The Man Who Knew Too Much > Alfred Hitchcock

L’UOMO CHE SAPEVA TROPPO
(e sua moglie che ne sapeva ancor più)

di Despina Veneti

English version below

Dopo il fallimento commerciale americano della commedia nera The Trouble with Harry (La congiura degli innocenti, 1955), Alfred Hitchcock, nel tentativo di correre ai ripari, decise di realizzare un remake di un grande successo del suo periodo inglese, The Man Who Knew Too Much (L’uomo che sapeva troppo, 1934). Come il maestro stesso aveva dichiarato a François Truffaut: “La prima versione era il lavoro di un dilettante di talento e la seconda era stata fatta da un professionista”. Il remake hollywoodiano del 1956 risulta quindi un film davvero meglio diretto, girato in un imponente Vistavision, baciato dalla grazia di grandi star, e caratterizzato anche da un pieno e coerente sviluppo di due dei temi essenziali hitchcockiani, ossia il trasferimento della colpa e lo sguardo sulla struttura sociale dei ’50, in modo particolare sul ruolo della donna nella famiglia americana.

Il plot vede una coppia americana, Ben and Jo MaccKenna (rispettivamente, James Stewart e Doris Day), in vacanza in un esotico Marocco, insieme al figlioletto. Durante la loro permanenza, incapperanno involontariamente nelle spie e nei terroristi, essendo testimoni dell’omicidio di un personaggio che, prima di morire, avvisa Ben di un terribile avvenimento: un Primo ministro straniero sta per essere ucciso a Londra. I terroristi, per assicurarsi il silenzio della coppia, rapiscono il loro piccolo, che terranno fino all’esecuzione del piano omicida, previsto durante un concerto all’Albert Hall, al momento dell’esecuzione di un certo brano: più specificamente, quando subentra il suono dei piatti. Alla coppia spetta quindi la decisione di lasciar compiere l’assassinio, di modo che i rapitori non facciano del male al bimbo. La colpa è trasferita così ad essi…

Sin dall’apertura, Hitchcock annuncia di voler mostrare come “un solo colpo di piatti ha messo in crisi la vita di una famiglia americana”: se questa si può considerare una delle sue tipiche dichiarazioni scherzose, tuttavia qualcosa di assai più profondo di un intrigo di spie viene a sconvolgere la calma piatta della famiglia McKenna. A prima vista, il matrimonio della coppia sembra perfetto, senza nubi come il cielo di Marrakesh. Ma proprio come ogni pericolo viene celato dall’accecante luminosità del paesaggio, la relazione tra i due nasconde allo stesso modo un certo numero di rancori e desideri repressi. Il primo accenno di ciò arriva presto: Jo ha dovuto smettere di cantare per essere a tempo pieno una madre e la moglie di un dottore, secondo le esigenze sopravvenute, ma anche per volontà di suo marito. Inoltre, subito dopo, scopriamo che la carriera di Jo era decisamente speciale e straordinaria, con un mucchio di fans fedeli che ancora la ricordano, l’ammirano e non hanno smesso di aspettare che lei possa far ritorno alle scene.

Lo si vede nella scena davvero rivelatrice – da più punti di vista – nel ristorante marocchino, quando la donna di una coppia che Jo sospetta li stia seguendo chiede se è lei “la famosa Jo Conway”. Ben (evidentemente seccato) subito tenta di… correggerla, rispondendo: “Noi siamo il signore e la signora MCCKENNA!”. Poco più tardi, durante la cena con la coppia, scopriamo dal dialogo che Jo avrebbe potuto continuare la sua carriera, avendo ancora il talento per farlo, se solo avessero deciso di vivere a New York o in un’altra città importante, invece che a Indianapolis, per scelta del marito.

Ci accorgiamo che Ben si è dato da fare per imporre totalmente la sua volontà e le sue scelte su Jo, facendo di fatto concludere la carriera di cantante alla moglie e, in termini metaforici, finendo per toglierle in questo modo la VOCE. Anche la sua incapacità di sedersi sul pavimento e mangiare nella maniera in cui gli mostrano al ristorante, così come la sua irritazione quando non riesce a farlo, suggerisce la sua mancanza di elasticità e adattabilità come persona e, ancor più, la sua riluttanza a piegarsi ai desideri e ai suggerimenti di qualcun altro.

