Mad Max: Fury Road > George Miller

Mad Max
Perché Mad Max: Fury Road è un film pericoloso (e quindi bellissimo)

«Dove dobbiamo andare. Noi che siamo costretti
a vagare per queste lande desolate alla ricerca della nostra parte migliore?»
Il primo custode della Storia

Un giorno è successo qualcosa di irreparabile: la terra è diventata acida e ha avvelenato i suoi figli, sotto un cielo coperto da nubi velenose. Un giorno, non sappiamo quando, l’esistenza di ogni vivente sulla terra si è trasformata in un tavolo attorno a cui sedersi per mangiare polvere, per l’eternità: «qualcuno ha ucciso il mondo», e sappiamo nomi e cognomi.
Polvere, sabbia e un’orizzonte sempre uguale, segnato solo dal catrame delle vie del commercio che unisce commercialmente e politicamente La Cittadella alla città del Gas e a quella dei Proiettili, in un triangolo ideologicamente e fisicamente inespugnabile.
«Ma se tratti le persone come cose, un giorno qualcuno si ribellerà». È su quel giorno che inizia la storia della strada della furia: qualcosa non va secondo i piani, qualcuno non obbedisce agli ordini, non sta al suo posto. L’imperatrice Furiosa, a guida della cisterna blindata da riempire di carburante per la Metropolis della sabbia e della miseria, decide di seguire un piano lungamente accarezzato: deviando dalla strada tracciata, apre una via di fuga: è solo il primo di una serie di gesti politici, volti a ridisegnare l’intreccio tra percezione, posizione e libertà decisionale. Gli altri, i figli del Signore, i cuccioli della guerra, seguono e inseguono, vengono infine disarcionati quando le si parano davanti.
Max, il vagabondo pazzo del titolo, ossessionato dalle voci nella sua testa, finisce per una mera coincidenza sul suo cammino e solo dopo lunghi tentennamenti i due riusciranno a formare una proficua alleanza.

Tutto il film è una risposta alla domanda che compare prima dei titoli di coda: dove dobbiamo andare noi che siamo costretti…?
Sono i pazzi che vagano per lande desertiche alla ricerca di sé stessi, della propria parte migliore, quella che nel deserto del reale è annegata dalle mille voci dei vinti, quelli che giacciono con il cranio sfasciato nell’anonimato di una fossa comune, quelli vicino a noi che non siamo stati in grado di aiutare: quelli per cui non siamo più tornati. Solo i pazzi cercano ancora la propria parte migliore, o forse pazzi sono tutti gli altri. Per trovare la parte migliore, allora, dobbiamo tornare. Perché è inutile farsi illusioni: la terra promessa non esiste. Ogni luogo è avvelenato, la fuga non può avere mai fine, attraverso il deserto e fino alle distese di sale. La terra promessa è alle nostre spalle: tornare, conquistare, regalare a tutti.

Nel mondo del disastro ecologico compiutamente realizzato, l’uomo è politicamente e fattualmente il fondo da cui estrarre pezzi di ricambio per gli uomini-ingranaggio della macchina-sistema: una risorsa vivente, rara ma potenzialmente infinita, di ecoricambi. Il Moloch-macchina della distopia dei primi del Novecento è, ormai, spogliata degli orpelli tecnologici e privata di schermi, di digitalità: si erge in tutta la sua concretezza come gigante ingranaggio arrugginito dell’ascensore sociale, impenetrabile ai più, mosso dalla forza motrice delle gambe di bambini malati, da piccoli schiavi. Non più promessa di sviluppo, mera minaccia di un mondo già defraudato. Gli uomini sani che vengono catturati e le donne che vengono rapite diventano quindi “sacche di sangue” (Max è, stando al tatuaggio da Colonia Penale che gli viene impresso sulla schiena, il donatore universale di sangue sano) o “roba riproduttrice”. Le guerre si giocano, con gran spreco di mezzi e risorse umane, solo per dei “bambini sani”, nota con spregio uno degli inseguitori alleati di Immortan Joe.

L’inseguimento non dà tregua allo spettatore: per tutta la durata del film si rimane col fiato sospeso, seguendo il ritmo velocissimo del montaggio in cui cozzano lamiere, esplodono bombe, stridono motori, si dilania la carne. Il movimento forsennato, furioso, di questa corsa, è accompagnato da una musica ritmata, rituale, inframmezzata dai battiti cardiaci dei protagonisti che, attraverso le loro competenze, sono chiamati ogni secondo a prendere una decisione: è sempre questione di vita o di morte. Il corpo, martoriato, lanciato a folle velocità, è il vettore di una volontà di devianza, di scoperta di un mondo antico e più vivibile che vive solo nei ricordi d’infanzia, per alcuni; per altri è il luogo di una sofferenza già da sempre giustificata, votata all’adorazione del capo, che solo nel sacrificio – per la gloria fatta di macchine cromate e onore patriarcale – può trovare compimento e soddisfazione. La massa di soldati, decimati lungo la corsa, è una grande famiglia votata alla preservazione del paradigma di distruzione e assoggettamento. Ma persino chi ha sempre preso ordini, intrecciando relazioni con chi resiste, è in grado di riconoscere che ciò che resta ai più, oltre ai miti dell’onore, è la compagnia patologica delle escrescenze tumorali che crescono sul proprio corpo.
Attraverso l’arancione cruento del giorno e il blu inquietante della notte, assistiamo a bocca aperta a una vera e propria valanga umana resistenziale che, in un crescendo di azioni sempre più audaci, travolgerà i padroni del mondo: «noi non siamo cose» è un mantra che i protagonisti della ribellione si ripetono l’un l’altro per farsi coraggio.

