#OscarSoWhite e noi

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I candidati agli Oscar 2016 (foto: Academy of Motion Picture Arts and Sciences. Scritta aggiunta da National Observer)

#OscarSoWhite e noi

Se la cosa non riguardasse molto da vicino Spike Lee o Halle Berry, probabilmente in Italia non ne avrebbe parlato nessuno. E ancora troppo poco se ne discute, se non in termini di polemiche tra star. Ma #OscarSoWhite ha solo relativamente a che fare con il cinema, e molto più a che fare con razza, genere e ordinari privilegi caucasici.

Tutto ha inizio a metà gennaio 2015, quando la notizia delle nomination agli Oscar fa il giro dei social media: le scelte dei giurati non rispecchiano minimamente i gusti del pubblico, che con l’hashtag #OscarSoWhite lanciato da April Reign sintetizza l’esclusione dei professionisti di colore dall’Academy e da Hollywood. O meglio, la loro riluttanza a considerarli eccellenza, a tutto vantaggio dei bianchi. Nel 2016 peggio che mai: su venti attori in gara, venti bianchi. Si potrebbe obiettare che non è una statuetta a stabilire chi sono i grandi del nostro tempo, e Leo Di Caprio sarebbe senz’altro d’accordo. E poi non è su un’edizione degli Oscar che ha senso concentrare una battaglia da condurre ogni giorno. Come tutti i premi, però, anche gli Oscar possono avere conseguenze decisive per chi li riceve, ed il fatto che i professionisti non-bianchi e le donne siano sottorappresentati proprio in questa fase porta finalmente a riflessioni che era decisamente ora di iniziare. Fino al 2012 non era nemmeno dato sapere chi potesse votare i vincitori, ed è tuttora così se escludiamo alcuni significativi dettagli forniti dai giornalisti del Los Angeles Times. Il votante è nella maggior parte dei casi (94%) bianco e (al 77%) maschio. I neri sono circa il 2% dei membri, altre minoranze ancora meno del 2%. L’età media è di 62 anni. Solo il 14% dei membri ha meno di cinquant’anni.
Si può allora sperare che chi detiene questa forma di potere incoraggi la carriera dei migliori interpreti dell’epoca in cui viviamo, delle sue contraddizioni o delle diverse narrazioni della Storia che ci ha portato fino a qui? Senza proiettarci in considerazioni su quali film ami il sessantaduenne maschio medio magari già pensionato dall’industria che l’ha cresciuto, possiamo senz’altro dire che una simile statistica facilmente corrisponderà una visione parziale della realtà, che non terrà conto di come quella stessa industria possa oggi accogliere una varietà di racconti che sarebbe (lo è) un peccato oscurare. È questo il cinema che va promosso, quando scopriamo che arriva quasi ad estromettere minoranze e donne da spazi di libertà creativa? È questo il cinema che vogliamo?
C’è anche chi non si è quasi accorta di nulla, come Helen Mirren, secondo cui è ingiusto accusare l’Academy, e per la quale Idris Elba avrebbe avuto più possibilità di essere nominato quest’anno se fregasse davvero qualcosa a qualcuno dei bambini soldato al centro del film di cui è protagonista. Spike Lee, Halle Berry, Will Smith e altri hanno annunciato che non andranno alla cerimonia. Chris Rock, cui spetta l’onere di presentare, scriverà un apposito monologo.
Gli Oscar ad attori di colore sono stati ad oggi meno dell’1%. Davvero pensiamo che solo i bianchi possano essere premiati o che debbano continuare ad essere il 99% celebrato, come in un’azienda in cui si è stagisti o precari mentre gli anziani comandano? Vogliamo veder trionfare solo maschi bianchi, raramente a contatto con donne, come Di Caprio in The Revenant? Non fanno forse la differenza attori come Morgan Freeman, Denzel Washington, Halle Berry, Whoopi Goldberg, Forest Whitaker, David Oyelowo, Idris Elba, Michael B. Jordan, Samuel L. Jackson, Viola Davis, Lee Daniels, Jada Pinkett Smith, Jamie Foxx, Mo’Nique, Cuba Gooding, Jr., Angela Basset o Queen Latifah, per fare qualche nome? Vogliamo rinunciare allo sguardo di Ava Duvernay, F. Gary Gray e Ryan Coogler? Vogliamo ignorare gli asiatici, o i latinos, meno presenti in questa corsa, semplicemente perché come sostiene Gina Rodriguez non si supportano ugualmente gli uni con gli altri? Vogliamo lasciare che le donne continuino ad avere meno possibilità degli uomini di arrivare a dirigere un lungometraggio, nonostante (lo dice anche l’ultimo rapporto EWA su sette paesi europei) quando le loro opere arrivano ai festival si avvicinino statisticamente di più alla vittoria? Lupita Nyong’o, miglior non-protagonista per 12 anni schiavo, ha chiarito: gli Oscar “non dovrebbero scrivere le regole dell’arte nella nostra società. Sono dalla parte dei miei colleghi che vogliono raccontare altre storie e che vogliono riconoscimenti per chi lo fa”. Ancora non si capisce perché l’elenco dei votanti sia secretato. L’Academy farebbe meglio a pubblicarlo e ammettere che tra i suoi componenti ci sono persone ormai