Inoltre, Ben rigetta senza pensarci i chiari e fondati sospetti di sua moglie (Jo avverte giustamente il pericolo sin dall’inizio), attribuendoli – più o meno – alla sua “sospettosità femminile”! Anche quando risulta evidente che Jo avesse ragione, piuttosto che ammetterlo, Ben tenta di nuovo di imbavagliarla, in modo drastico (se non aggressivo): considerandola incapace di gestire la notizia del rapimento del figlio, la narcotizza senza dirglielo, continuando a imporre la propria volontà su di lei (sebbene le sue motivazioni derivino stavolta da sincere e amorose premure).

Appare decisamente ironico che non solo Jo darà prova di gestire la situazione – in effetti persino più brillantemente dello stesso Ben – ma si rivelerà anche la sola a salvare con la propria VOCE (quella che Ben aveva forzatamente cercato di imbavagliare) sia il Primo Ministro straniero, il cui assassinio è impedito dal penetrante urlo di lei nel corso del concerto, SIA il loro figlio, invadendo l’edificio dell’Ambasciata con la sua canzone: una canzone che raggiunge il piano superiore dove è tenuto il bambino, facendogli sapere che il salvataggio è vicino.

Si tratta ovviamente della canzoncina “Que sera, sera”, il più grande hit della carriera musicale di Doris Day (riguardo alla quale, inizialmente, aveva avuto dubbi se inciderla, considerandola “troppo infantile”), utilizzata drammaticamente nel film in modo superbo, come un privato “messaggio in codice” tra Jo e suo figlio (davvero palese la preoccupazione di Ben, nelle scene d’apertura, quando ascoltando madre e figlio cantare insieme, puntualizza, un po’ per scherzo e un po’ per davvero, che suo figlio seguirà la SUA professione!). Per di più, la canzone riecheggia splendidamente il nucleo avventuroso del film: nessuno sa quel che la vita può riservare da un momento all’altro.

Con la sua VOCE, simbolo di liberazione, Jo rivela il suo dinamismo, reclamando un ruolo eguale e attivo all’interno della famiglia. E alla fine, il titolo stesso del film appare un po’ ironico, dato che il personaggio di Ben non sembra saper troppo, in fin dei conti: in una scena caratteristica, le sue indagini lo portano per errore a… un negozio di animali impagliati, mentre Joe, nel frattempo, ha già scoperto dove si nascondono davvero i rapitori! Finalmente, dopo questa disavventura, “l’uomo che sapeva troppo” sembra imparare la lezione: si accorge che cooperare con la moglie è essenziale e sarà proprio l’azione congiunta dei due impedire l’omicidio, così come a salvare il loro figlio.

In base a quanto espresso sopra, devo ritenere che le opinioni che ritraggono Hitchcock come “misogino” siano piuttosto superficiali, delle semplici dicerie. La sua critica del ruolo decorativo della donna degli anni ’50 all’interno del matrimonio è forte e chiara in questo film, per non dire che nelle sue opere Hitchcock avesse sempre prediletto i ruoli di donna forte, o come pure avesse delle donne tra i più stretti collaboratori, e in autentiche posizioni-chiave (per esempio, la sua assistente Joan Harrison, e soprattutto sua moglie Alma, collaboratrice silenziosa in quasi tutti i suoi film). Hitchcock conosceva la forza e la saggezza delle donne, ma le vedeva pure (specie quelle da cui si sentiva attratto) in maniera intensamente feticistica, voyeuristica (e nel caso di Tippi Hedren persino dispotica). Tuttavia un aspetto non escludeva l’altro e una delle cose che rende il lavoro di Hitchcock così idiosincratico e personale è proprio questa combinazione di elementi contraddittori, presente sotto il tono sempre divertente e scherzoso dei suoi film. Riflettiamo soltanto a quanti altri film più scopertamente personali de La donna che visse due volte (1958) abbiamo avuto l’opportunità di vedere da qualsiasi altro regista del cinema americano classico.