 

Mad Max

 

Mad Max rompe la superficie opaca delle narrazioni post-ideologiche solo di nome – ma di fatto portatrici di una Weltanschauung predatoria, che rimbalzano da una parte all’altra dell’infosfera attraverso tutti i media – lo fa perché prende una decisa posizione filosofica nei confronti di un tòpos letterario e cinematografico tradizionale. Il motivo apocalittico, che affonda le sue radici nella Bibbia, è stato maneggiato e riproposto in forme sempre nuove ma contenutisticamente inalterato: il collasso dell’ordine, del sistema amministrativo che governa la vita nelle sue forme sociali ed economiche, è la vera catastrofe; l’evento deviante è il mero catalizzatore di una distruzione annunciata perché già da sempre inscritta nel DNA umano, o meglio nella “natura” dell’animale uomo, nella sua “essenza”. La caduta della Legge, la rottura del Patto Sociale su cui si fondano tanto lo Stato quanto l’attuale paradigma economico, significa immediatamente l’avvento della barbarie: senza più argini, consapevole dell’assenza di un’autorità punitiva, la natura umana, intrinsecamente egoistica e quindi malvagia, sarebbe quindi libera di scatenarsi in una destinale guerra di tutti contro tutti. Homo homini lupus, l’umanità è malvagia: dobbiamo cedere la nostra libertà a qualcuno più saggio di noi – che poi la saggezza sia stabilita per via censitaria, storicamente parlando, è facezia di poco conto – in grado di stabilire il posto di ognuno e dirigere la naturale propensione alla socialità e all’operosità verso un bene comune – che, storicamente parlando, è il bene di pochi e il male di molti.
Il mondo in cui si muovono Furiosa e il suo squinternato gruppo di compagni, è, all’opposto, un luogo completamente esaurito e inaridito dal meccanismo stesso che era nato con l’intento propagandistico di rendere felici i più: la torre della Cittadella e la sua economia di austerità-per-molti sono l’incarnazione parossistica di quella mentalità cinica e calcolatoria che è alla base di ogni economia incentrata su profitto e proprietà privata. Come già intuiva Marx, il capitale si cura solo dell’accumulazione di capitale: la legge del profitto guarda sempre al più alto guadagno immediato; l’accentramento del denaro – e quindi del potere – quasi mai è lungimirante. È solo attraverso l’equiparazione di ogni valore e la ridicolizzazione dell’ideale che è possibile realizzare, cioè far accettare passivamente alla maggioranza, l’equivalenza completa di ogni cosa: anche del corpo umano – materia inerte fra le altre da cui attingere per far tirare avanti una macchina dannosa e irrazionale. La guerra non nasce con la caduta della legge, la Guerra è la meccanica interna della Legge stessa, il frutto del suo potere sui corpi.
Nel concreto deserto del reale, che è tanto economico quanto politico sociale e culturale, veniamo lanciati in un deserto immaginifico ma veloce e crudele, cromato e sanguinolento, quanto questo nostro presente che non riusciamo sbloccare né a cavalcare. Il mondo è morto perché la logica opportunista che si auto innalza a unica ratio a cui attingere per amministrare l’esistenza, la vita stessa, nella sua estrema volontà tanatologica, fa terra bruciata dell’esistente. Rimangono solo i miti, tanto potenti da rendere ciechi di fronte alla devastazione e ben disposti a sacrificarsi alla religione dello sfruttamento e dell’oppressione: purché nulla cambi, mai!
Nel sapiente alternarsi di panoramiche e primissimi piani, negli occhi disperati di determinazione, è inscritta la saggezza bastarda di chi sa che è proprio nella catastrofe che si compie qui e ora che si trova il motore per far ripartire l’esperienza: è una nostra decisione. È impossibile, guardando i disperati della Cittadella che si dibattono nella polvere, non pensare a quanti si dibattono tra le onde e lì muoiono ai margini della Fortezza Europa. È impossibile, guardando le donne che, sotto la guida di Furiosa, da scudi umani si fanno agenti di liberazione, le anziane matrone in motocicletta e gli altri aiutanti, non pensare alla verità scomoda che: la Rivoluzione sarà femminista, o non sarà (e è anche giusto notare che, nonostante l’abbandono dei media e delle grandi potenze globali, questo sta succedendo in Rojava). È impossibile non chiedersi: sono pazzi coloro che vogliono riparare al torto o coloro che si accontentano di una Storia che è, dall’inizio dei tempi, un accumularsi di macerie e distruzione?
Le voci dei vinti svaniscono nel turbinio dei declamati successi dell’umanità, nel susseguirsi dei nomi degli imperi e dei potenti, ma non per questo smettono di parlare e piangere e chiedere un mondo migliore.

