L’amour fou

CINEFORUM DI IDEE #004
L’amour fou
di Toni D’Angela

L’amore è forza, energia, fuoco che brucia e brilla per dissiparsi nelle fiamme; è una folgorazione che dis-attende l’economia di senso, il discorso, che interrompe, con la sua irruzione (figura del Fuori), il corso del mondo, del profano, della storia ridotta a rappresentazione, spettro. Il dis-valore di questo amore non è negli effetti duraturi che può produrre ma solo nel suo consumarsi, nelle vampe che accende e che avvolgono, per contestarlo, un mondo miniaturizzato, ristretto, troppo piccolo per accogliere un amore che brucia l’anima e rifiuta qualsiasi negoziazione. L’amore è follia, scandalo, eccedenza, in un mondo che, per citare l’Orfeo di Jean Cocteau, sia al di qua che al di là dello specchio, è ha un carico troppo appesantito di violenze, discorsi e finalità, che anziché accrescere la potenza di vita la indeboliscono. L’amore folle è critica del Giudizio, rifiuto del Discorso. L’amore ha una forza che né la policé, né la Storia possono avere.

L’amore che è pulsione di morte, catastrofe; non tanto la morte di Antoinette o il suicidio annunciato di Armand in La duchessa di Langeais di Jacques Rivette, ma l’interruzione della vita solo lasciata vivere che, una volta sospesa, può finalmente gettare nell’Aperto, aprire il mondo nelle sue disarticolazioni e nei suoi disordini: massa cézanniana di pura intensità. L’amore come figura, dimensione di (dis)senso del figurale opposta, per natura e volontà, al Discorso. La pulsione di morte (curvata sul côté Lyotard) è proprio l’orizzonte irrappresentabile in cui si inscrive l’amore folle di Armand e Antoinette, l’opposizione radicale al Potere, il rifiuto della negoziazione. L’Assoluto. L’amore di Armand e Antoinette è la fenditura dell’ultima inquadratura del film di Rivette: le labbra unite del cielo e del mare. Bacio d’amore. Poema (già da sempre) perduto – perché irrapresentabile… L’amour fou (titolo di un altro Rivette)… La Rivoluzione.

L’amore è un cristallo perfetto nelle immagini di Max Ophüls, nelle faccette che sono specchi di sbieco in I gioielli di Madame de… L’amore, qui, è una potenza virtuale, di slancio e rilancio, poiché lo specchio d’amore, il virtuale, in Ophüls non si limita a riflettere l’immagine attuale ma forma una coalescenza, un prisma, una lente sdoppiata, un diamante o, a volte, una gabbia di vetro custodita sotto una luce iridata. E questa cristallizzazione o coesistenza di attuale e virtuale, trasparente e opaco, è a sua volta raddoppiata da un’altra tensione nell’immagine-cristallo di Ophüls, ultradialettica senza sintesi o discorso: la tensione fra l’immobilità e il movimento che attiva una corsa, La ronde, un inseguimento, Le plaisir di mobilità e fuga, che finisce con il co-incidere con un punto d’arresto, una figura o una scena immobile, stazionaria, con un breve istante di incertezza, sogno, mistero, con una défaillance, così insopportabile in mondo che giudica e che è tutto (s)v(u)otato (d)alla performatività, (d)al discorso, (d)all’utilità. L’amore in Ophüls è uno strappo figurale, una scalfittura della linearità del discorso, una porta del cielo che, nelle ellissi favolose di Ophüls, si apre per scucire il tempo dalla stoffa dello spazio e allargarlo a dis-misura, come nei due valzer di I goielli di Madame de…

Attuale e virtuale costituiscono anche la struttura, il cristallo, del cinema di Manckiewicz, forse il più grande autore di flash-back. Cinema di biforcazioni borgesiane il suo, lungo le quali i suoi personaggi (così intelligenti, così loquaci) si sviluppano in contropiega, secondo un’evoluzione affatto lineare e, infatti, spesso i suoi flash-back anziché esplicare o ampliare contenuti di verità rimossi o ignoti, ne intricano i fili evaporandone la possibilità, per la verità, di manifestarsi in un discorso cartesiano, chiaro e distinto. La verità, piuttosto, del suo cinema è nella virtualità della memoria come condotta di racconto, riserva di possibili narrazioni, e nella virtualità dell’amore, creatura dell’aldilà, fantasma di libertà che con la sua follia, la sua voglia di spaventare e scherzare il buon senso di venditori e suocere, in Il fantasma e la signora Miur, fa scandalo e proprio per la sua inafferrabilità: il fantasma del capitano non si lascia catturare, né vedere, né ricordare.