A dispetto di alcune falle nella trama (ma Hitchcock riteneva si desse troppa importanza alla plausibilità assoluta), L’uomo che sapeva troppo resta un thriller dalla regia superba e di grande intrattenimento, eccelsamene interpretato e con un’autentica scena d’antologia, quella del tentato omicidio all’Albert Hall: una scena di puro cinema e una lezione di ritmo e narrazione cinematografiche. Il film rappresenta ancora un bel modo per trascorrere due ore della propria vita.

Despina Veneti

The Man Who Knew Too Much
(L’uomo che sapeva troppo. USA, 1956)
Regia: Alfred Hitchcock
Soggetto: Charles Bennett, D.B. Wyndham-Lewis
Sceneggiatura: John Michael Hayes (con il contributo di Angus MacPhail)
Musiche: Bernard Herrmann
Fotografia: Robert Burks
Montaggio: George Tomasini
Scenografie: Henry Bunstead, Hal Pereira
Costumi: Edith Head
Interpreti principali: James Stewart (Dott. Benjamin McKenna), Doris Day (Josephine Conway McKenna), Brenda de Banzie (Lucy Drayton), Bernard Miles (Edward Drayton), Ralph Truman (Ispettore Buchanan), Daniel Gélin (Louis Bernard), Mogens Wieth (Ambasciatore), Alan Mowbray (Val Parnell), Hillary Brooke (Jan Peterson), Christopher Olsen (Hank McKenna)
120′
35mm, 1.50:11 (negativo)

THE MAN WHO KNEW TOO MUCH
(and his wife who knew even more)

Review by Despina Veneti

After the commercial failure of his black comedy The Trouble With Harry (1955) in the U.S., and in an attempt to “run for cover”, Alfred Hitchcock decided to direct a remake of a great hit of his English period, The Man Who Knew Too Much (1934). As the grand maitre himself said to Francois Truffaut: “The first version was the work of a talented amateur and the second was made by a professional” – and indeed, the 1956 Hollywood remake is clearly a superiorly directed film, in impressive Vistavision, blessed with excellent stars, but also with a consistent and well-rounded development of both the basic Hitchockian theme of the transfer of guilt, as well as of a critical look on the social establishment of the 50s, concerning the woman’s role in the American family.

The plot finds an American couple, Ben and Jo MaccKenna (James Stewart and Doris Day, respectively), being on vacation in exotic Morocco, along with their young son. During their stay there, they will involuntarily encounter spies and terrorists, resulting in being witnesses of the murder of one of those characters, who – just before dying – transfers a piece of terrible information to Ben: a foreign Prime Minister is going to be murdered in London. The terrorists, trying to make sure that the couple stays silent about it, kidnap their little boy until the execution of their murderous plan, that is to take place at a concert at Albert Hall, during a certain cantata, and even more specifically at the one and only moment that the cymbals will sound! The couple has to decide if they let the murder take place, so that the kidnappers won’t hurt their son. The guilt has been transferred to them…

From the opening moments of the film, Hitchcock announces that he will show us how “a single crash of cymbals rocked the lives of an American family” – this may be one of his usual playful statements, but nevertheless something even deeper than the spy intrigue rocks the calm waters of the MccKenna family. At first sight the couple’s marriage seems ideal, cloudless like the Marrakesh skies. But just as there are all sorts of dangers hiding in the blindingly luminous landscape, the relationship of the couple also hides a certain amount of bitterness and repressed wishes. The first hint comes quite early in the film: Jo had to give up singing to be a mother and a doctor’s wife, as it was required of her by the times, but also by her own husband. It’s not long after this that we also find out that Jo’s career was moreover something quite special and extraordinary – she still has many loyal fans that remember her, admire her and haven’t given up waiting for her come back.

