«Purtroppo lottiamo in Italia non solamente contro alcune necessità, vere e presunte; ma contro il modernismo rozzo, il gusto della distruzione, la volgarità presuntuosa e volontaria. Vi è chi distrugge il bello per sentirsi meglio e per mettere il mondo in armonia con se medesimo; ognuno ritrova la pace della coscienza come può?»
– Guido Piovene, Viaggio in Italia (1957)
Ho incontrato Pietro Marcello a Lisbona, durante le giornate di Doclisboa dove Bella e perduta era stato selezionato come film d’apertura del festival; era la sua seconda proiezione dopo l’anteprima al Festival di Locarno. Questa conversazione nasce da una chiacchierata davanti a una birra dopo la visione del film e da una telefonata successiva.
Bella e perduta è un film su un pezzo di storia d’Italia, non è un film sulla Reggia di Carditello, sontuosa residenza borbonica nei pressi di Caserta, e non è neanche un racconto del suo custode, Tommaso Cestrone, «l’angelo» di Carditello.
Bella e perduta è molto di più, è un film politico.
Claudio Casazza: Mi piacerebbe iniziare questa conversazione partendo dalla struttura del tuo ultimo film. Bella e perduta è, di fatto, un’opera che ha cambiato la propria natura durante le riprese, a seguito della drammatica scomparsa di Tommaso. Un film che, a un certo punto, si è trovato di fronte all’impossibilità di proseguire nella direzione ipotizzata. Mi interessa capire quali sono stati i cambiamenti che hai dovuto affrontare e, soprattutto, vorrei comprendere qualcosa in più circa il tuo atteggiamento verso tali cambiamenti… Qualcosa circa il metodo attraverso il quale hai affrontato i dilemmi che la realtà ti ha posto di fronte per giungere al termine del film.
Pietro Marcello: In un primo tempo Bella e perduta avrebbe dovuto strutturarsi come un film a episodi sull’Italia. L’idea era quella di lavorare su di un racconto di Guido Piovene. Dopo aver concluso le riprese dell’episodio di Carditello avevamo iniziato a girare un’altra parte del film dedicata a un pastore del Lazio ma, quando Tommaso è morto, abbiamo scelto di restare lì. Lo dovevamo alla sua memoria. È un film non lineare che è cambiato nel tempo. Con la morte di Tommaso mi sono ovviamente posto delle questioni. Non è stato facile, è stato doloroso e drammatico. Il bufalo accudito da Tommaso era rimasto solo, la verità è stata questa, e dovevamo raccontarlo. Ci siamo posti una questione morale se continuare il film o meno e abbiamo deciso di proseguire dalla parte di Sarchiapone, introducendo una fiaba contemporanea.
CC: E con la fiaba è poi entrato in gioco Pulcinella…
PM: Sì, nella tradizione antica Pulcinella è legato agli Etruschi, ai Racconti Atellani, nella tradizione napoletana è colui che accompagna i morti, per questo abbiamo scelto la sua figura. Avevamo bisogno di una sorta di Mercurio per accompagnare Sarchiapone rimasto solo. Pulcinella si toglie la maschera quando sceglie il libero arbitrio, quando esprime un giudizio diventando il pastore giusto, consapevole.
CC: Il tuo film parte da Guido Piovene e dal suo Viaggio in Italia, un libro dentro al quale ho trovato questa frase: «In nessun altro paese sarebbe permesso assalire come da noi, deturpare città e campagne». Lui però fa il viaggio in pieno boom, a metà degli anni ’50, con ancora le macerie della guerra… Cos’hai trovato di attuale nel suo discorso? Siamo rimasti allo stesso punto?
PM: Negli ultimi anni la Reggia è stata depredata, sono stati portati via oggetti di valore, è stata abbandonata. Gli affreschi sono stati deturpati. Questo fa capire che cos’è il nostro Paese. Ora, e per fortuna, la Reggia è stata acquistata dalla Stato ma per un certo lasso di tempo pare che imprenditori vicini alla Camorra fossero interessati al suo acquisto. L’area di Carditello è in una zona di Camorra e Tommaso già da tempo aveva ricevuto minacce. È un territorio che si trova in una morsa, tra quattro discariche, una delle quali tra le più grandi d’Europa. I materiali che avevamo girato sulla terra dei fuochi, in origine, erano molti di più, ma poi abbiamo scelto di utilizzare la realtà come punto di partenza e traslarla in qualcosa d’altro. È una terra in cui sono stati sotterrati materiali tossici ma prima era un luogo dove si coltivava, un’ottima terra che però, con l’illusione della falsa industrializzazione del dopoguerra, è stata abbandonata a favore delle fabbriche.