L’amore quando brucia l’anima, quando è eccedenza, scarto, dislivello, è l’urgenza assoluta dell’incontro, del corpo a corpo, dell’annodarsi e snodarsi dei corpi, anche vacillanti, isterici o erranti. Sono i corpi messi in scena da John Cassavetes. Amore dispiegato con il corpo, nell’angoscia, in quella che Georges Bataille chiamava esperienza interiore, un desiderio impaziente che nulla spartisce con la calma del progetto. Un’esperienza che lacera, apre l’uno all’altro. L’amore come ferita, non-compimento, che fa sì che nessuno posso richiudersi su di sé, come essere finito e compiuto, totalizzato, e che ciascuno di noi, in quanto ferito, aperto, non-compiuto, desideri perennemente, forsennatamente, teneramente, un altro corpo, una pura esteriorità, una eccedenza che non solo completi o aggiunga ma spalanchi…

Precipitare a picco, in un viaggio ai limiti del possibile: questo è l’amore di Fassbinder. Messo in scena nella bellezza barocca, melò, sublime, dei suoi film, fessurata da strappi e lacerazioni. Non solo i melodrammi, i primi più ironici, i secondi (Lili Marleen, Il matrimonio di Maria Braun, Lola) più seri. Precipitarsi vivi in ciò che non ha più base, né testa, giacché l’essere umano si dà solo sulla soglia, come attraversamento (come quello dello specchio di Cocteau). L’amour fou è grido, odio urlato contro un mondo che fa pesare persino sulla morte la sua zampa di impiegato (Un anno con tredici lune). Nell’amour fou risuona il tumulto delle passioni, anche dei randagi e degli emarginati, che affollano i film di Fassbinder: veggenti trasportati da un sogno sconvolgente che non gli appartiene (l’amore…). Fassbinder sognava, diceva di lui Serge Daney. Cineasta “cresciuto in un paese senza sogni”, Fassbinder “si è logorato nel costruire una casa per ospitare i propri sogni”. Questa è la logica di senso del suo manierismo: sentirsi a casa nel suo cinema, non risparmiarsi, raccontare liberamente, conservare con amore “la passione di filmare, di rendere il reale adatto ad essere filmato”. (E nella passione credeva un altro tedesco emigrato a Hollywood e molto amato da Fassbinder: Douglas Sirk. Contro le prescrizioni del reale, l’autunno dei sentimenti e la corazza del buon senso, senso comune, sciocco e mutilante, gli steccati che separano, sogna d’amare, amare ancora, Jane Wyman in Secondo amore, di cui La paura mangia l’anima è, parzialmente, una variazione. L’amore anche per Sirk è il vissuto, la rivincita di tutto ciò che è fluido contro la rappresentazione, in particolare il ruolo della donna perbene dedita al giardinaggio e al tè in compagnia delle altre amiche perbene presso il circolo femminile. Amare è darsi, donarsi, con passione, amare un corpo, il bel corpo sensuale e tutto materiale di Rock Hudson, più giovane e più povero, escluso dalla comunità di giorno e sognato, però, la notte dalle stesse amiche puritane della Wyman. Amare per non spegnersi, non chiudere gli occhi di fronte alla tv, seccare i propri sogni di donna che, invece, resiste e infiammata dalla presenza di Rock Hudson rifiuta di negoziare il proprio desiderio, con figli e amici, e che rifiuta anche di contemplare la propria immagine nello schermo spettrale del televisore, che rifiuta di essere catturata in una rappresentazione che congela e mummifica tutto ciò che è vivente, allo stato fluido, come la passione e la sessualità, che rimontano selvaggiamente incrinando l’economia domestica e l’economia politica della piccola comunità stritolata su stessa).