lontane dall’industria, che conoscono al massimo il mondo della televisione, ugualmente in fase di trasformazione, e dove in alcuni casi si adotta il color-blind casting. (Shonda Rhymes, produttrice di serie cult quali Grey’s Anatomy e Scandal ne è una sostenitrice. Ritirando il Norman Lear Award for Achievement in Television ha dichiarato: “So di meritarlo.”) L’imbarazzo dev’essere notevole – è auspicabile che lo sia – per la presidente Cheryl Boone Isaacs, che stremata dal clamore della vicenda ha annunciato tre nuovi seggi e nuove non precisate regole che possano favorire la diversity. L’ha scritto su Twitter seguendo il trend topic, ma questo non è bastato per suggerire a Repubblica di fare una rapida verifica su chi fosse the President: il maschilismo è tale che è Isaacs è stata descritta come uomo. La sua tardiva rassicurazione, comunque, ha suscitato un dibattito capace di raggiungere vette che sembravano avvicinabili solo in Italia durante i mondiali di calcio, quando tutti diventano un po’ allenatori. Perché in anni in cui il razzismo istituzionale ha ucciso soprattutto ragazzi neri questa questione va ben oltre le lettere giganti di Mount Lee. Chi conosce abbastanza Isaacs è Spike Lee, il quale accettando un Governor Award lo scorso novembre ha fatto la cosa giusta, rimandando al paese che non ha mai smesso di discriminare (e torturare, incarcerare, uccidere) soprattutto gli afroamericani come sia diventato “più facile per un nero diventare presidente degli Stati Uniti che direttore di un network televisivo”. Il video del suo discorso è uno dei momenti da salvare dell’intera vicenda, come pure l’omaggio che nella stessa serata gli hanno tributato Denzel Washington, Samuel L. Jackson e Wesley Snipes, ricordando che nessuno più di lui ha condiviso i successi con altri, dando lavoro a tanti afroamericani per cui oggi è a pieno titolo un’icona. Anche tra i bianchi parecchi hanno ammesso di capire le ragioni del boicottaggio lanciato con l’hashtag, pur senza arrivare come Meryl Streep a sentenziare “Siamo tutti africani”.
Agli Oscar come ovunque non si tratta di creare un sistema di quote per imporre un’inversione di tendenza. Si tratta piuttosto di assicurare che una larga fetta di popolazione non rimanga, nei fatti, esclusa. Si tratta di non limitarsi a dei “contentini”, come sembra essere la seconda conduzione di Chris Rock. Se camminando per strada o entrando in un bar incontriamo persone dalle origini più diverse, perché forzare il cinema ad essere così bianco e maschio, non del tutto connesso con la realtà? Le poche attrici nere nominate hanno interpretato in totale: una schiava, due cameriere, due madri abusanti, una sensitiva. È realistico? E non va meglio nel cinema europeo. Ma qualcosa forse sta cambiando, quantomeno negli Stati Uniti. Ava Duvernay, regista di Selma, è intervenuta infinite volte in merito ed è così ormai così pop che una Barbie con le sue sembianze è andata sold out in pochi minuti. Kathryn Bigelow rappresenta un altro caso di studio. Omaggiata ovunque, è anche una delle poche donne pagate per dirigere scene di guerra in grandi produzioni. Ma entrambe sono, almeno per ora, minoranza. Un altro tema molto dibattuto e affine è quello del gender pay gap, mai così al centro dei discorsi delle donne di cinema come nell’anno da poco trascorso, quello che Jennifer Lawrence, la più pagata di tutte, ricorderà come l’anno in cui scoprì (da quel Sonyleaks tradizionalmente attribuito alla Corea) che il suo partner sul set guadagnava una cifra infinitamente più alta. Le donne registe da anni raccontano queste differenze, ma è più facilmente durante le interviste alle protagoniste dei loro film che la questione viene a galla. Come quando nel corso della conferenza stampa di Suffragette Meryl Streep ha ribadito che soffre di sessismo anche la critica cinematografica, ottenendo la pronta risposta di Chaz Ebert, alla guida del sito Rotten Tomatoes dopo la scomparsa dell’ex marito Roger Ebert, una leggenda nel suo ambiente.
A farne nel complesso una questione di rappresentatività sono anche i fan di Anna May Wong, straordinaria attrice, la prima con tratti asiatici ad ottenere fama internazionale. Wong si scontrò con leggi che possiamo tranquillamente definire razziali: non poteva ad esempio baciare partner bianchi, perdendo così diversi ruoli da protagonista. Sulla sua storia anche politica si sta preparando un biopic. Wong era americana e non parlava certo con un accento straniero, mentre Fan Bingbing, scelta per intepretarla, è cinese e non ha nulla che la ricordi davvero. E così Wong non ha pace nemmeno da morta. Difficile tirare le somme o decidere di non tifare per nessuno questa domenica. Di certo le questioni legate a razza e sesso anche nel mondo del cinema sono adesso sotto gli occhi di tutti.

Chiara Zanini



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