tarallo
Fotografia: Tonino Maccoppi
Montaggio: Mario Giacco
Musica: Alessandro Alessandroni

Interpreti: Anita Ekberg (suor Gertrud), Joe Dalessandro (Patrick), Lou Castel (Pierre), Alida Valli (madre superiora), Massimo Serato (dr. Porret), Paola Morra (suor Mathieu), Alice Gherardi, Laura Nucci, Lee De Barriault, Daniele Dublino (direttore), Nerina Montagnani (Josephine)

Produzione: Cinesud, Gruppo di Lavoro Calliope
Distribuzione: Impegno Cinematografico
visto di censura n° 73203
Paese: Italia
Anno: 1978
Durata: 85′

 

 



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