During the especially revealing – from several aspects – scene in the Moroccan restaurant, when the woman of the couple that Jo suspects to be following them asks her if she is “the famous Jo Conway”, Ben (clearly annoyed!) at once attempts to… correct her, saying: “we are Mr. and Mrs. MCCKENNA!”. During their dinner with the couple a bit later, we find out from the dialogue that Jo did want to continue her career, as well as that there was also the ability to do so, if only they had chosen to live in New York or another major city, instead of Indianapolis, which was her husband’s choice.

We realize that Ben managed to impose his own will and choices on Jo completely, effectively ending his wife’s singing career – depriving her this way of her VOICE on a metaphorical level, too. Even his inability to sit on the floor and eat in the way he’s shown to at the restaurant, as well as his irritation when he fails to do so, suggests his lack of flexibility and adjustability as a person, and moreover his unwillingness to make any concession to the wishes/suggestions of anybody else.

Furthermore, Ben rejects without a second thought his wife’s reasonable and well expressed suspicions (Jo obviously perceived the danger right from the beginning), attributing them – more or less – to her “female suspiciousness”! Even when it’s evident that Jo was right, although he admits it, Ben still attempts to gag her, in a drastic (if not aggressive) way: apparently considering her unable to handle the news of their son being kidnapped, he drugs her without telling her, continuing to impose his will on her (even though his motives this time derive from honest love and care).

It is of course highly ironic that not only will Jo be proven able to handle the situation – in fact even more successfully than Ben himself – but she will also be the one who will save with her VOICE (the one that Ben tried so hard to gag) both the foreign Prime Minister, by preventing his murder with her penetrating scream during the concert, AND their son, by flooding the Embassy building with her song, a song that reaches the upper floor where their son is being kept, letting him know that his rescue is close.

This little song is of course “Que sera, sera”, the biggest hit in Doris Day’s music career (she initially had doubts about recording it, considering it “too childish”), and it is used dramaturgically in the film in a superb way, as the private “communication code” between Jo and her son (Ben’s worry is very obvious in the opening scenes, when he hears mother and son singing together, as he points out – half seriously, half funny – that his son will follow HIS profession!). Moreover, the song beautifully echoes the adventurous heart of the film: nobody knows what life will bring from one moment to another…

With her VOICE as a symbol of liberation, Jo proves her dynamism, claiming an active, equal part in the family. In the end, the film’s title itself proves to be a bit ironic, since Ben’s character doesn’t seem to KNOW so much, after all: in a characteristic scene, his investigation wrongly leads him to a… taxidermy shop, while Jo has already discovered where the kidnapers really hide! At least after this incident, the “man who knew too much” seems to learn his lesson: he realizes that co-operating with his wife is essential, and it will be the two of them together, as a team, that will prevent the murder, as well as save their own son.

With all the above said, I consider those points of view characterizing Hitchcock as “misogynistic” to be rather simplistic, easy aphorisms. His critique of the decorative role of the 50’s woman inside the marriage is loud and clear in this film, not to mention that Hitchcock has always had extremely strong female characters in his films, as well as women as his own close collaborators, and in actual key-positions (e.g.: his assistant, Joan Harrison, and above all his wife, Alma, silent collaborator in almost all his films). Hitchcock acknowledged women’s strength and wisdom, but he also saw women (especially the ones that he felt attracted to) in an intensely fetishistic, voyeuristic (and in the case of Tippi Hedren, also domineering) way. However, the one doesn’t necessarily exclude the other, and one of the things that makes Hitchcock’s work so idiosyncratic and personal is exactly this combination of contradictory elements, beneath the ever-amusing, ever-playful tone of his films. Let’s just think of how many more openly personal films than “Vertigo” (1958) we have seen from any director of classic American cinema.

In spite of some plot holes (Hitchcock always considered absolute plausibility overrated, anyway!), “The Man Who Knew Too Much” remains a superbly directed, highly entertaining thriller, with excellent performances and a genuine anthology scene: that of the murder attempt at Albert Hall – a scene of pure cinema and a lesson on cinematic narration and rhythm. Still a great way to spend two hours of one’s life.

Despina Veneti



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