Non c’è veramente nulla di implicito o lasciato al caso nelle immagini del rientro trionfale dell’auto cromata rubata all’imperatore, col suo cadavere senza faccia sopra al cofano, nella città che è anche il centro del potere: i sopravvissuti alla lunga corsa si alzano fieri, con i loro corpi segnati dalla storia e dalla lotta, alle loro spalle sventolano stendardi neri e rossi. La piattaforma che divide la città di sopra dalla massa anonima che si rotola nella polvere va giù, e su di essa salgono tutti: la gerarchia è scardinata, l’acqua scorre abbondante. Max, testimone pazzo di una parabola miracolosa di redenzione (tanto personale quanto collettiva), scompare nella folla, tra gli anonimi – a cui sarà lasciata la possibilità di essere qualcuno, non importa chi, di decidere della propria vita. Scivolando tra mille storie sconosciute assistiamo all’ultimo gioco di sguardi tra lui e la vera protagonista dell’azione: è uno sguardo di ghiaccio, insondabile e non esplicabile nei suoi plurimi significati. È uno sguardo che ci ricorda che il cinema, come la vita stessa, è, appunto, sguardo: una macchina inorganica desiderante, che inquadra il mondo e lo ridisegna, che ci mostra meraviglie, e spesso queste meraviglie possono far nascere pensieri che fanno traballare lo status quo.

Ma il cinema è, in fondo, solo immagine in movimento. Su questo schermo abbiamo visto correre un mondo già morto, che sembrava finito, che invece si è scoperto redimibile.
Riusciremo anche noi a trovare un punto di fuga, una redenzione possibile, salvando questo mondo che qui e ora guardiamo morire? •

Giulia Belloni

 

Mad Max

 

MAD MAX: FURY ROAD
Regia: George Miller • Sceneggiatura: George Miller, Brendan McCarthy, Nick Lathouris • Fotografia: John Seale • Montaggio: Margaret Sixel • Musiche originali: Junkie XL (Tom Holkenborg) • Casting: Nikki Barrett, Ronna Kress • Production Design: Colin Gibson • Art Direction: Shira Hockman, Jacinta Leong • Set Decoration: Katie Sharrock, Lisa Thompson • Costumi: Jenny Beavan • Trucco: Natasha du Toit, Lian van Wyk • Produttori: George Miller, Doug Mitchell, P.J. Voeten • Produttori esecutivi: Bruce Berman, Graham Burke, Christopher DeFaria, Steven Mnuchin, Iain Smith • Supervisione alla produzione (Sudafrica): Genevieve Hofmeyr • Interpreti principali: Tom Hardy (Max Rockatansky), Charlize Theron (Imperatrice Furiosa), Nicholas Hoult (Nux), Hugh Keays-Byrne (Immortan Joe), Rosie Huntington-Whiteley (Angharad la splendida), Riley Keough (Capable), Zoë Kravitz (Toast la sapiente), Abbey Lee (Dag), Josh Helman (Slit), Jon Iles (Ace), Courtney Eaton (Cheedo la fragile), Nathan Jones (principe Rictus Erectus), Megan Gale (Valchiria) • Produzione: Kennedy Miller Productions, Village Roadshow Pictures • Souno: Dolby Digital, Datasat, SDDS, Dolby Atmos • Rapporto: 2.35:1 • Macchine da presa: Arri Alexa M (Panavision Primo Lenses), Arri Alexa Plus (Panavision Primo Lenses), Canon EOS 5D Mark II, Olympus P5 • Formato negativo: CF, Codex • Processo fotografico: ARRIRAW 2.8K (source), ProRes 4:2:2 1080p/24 (source), Digital Intermediate 2K (master) • Formato di proiezione: 70 mm (IMAX DMR blow-up), D-Cinema (versione 3D) • Paese: Australia, USA • Anno: 2015 • Durata: 120′

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Ci sono 5 commenti...

  1. Marco67

    ‘Eehhh’!, quanta enfasi! Mah… a che ora è la fine del Mondo? Che rete è? I film servono per far pensare la gente. Ma la gente ancora lo fa? Ancora pensa? L’ottimismo è il profumo della vita che sfiora fra decadimento entropia e morte. Bel tentativo, però, lodevole, comunque ammirevole. Comunque, se può in qualche modo esser di conforto il capitalismo con le sue scelte sregolate e scelerate ci sta portando tutti, o solo quelli che sopravviveranno al prossimo certo olocausto di massa planetario, proprio fra le larghe accoglienti possenti braccia dell’eterno infallibile profetico Karl Marx, questo è un fatto, insindacabile

  2. alessandro

    Ciao giulia, dopo 8 anni leggo questo articolo, c’è tutto l’essere umano qui dentro ,in questo film in queste parole bellissime.

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