I Am Michael > Justin Kelly

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Sundance Film Festival 2015 | Premieres

La conversione di Michael Glatze, perlomeno quella pubblicata, ha una data – 3 luglio 2007 – e un luogo preciso, il WorldNetDaily (quotidiano online Neocon, fondato da Joseph Farah). Ed è una conversione che avrebbe trovato riverbero giusto nei numerosi siti web dedicati alla cosiddetta terapia riparativa, non fosse che Glatze è stato una delle voci pubbliche più animate e polemiche nel combattere le difficoltà che molti adolescenti affrontano durante la ricerca/affermazione della propria identità. Per più di un decennio ha coordinato, a Castro District, San Francisco, il magazine XY assieme al compagno Ben (con il quale fondò successivamente anche il Young Gay America Magazine). Dodici anni di relazione, di battaglie a voce ferma per sostenere la gioia di essere omosessuali prima di tutto tra i giovani.
Con l’atto pubblico di conversione, la missione di Glatze ha preso una rotta nuova, seppure sempre fondata sul concetto di libera scelta e professione della propria individualità: da leader queer a pastore di anime perse nel piacere illusorio e nella anormalità della passione gay. Un processo che lo ha riavvicinato a Dio e, fedele alle Scritture, spinto a proseguire il proprio lavoro di supporto verso le nuove generazioni, ma con una rinnovata finalità: indicare loro la strada verso la verità, rifuggendo la menzogna.
La storia di Michael non arriva alle orecchie del poliedrico artista James Franco quando tutto questo accade, ma solo qualche anno dopo (nel 2011), quando Gus Van Sant, uno dei produttori esecutivi del film, gli mostra l’articolo che Benoit-Denizet-Lewis scrisse sul New York Times Magazine dal titolo, “Il mio ex-gay amico”. Nel racconto, Lewis, percorre la lunga storia di Michael e il suo difficile e doloroso cammino nella ricerca di sé, lasciando emergere in modo sincero, ed è forse il punto più interessante, i propri dubbi e scetticismi.
È davvero impossibile che una persona, identificatasi per anni come gay, possa cambiare “sponda” sia di vita che ideologica? Se si dà per certo che l’identità sessuale sia un fattore evolutivo, si può, però, comprendere che questo cammino porti con sé il rifiuto del Sé precedente indossato? Quanto lo stupore, i dubbi, le amarezze, la rabbia, che l’atto porta dentro raccontano del “rivelato” quanto della/e comunità a cui si rivolge?
Il voltare faccia ad un mondo di relazioni costruite sia in campo privato che a livello pubblico è uno shock per tutti coloro che ne fanno parte. È una rivoluzione che suscita compassione, nel migliore del casi; violenza, nel peggiore. E questa rabbia ha colpito tutta la comunità GLBT, attaccata da Michael con frasi oscurantiste e “bibliche” come uno dei tanti conservatori del nuovo millennio. E, certo, ha colpito lui stesso, divenuto – per coloro che lo riconoscevano come portavoce del movimento – traditore o fragile d’animo (e quindi, nel profondo, in “diniego”).
Nell’articolo di Denizet-Lewis vi sono numerose porte che si aprono verso l’ignoto; l’incontro con il Michael del 2011 e le molte parole mancate e sguardi lasciati sospesi che lui e Lewis si scambiano (e che sono percepibili nel pezzo del Times) sono così vividi che comprendiamo quanto questo possa aver suggestionato Van Sant. E ci sembra di poterli vedere, ritratti nelle immagini fluttuanti del suo cinema. Si vorrebbe poter spalancare quelle fenditure lasciate aperte nell’incontro tra il giornalista ed il suo amico ex-gay ed entrarvi, oggi, nel 2015, accompagnati da un Michael diverso. D’altronde sono l’ex fidanzato Benjie e Lewis a darcene la chiave, nonostante il dolore di allora, con parole piene di compassione e amore – Non potevo fare a meno di pensare che la nuova filosofia di Michael fosse, in uno strano modo, la logica estensione di ciò che aveva sostenuto ideologicamente negli anni precedenti; che “gay” è una categoria limitante e che l’identità sessuale può cambiare. Ben abbassò la testa. «Un attivista queer radicale ed un fondamentalista cristiano non sono sempre così differenti quanto potrebbero sembrare”, disse, e aggiunse che “ci sono ideologi che possono passare come schiacciasassi sulle sfumature e affermare il monopolio della verità». Il territorio grigio della mente umana ed il dolore che le scelte di vita possono portare dentro le vite di molti, sono temi che registi di ogni nazionalità e cultura hanno trattato, eppure, entrare nel territorio della conversione di identità sessuale di un leader queer, e con un film dotato di un cast di tutto rispetto (oltre a Franco, Zachary Quinto, Emma Roberts, Daryl Hannah) è davvero un percorso inesplorato.
Il film, diretto da Justin Kelly (sembra sempre dietro suggerimento di Van Sant) e scritto dal regista stresso con Lewis e Stacey Miller, si ferma purtroppo al racconto dei fatti, lasciando a Franco, e alla sua mimica, la missione di far emergere il tormento e l’estasi di Glatze. Non è opera facile, soprattutto quando entrare nell’abisso umano porta un autore a sondare territori dove psicologia ed esperienza personale si mescolano, rendendo impossibile una verità soltanto.
Forse, una verità, non esiste neppure in Glatze, né nella sua certezza urlata di rinascita in Cristo e nel matrimonio eterosessuale, né nella sua “vita precedente”. La serenità riconquistata, il pentimento per le parole violente spese a scapito delle vite di molti e la presa di coscienza di essere passato da volto del pensiero queer a bandiera del movimento Theocon lasciano intravvedere un percorso assai più ambiguo di quanto il film riesca a portare alla luce.