Quando l’amore brucia l’anima il mondo danza, si moltiplica e diversifica. L’amore innesca un movimento di mondo, una danza, che pluralizza le immagini, e ogni immagine si circonda di un’atmosfera di mondo, di un universo di senso che è il senso di un universo, ciò che lo rende multiverso. L’amore in Brigadoon è il passaggio da un mondo all’altro, effrazione e esplorazione della differenza, dell’eccedenza: non dell’eccezione che, come si sa, implica la regola: l’eccedenza è irriducibile alla regola e questo Altro non è un semplicemente un sogno riconducibile al Medesimo della realtà (nel mondo reale, infatti, si sogna), non è solo un mondo onirico, una vetrina in cui il reale, in un diversivo effimero e passeggero, si specchia e consola, ma è, invece, un mondo immensamente autonomo, chiuso alla realtà della rappresentazione, della caccia (Gene Kelly e Val Johnson partono da New York per una battuta di caccia distensiva) e degli aperitivi newyorkesi. Il sognatore o sonnambulo, Gene Kelly innamorato di Cyd Charisse, è rinchiuso all’interno del sogno, dei confini di Brigadoon: non c’è il sogno di un prigioniero ma il prigioniero di un sogno che non può (e non vuole) varcare i limiti del villaggio, del sogno. La pura descrizione (colore, danza, alterità) in Minnelli – anticipando un contrassegno della modernità cinematografica – sostituisce la situazione, l’ambiente sociale o “reale”, in particolare attraverso l’uso del colore (Minnelli è uno dei più grandi coloristi del cinema). I colori di Minnelli non rivestono, né decorano, ma assorbono, divorano il reale e la danza, anche grazie a questo colore assorbente, non è più soltanto un movimento di sogno che traccia o di-segna un mondo (come in Spettacolo di varietà), bensì è l’unico movimento di mondo, è, anzi, il mondo-in-movimento, movimento di un altro mondo in cui si dà un’indiscernibilità di reale e immaginario, perché l’immaginario è reale e il reale è immaginario: non superando i confini visibili del villaggio (non uscendo dal sogno e dalla danza) si perde certo qualcosa, ma si guadagna molto di più: la libertà di attraversare tutti gli altri limiti (sogno/realtà, mortalità/immortalità, etc.).

La ferita, la scalfittura, è filmata anche da Losey nel suo Messaggero d’amore. Anzitutto, il taglio che il bambino “go-between”, dopo essersi arrampicato in cima ad un covone di fieno, si procura in una caduta terminata con l’urto di un’ascia. Salire lungo la pendenza, accettare, per scherzo o debolezza, di prendere quella piega che è discesa agli inferi dell’abiezione o del servilismo – spesso rappresentata dalle scale (Eva, Il servo) – dà luogo ad un gioco, ad una corsa, un andirivieni, che fa sanguinare, come l’amore, e la lettera d‘amore scritta da Julie Christie e imbrattata, contrassegnata, dal sangue di Alan Bates. Quello di Losey è un cinema delle pulsioni elementari ma, al tempo stesso, è un cinema che rivela i mondi originari che prendono corpo negli ambienti derivati, determinati socialmente e figurativamente: lussuosi appartamenti londinesi, salotti intellettuali di Roma o Venezia, aristocratiche tenute di campagna… Mondi originari e ambienti derivati che sono vincolati in una relazione (à la Malcolm Lowry) simile a quella che potrebbe sussistere tra il vulcano e la porcellana: il vulcano erompe e spezza la porcellana. I mondi originari sono dionisiaci, vulcanici, pre-istorici, costituiscono il fondamento instabile, tumultuoso, di personaggi servili o i predatori, statue, che hanno costruito un ambiente derivato, apollineo, un cumulo di macerie, privilegi e perversioni. Nel film Messaggero d’amore, scritto da Harold Pinter, questa dialettica (mondi originari-ambienti derivati) si manifesta in un movimento di macchina tipico di Losey, un pianosequenza circolare, in cui il verde addomesticato e pettinato che circonda il castello (ambiente derivato) muta nel marrone dello sterco che pavimenta l’aia della casa del fattore (mondo originario), in prossimità delle vecchie rimesse abbandonate – luogo clandestino in cui si consuma selvaggiamente il corpo a corpo lussurioso dei due amanti – che assediano l’elegante castello. Universi di-visi a loro volta da una frontiera che è anche simbolo, un feticcio: la Belladonna, una pianta velenosa conosciuta anche come Ciliegia della pazzia.