CC: A che punto della lavorazione è entrato in gioco Piovene?
PM: Piovene l’abbiamo letto prima di iniziare il film, c’è sempre un lavoro propedeutico dietro a un film: letture, interviste, è un attività di documentazione che normalmente compio prima di ogni film. Piovene è stato questo. Per Il passaggio della linea avevo raccolto circa 40 ore di interviste a passeggeri del treno.
CC: Che poi ovviamente non ne è rimasta una, se non quella di Arturo… che poi non è neanche un’intervista…
PM: Certo, è un’elaborazione. È la stessa cosa che ho fatto nella parte finale de La bocca del lupo. Non un’intervista, ma una sorta di confessione che Enzo e Mary decidono di raccontare davanti alla camera. Un film è sempre un processo.
CC: Tommaso vive ai margini, come Enzo de La bocca del lupo, Arturo de Il passaggio della linea e lo stesso Pelesjan. Sono tutte persone che non paiono vivere il proprio tempo, che paiono immerse in altre epoche. Tommaso Cestrone è il segno di un’Italia invisibile, un uomo che rifiuta la logica del profitto e della violenza continua. Anche lui è un uomo senza appartenenza.
PM: Per me Tommaso rappresenta L’uomo in rivolta di Camus: un eroe epico che si ribella. È uno splendido paradosso il fatto che nella terra dei fuochi, a Casal di Principe, un luogo come la Reggia di Carditello fosse accudito da un pastore. Ma forse solo un pastore ignorante, come diceva Tommaso, poteva prendersi cura di un posto così.
Enzo e Mary erano eroi del sottoproletariato, lo stesso Arturo era un ribelle libertario. Di sicuro non sono riuscito mai a raccontare i cattivi. Il cinema è sempre arbitrario: devi scegliere da che parte stare. È sempre così, anche attraverso il montaggio fai delle scelte, ed è per questo che ritengo che non esista alcun cinema del reale. Esiste un cinema della trasposizione del reale.
CC: Sono completamente d’accordo. Bella e perduta racconta di una terra che non esiste più, un po’ come i treni espressi del tuo primo film. La tua filmografia rappresenta quasi una geografia antropologica di Paese che sta scomparendo.
PM: Sicuramente facciamo sempre lo stesso film. Il passaggio della linea era un film sull’Italia e anche questo voleva essere un film che attraversasse il Paese. Ma poi è diventato un’altra cosa, perché c’è sempre la trasposizione filmica.
CC: E meno male.
PM: La scrittura è il montaggio e infatti Maurzio Braucci (sceneggiatore del film), una persona fondamentale per questo film, era sempre al montaggio. Con lui il confronto è stato continuo e immediato, ma soprattutto al montaggio il suo contributo è stato importante, perché è lì che si sviluppa la storia, il film. Lì si mettono insieme i pezzi. Ovviamente si può fare il parallelo con certi film commerciali che sono scritti malissimo, lì la cosa è diversa, puoi girarlo tu o lo giro io ed è sempre uguale. Il cinema è di per sé forma, siamo noi che mettiamo il contenuto attraverso le nostre storie personali, individuali. Il contenuto è anche nella ricerche propedeutiche, c’è un sacco di materiale che è rimasto fuori scena. Ma è utile al film. Sono stati in tanti che mi hanno aiutato a mettere insieme i pezzi, è stata fondamentale anche Sara Fgaier come montatrice e produttrice del film.
CC: Bella e perduta è girato in pellicola, addirittura con pellicola scaduta. Il risultato è visivamente sorprendente, lo sviluppo di gran parte del film è perfetto e i danni alla pellicola sono quasi azzerati, fatta eccezione per le soggettive del bufalo. Perché questa scelta?
PM: Mi piaceva l’idea di girare in pellicola, del resto già il mio primo film fu realizzato con pellicola scaduta. La scelta di girare in 16mm è stata dettata dall’esiguità del budget a disposizione, soprattutto all’inizio di questo progetto. La scelta non è solo motivata da valutazioni estetiche ma c’è sempre stato per me una forte legame tra i paesaggi e il supporto scelto, scade la pellicola e scade anche il paesaggio. Sono scettico sulla concreta possibilità di bonifica di quei territori, ma credo che la terra si possa rigenerare, come l’erba che cresce anche dopo un’eruzione vulcanica, tutto nella natura tende a rigenerarsi. Sono gli uomini che si ammalano.
CC: Vorresti sempre girare in pellicola?
PM: Appartengo alla generazione che ha iniziato a girare in digitale ma poi ha scoperto la pellicola, vorrei sempre girare in pellicola anche se non sono contrario al digitale, non sono un settario, anche un telefonino può essere utile a fare un film, basta saperlo usare.