 

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I Am Michael ha il dono di aprire un varco importante in tempi ancora estremamente cauti e rischiosi: quello di raccontare l’identità (sessuale e spirituale) come mutevole anche quando questo accade al di fuori dai canoni che la società viene, con grande fatica, riconoscendo. E di aver provato a farlo senza prendere posizione rispetto al percorso del protagonista. Realizzare un film che vuole mettere in discussione, in modo sincero, il cammino di genere, è un segno di come il cinema tenti, almeno a livello narrativo, di far emergere temi che appartengono a tutti: dalle aule di studio a confronto pubblico.

Purtroppo la linea scelta da Justin Kelly, se non presta il fianco a facili conclusioni, neppure è capace di andare oltre la storia di Michael, di guardare in modo evolutivo i personaggi. Tutti, nel film, sembrano interpretare delle figurine statiche e stereotipate. Siamo al cospetto di un film frigido, alla continua ricerca di un equilibrio. Kelly, e i suoi sceneggiatori, non dimostrano lo stesso coraggio del protagonista nel camminare entro territori sconosciuti. Sarebbe limitante bollarlo come film televisivo, ma va così vicino al biopic da risultare, all’opposto, irritante nel tentativo di evocare certo cinema nordeuropeo quando mostra i peregrinaggi nel bosco del dolore e del lutto di Michael. Ben più interessante è il modo in cui, e qua ricorda certi lavori “a mano libera” di Franco regista, ricrea il vero documentario che Glatze ed il suo compagno hanno realizzato in giro per gli Stati Uniti per raccogliere le storie di teen omosessuali.
Il resto del film è diviso in due blocchi, prima e dopo la conversione, il periodo omosessuale e quello etero-religioso (schematico quanto un profilo wiki sulle fasi artistiche di Picasso). A prescindere dalle prime “ricadute” omosex, cosa naturale, capita anche ai fumatori, il film si ferma nel raccontare l’aspetto dogmatico di Glatze, non le sue ferite. In quel territorio “grigio” si affida al corpulento protagonista James Franco, come ad indicare che è nell’attore stesso che dobbiamo ricercare quella frattura e l’impossibilità della certezza (anche quando egli stesso afferma il contrario). Ma Franco, il quale istintivamente e con passione si immerge in un terreno a lui caro, non ha lo spessore per rendere la complessità sullo schermo. D’altronde la sua carriera è tempestata di eccitazione, furia creativa, sentita adesione a storie, temi, poetiche, ma è anche il racconto di un artista dal coito veloce, poco attento alla costruzione dell’atto d’amore. Una personalità scoscesa come quella di Glatze è per Franco come discendere una pista nera con gli scii da fondo. Ma il discorso, davvero, nasce a monte, e non possiamo infliggerne le responsabilità solo agli interpreti (tra i quali, ad esempio, spiccano le sensibilità di Emma Roberts e Charley Carver nell’aver reso tangibili affettivamente due personaggi appena abbozzati). Il grande problema del film è proprio contenuto nel titolo: I Am Michael. Glatze è nei suoi scritti, nei video che ritroviamo sul web. Quello del film non è, e mai poteva essere, ciò che si ostina a definirsi: Michael. «C’est une imitation de Picasso», diceva orgoglioso il pittore della domenica in Totò a Colori, al quale, il Principe rispondeva, aprendogli l’occhio destro con pimice e pomice, con uno sputo dritto nell’orbita. •

Roberto Nisi

 

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I AM MICHAEL

Regia: Justin Kelly
Soggetto: da un articolo di Benoit Denizet-Lewis
Sceneggiatura: Justin Kelly, Stacey Miller
Fotografia: Christopher Blauvelt
Montaggio: Aaron I. Butler
Musiche: Tim Kvasnosky, Jake Shears
Costumi: Brenda Abbandandolo
Scenografie: Michael Barton
Produttori: Vince Jolivette, Michael Mendelsohn, James Franco, Scott Reed, Ron Singer
Produttori esecutivi: Gus Van Sant, Lauren Selig
Interpreti: James Franco (Michael Glatze), Emma Roberts (Rebekah Fuller), Zachary Quinto (Bennett), Daryl Hannah (Deborah), Avan Jogia (Nico), Leven Rambin (Catherine), Charlie Carver (Tyler), Lesley Ann Warren (madre di Bennett), Devon Graye (Cory), Evie Thompson (Nicole), Jenna Leigh Green (Dr. O’Connor), Blake Lee (Benoit Denizet-Lewis)
Produzione: Gotham Group, Rabbit Bandini Productions, Thats Hollywood
Paese: Stati Uniti
Anno: 2015
Durata: 101′

 



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