L’occhio caldo del cielo, il western più immaginifico di Robert Aldrich, è un altro corpo a corpo. Kirk Douglas e Rock Hudson duellano, si affrontano, a partire dalla postura. Il poeta e assassino Kirk Douglas è un corpo nervoso, scattante; lo sceriffo Rock Hudson, un po’ melenso se non ottuso, diversamente dai melodrammi di Douglas Sirk, ha un corpo grossolano, stereotipato, corrispondente (come fosse un correlativo oggettivo) all’ideale che incarna: l’amministrazione della legge della casa e della comunità. Il corpo del bandito romantico è irrequieto e vitale, irrorato da passioni che si accendono improvvisamente, innervato da scatti e zampilli di furore, colorato, nonostante sia vestito rigorosamente di nero; il corpo dell’uomo tutto d’un pezzo, coerente e votato all’ordine, è compatto come l’in-sé sartriano. Il corpo del primo è aggrovigliato, stratificato da sogni e pulsioni, un corpo che sensualmente si avvita attorno a quello della donna amata, si avvita fino a perdersi e a precipitare nell’impossibilità, nel non-ritorno dell’amour fou: la donna amata – scoprirà, malgré lui, è la figlia. Il corpo di Kirk Douglas brucia nel groviglio di carni e pulsioni e le due figure, i due corpi degli amanti, rimangono avvinghiati l’uno all’altra, nell’ultimo movimento di macchina che chiude il film (un dolly), dopo il duello in cui Kirk Douglas sceglie di suicidarsi, di togliersi una vita che è solo lasciata vivere; mentre l’altro corpo, quello di Rock Hudson (che vediamo sullo schermo quasi in un effetto da split-screen), invece rimane lontano sideralmente dal corpo della sua donna (la madre della figlia di Kirk Douglas), i due corpi, nella postura, risultano due figure separate, chiaramente distinte, composte e ragionevoli, che si tengono, felicemente e ordinariamente, per mano, confortandosi l’un l’altra: uno per aver ucciso un uomo che gli aveva salvato la vita e l’altra per aver distrutto il sogno d’amore della figlia! Il corpo di Rock Hudson è irrigidito, rigonfio di convenzioni e comfort, l’alito breve che lo anima è la legge, quindi il suo è un corpo eminentemente passivo, re-attivo, nonostante la baldanzosità o la prestanza fisica, è un corpo ghiacciato. Il corpo di Kirk Douglas è sognante, tragico, spesso, ripiegato e lavorato dalle pieghe, dai dubbi, dai fantasmi, è un corpo che brucia. Uno è un corpo rinserrato nelle certezze di un presente puntuale e ordinario, l’altro un corpo spalancato sul blu immaginifico della notte, un corpo che brilla della luce e che sa infiammare la giovane ragazza così come i fuochi di S. Elmo infiammano il cielo notturno. Rock Hudson è un corpo ingessato, inquadrato nella banalità di base del sopravvivere quotidiano; Kirk Douglas è un corpo di scatti, si sussulti, che tende i muscoli della faccia e carica le vene fino a esplodere (come in Sabbie rosse di Walsh). Uno pianta i chiodi del quadretto nel muro di casa e raddrizza le tendine della finestra; l’altro, bruciando, ama.

Toni D’Angela


Il presente articolo è stato pubblicato in Rapporto Confidenziale numero30 (dic/gen 2011), pp. 68-70
 

CINEFORUM DI IDEE è la rubrica a cura di Toni D’Angela per Rapporto Confidenziale. CINEFORUM DI IDEE vuole essere una fonte di idee per rassegne possibili ed immaginarie: un cineforum di parole. Toni D’Angela, nato a Milano (1975), insegnante ed educatore, critico cinematografico e organizzatore di cineclub, ha scritto saggi e articoli su Ford, Walsh, Hitchcock, Welles, Peckinpah, Paradzanov, Warhol, Rivette, Woo, sul western e sul rapporto cinema/filosofia, ed i volumi "Il cinema western da Griffith a Peckinpah" (2004), "Nelle terre di Orson Welles" (2004) e "Corpo a corpo. Il cinema e il pensiero" (2006), "Raoul Walsh o dell’avventura singolare" (2008) e "John Ford. Un pensiero per immagini" (2010). Dirige il trimestrale multilingue on line "La furia umana" – www.lafuriaumana.it

 



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