CC: Sono d’accordo.
PM: La pellicola era importante anche perché il tempo della pellicola è diverso dal tempo del digitale. Sul set bisogna aspettare lo scenografo, la costumista, il parrucchiere e allora aspettiamo anche il tempo della pellicola! Bisogna girare meno, la pellicola finisce prima, poi bisogna fermarsi, cambiare… La pellicola ha tempi diversi. È il tempo del cinema. Nel documentario questo è ancora più complesso. Ma più affascinante. Proprio per questi motivi uno dei registi per me più importanti è Ermanno Olmi, che con il documentario si è fatto le ossa. Penso che chi arriva dal documentario sia abituato agli imprevisti ed abbia una maggiore capacità di adattamento a tutto quel che può accadere durante le riprese.
CC: Oggi secondo te chi segue questo percorso?
PM: Per i motivi detti tra i registi contemporanei quello che apprezzo di più è Matteo Garrone, anche lui cresciuto col documentario. Un regista di finzione fa le scene così come sono scritte… C’è la scena col sole, la scena col buio… Ma se arriva la pioggia che fa? Si ripara. Il documentarista gira lo stesso, è attento all’imprevisto.
CC: Per quanto riguarda lo sviluppo della pellicola, come ti sei comportato?
PM: Per lo sviluppo ho avuto la fortuna di coinvolgere la Cineteca di Bologna che mi ha aiutato nella scansione e ha fatto un ottimo lavoro. Ci sono parti di film che sembrano diverse perché è la pellicola che si usura col tempo, non è mai uguale, questa era pellicola scaduta perciò certamente non c’è sempre uniformità. Ma è sempre così, ad esempio anni fa ho visto una proiezione de Il passaggio della linea in pellicola e il film era cambiato, la pellicola si era usurata col tempo, con più sale, più proiettori, più proiezionisti che l’hanno maltrattata. Il film era cambiato. Questo è il bello della pellicola.
CC: Mi sono segnato una battuta del film che mi ha molto colpito: «Essere bufalo è un’arte».
PM: Essere bufalo è un’arte? Sì, tutto sommato è un bufalo epicureo, un po’ come lo sono i napoletani. Scarpe rotte e pur bisogna andare… Credo che nel cinema bisogna raccontare il vero e infatti il bufalo alla fine va al macello. Resta solo, la sua sofferenza è la sofferenza degli uomini. Questo accade perché il bufalo non è più nella filiera produttiva, non può più neanche riprodursi perché c’è l’inseminazione artificiale, è completamente inutile. In passato era un amico dell’uomo, era importante per i trasporti, per lavorare nei campi. Ora non più.
CC: È un po’ la metafora del lavoro oggi, non si fanno più i lavori fisici nelle campagne ma si fanno lavori apparentemente più concettuali ma che poi in fondo non valgono niente.
PM: È il mondo delle comodità quello di oggi, basta leggere Un volto che ci somiglia di Carlo Levi per capire cosa era l’Italia e cosa erano gli italiani. L’Italia è oggettivamente bella, in passato eravamo contadini o aristocratici. Il nostro paesaggio, il bello, è stato disegnato dall’uomo, dal contadino attraverso il lavoro, infatti per questo motivo definisco questo Bella e perduta un film agricolo. Amo il cinema quando prende posizione, non mi piace il cinema mediano. Per questo parlavo di Olmi prima, ha iniziato coi film sul lavoro, veniva da un mondo contadino, è stato un mio Maestro attraverso il suo cinema, e poi ha prodotto sempre film lontano da Roma, non era facile.
CC: Soprattutto a quell’epoca, si facevano meno film, senza lo sviluppo della tecnologia di oggi che permette a tutti di fare cinema.
PM: Era uno che si guardava intorno per fare film, ha iniziato con i documentari industriali, poi si è spostato alla terra con film incredibili. Forse bisogna tornare a guardarci intorno, interrogarci di più.
CC: Con questo film infatti guardi intorno alla tua terra, sei a casa tua in Campania, ma paradossalmente fai un viaggio in Italia. Ti avvicini per allargare il discorso. Penso a Franco Piavoli ad esempio (Claudio Casazza, l’autore della presente intervista, è co-autore con Luca Ferri di Habitat [Piavoli], documentario del 2014 dedicato al regista lombardo Franco Piavoli; N.d.R.), che girava sempre nel suo fazzoletto di terra ma sapeva essere universale, a volte anche nel giardino di casa, come nel suo frammento di Terra Madre di Olmi. Anche tu in questo film sei vicino a casa ma fai un discorso appunto universale.
PM: È stato anche un modo per riavvicinarmi a quella terra, una terra che ha un’energia, un’atmosfera, era qualcosa che era già lì, in quel territorio. È un interrogarsi su quello che noi facciamo realmente. L’arte per l’arte non è quel che faccio. È interrogarsi sulla necessità del fare, specialmente in questo momento storico, è chiedersi perché faccio questo, a cosa serve? È la necessità che deve spingerci a fare cinema, altrimenti non ha senso. Specialmente oggi, nell’Europa grassa. In Italia abbiamo avuto il Neorealismo, che ha insegnato cinema in tutto il mondo, perché abbiamo avuto una guerra, senza la guerra non avremmo avuto il Neorealismo. Dobbiamo cercare una necessità in quel che facciamo, abbiamo una responsabilità morale di raccontare il nostro presente e dove andiamo.
CC: Non è certo facile.
PM: Probabilmente siamo anche confusi in questo momento storico e dal punto di vista finanziario non siamo certo più fortunati di chi ci ha preceduti. Bella e perduta è un film totalmente indipendente, anche se per la prima volta ho ottenuto un finanziamento pubblico ma rimane un film totalmente indipendente. E si può fare cinema anche così.
CC: Spesso i film più personali e artigianali sono quelli che dicono di più sul contemporaneo. Con questo film ci poni di fronte a un problema politico ma continui a fare un cinema nudo, civico, che deve essere però visto. Credo che questo tipo di cinema debba avere un pubblico con il quale si possa dialogare. Gianfranco Rosi, tuo socio ne l’Avventurosa (società di produzione fondata nel 2009 da Sara Fgaier, Pietro Marcello e Gianfranco Rosi; N.d.R.), con Sacro Gra ha prodotto uno scarto, aprendo una strada per certo cinema documentario, una strada che però difficilmente è priva di ostacoli.
PM: È una domanda che mi fanno sempre. E io penso al cinema delle origini, a certo cinema muto, penso all’espressionismo tedesco che era cinema popolare, veniva proiettato nelle fiere, è lì che il cinema ha raggiunto le vette più alte. Poi è stato inventato il suono e il cinema è stato consegnato alle dittature, poi è scomparso il 4/3 ed è arrivato il CinemaScope e la TV si è appropriata del 4/3. Ora che devo dire, il pubblico, soprattutto il nostro pubblico, è stato educato da trent’anni di televisione di merda. Perché se pensiamo ai primi anni di vita, la televisione italiana ha insegnato la lingua, la storia, è stata didattica, sociologia, morale. È stata una grande televisione che nel tempo hanno distrutto. Chi guarda Canale 5 e Rete 4 non guarderà mai il mio film. Però faccio il film come voglio, mi prendo le mie libertà.
CC: Ti prendi anche i tuoi rischi, l’allegoria è una figura retorica sempre rischiosa al cinema, tu fai parlare il bufalotto ed è più di un rischio. Forse questo è il tuo film più rischioso?
PM: Certamente. Io rischio perché non c’è scritto da nessuna parte che bisogna fare questo per tutta la vita. Se abbiamo qualcosa da dire lo facciamo. Si può fare anche altro nella vita. Bisogna sentire una necessità, giusta o sbagliata che sia, deve esserci una necessità. È un film che spero potrà essere mostrato nelle scuole, è anche un film che parla di ecologia. Ma se penso a cosa è il popolare oggi non so rispondermi. Ai tempi era Aldo Fabrizi, era Totò, che cos’è il popolare oggi? È importante pensarci. Credo che il cinema debba aiutare a riflettere, non bisogna per forza dare risposte. Questo film sarà consegnato alle persone che si fanno domande.
BELLA E PERDUTA
Regia: Pietro Marcello
Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Pietro Marcello
Fotografia: Pietro Marcello, Salvatore Landi
Montaggio: Sara Fgaier
Musiche originali: Marco Messina, Sasha Ricci per Era
Produttori: Sara Fgaier, Pietro Marcello
Produttore delegato: Dario Zonta
Con: Tommaso Cestrone, Sergio Vitolo, Gesuino Pittalis, Elio Germano (voce)
Produzione: Avventurosa con Rai Cinema
In collaborazione con: Mario Gallotti, Istituto Luce Cinecittà e Fondazione Cineteca di Bologna
Film riconosciuto di Interesse Culturale con il sostegno del Mibact – Direzione generale per il cinema
Con il supporto di: Rolex Mentor and Protégé Arts Initiative, Regione Lazio – Fondo Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo, Scam – Bourse Brouillon d’un rêve
In associazione con: BCC di San Marzano di San Giuseppe
Distribuzione: Istituto Luce Cinecittà
Formato di ripresa: 16mm
Anno: 2015
Durata: 87′
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