Festival dei Popoli
Festival internazionale del film documentario
Firenze, 25 novembre – 2 dicembre 2016
Il report
a cura di Giorgio Lisciandrello
La 57a edizione del Festival dei Popoli di Firenze appena conclusa, oltre che per i documentari e gli ospiti da tutto il mondo che lo hanno animato, quest’anno verrà ricordata anche per essere la prima svoltasi a “La Compagnia”, nuova e scintillante sede dei festival fiorentini dei “50 giorni di cinema”. Un’operazione di recupero di un vecchio teatro della città nella centralissima Via Cavour a due passi dal Duomo che, chiuso un po’ di anni fa in seguito a varie vicende burocratiche, è rimasto in questi anni fortemente radicato nella memoria collettiva tanto da diventare nei giorni del festival luogo di visita da parte di spettatori col naso rivolto all’insù, a ricordare “quando da bambini si andava con mamma e papà”. Una iniziativa culturale di ampio respiro che consegna alla città la sua casa del cinema.
Quest’anno, come d’altronde ogni anno, molte le tracce disseminate nella ricca (seppur ridotta a causa di tagli ai finanziamenti pubblici) programmazione del festival: la varietà di opere sui diversi temi ha insistito sulle vicende più stringenti dei nostri tempi creando un filo rosso che porta avanti un’analisi sfaccettata e su molteplici posizioni. Molte le opere che guardano alla questione delle migrazioni e delle sue conseguenze con sguardo ravvicinato e diretto: in Les corps interdits di Jeremy Reichenbach, le voci degli uomini che vivono una condizione da loro stessi definita da “animali” nella “giungla” di Calais, paiono arrivare da un luogo che non ci riguarda. Posti lontani di cui avvertiamo solo l’eco ma le cui vicende si marcano con violenza nei corpi di chi è costretto ad attraversarli: sul corpo di Osman, il protagonista del film vincitore del concorso di cortometraggi, Remains from the desert di Sebastian Mez, nelle vite degli uomini di Between Fences di Avi Mograbi che da 7 anni vivono dentro i recinti delle prigioni israeliane senza ricevere alcun riconoscimento di rifugiati politici e senza la possibilità di tornare al proprio paese.
Les corps interdits, Jeremy Reichenbach
Basta però allargare un po’ lo sguardo per accorgerci che le vicende di quei posti lontani ci riguardano più di quanto pensiamo: in Swagger di Olivier Babinet, il regista segue i ragazzi di una scuola delle banlieue parigine e ci racconta dei figli di chi anni fa raggiunse la Francia da diverse parti del mondo. Lo fa utilizzando un linguaggio congeniale a una comunicazione immediata con gli studenti, non preoccupandosi di servirsi alle volte di uno stile un po’ troppo facile e convenzionale. L’immagine che viene fuori è quella di ragazzi un po’ sospesi, troppo lontani dai paesi di origine dei propri genitori per sentirsi parte di quella storia, nonostante le evidenti tracce culturali che portano su di loro, e allo stesso tempo troppo lontani dai loro coetanei francesi (l’incontro con loro è considerato una specie di evento) per sentirsi appartenenti alla Francia, nonostante qualcuno di loro sogni di diventare Presidente della Repubblica. Infine, pellicole come Abigail di Isabel Penoni e Valentina Homem o Fotograma di Luís Henrique Leal e Caio Zatti, entrambe di giovani registi brasiliani, spingono lo sguardo ancora più in là, verso l’analisi dei fenomeni migratori oltre la facile superficie di un’accoglienza dovuta e che ci ricordano le responsabilità dell’Europa e delle sue violente colonizzazioni.
In più di mezzo secolo di vita il festival ha sempre guardato con molto interesse ai documentari sulla musica e, considerando i “sold out” registrati al festival per le proiezioni di lavori sulle stelle del rock, pare proprio che questo sia un altro degli elementi che rivelano il rapporto sentimentale tra il festival e il suo pubblico: David Bowie, l’homme cent visages ou le fantôme d’Hérouville di Christophe Conte e Gaëtan Chataignier, produzione televisiva francese testimonia la ricca varietà di tipologie di documentari; Eat That Question: Frank Zappa in His Own Words è stato presentato in sala dal regista tedesco Thorsten Schütte che ha portato in sala un vecchio catalogo del Festival dei Popoli ricordando il suo periodo di studi a Firenze e dell’importanza che il festival ha avuto nella sua formazione da documentarista; The Rolling Stones Olé Olé Olé!: A Trip Across Latin America di Paul Dugdale racconta il tour sudamericano del gruppo londinese in un crescendo verso la tappa finale cubana in cui esplode tutta la potenza della loro musica.
A proposito di documentari musicali e di stelle del rock, un’interessante proiezione di questo festival è stata il documentario su Gilberto Gil, Gilberto Gil, un ministro en directo di Sergio Oksman, vincitore del concorso dello scorso anno con il lungometraggio O Futebol, a cui quest’anno il festival ha dedicato un omaggio proiettando gran parte dei suoi lavori. Oksman, presente a Firenze durante i giorni del festival, ha mostrato i suoi film a un pubblico incuriosito dalle tante storie raccontate dai suoi documentari, opere in cui si manifesta una grande capacità di esprimere le suggestioni e le coincidenze delle vite che si intrecciano ai grandi eventi. Il regista brasiliano coniuga la storia, quella con la S maiuscola, con le storie e le testimonianze dei personaggi persi nella mischia ma comunque presenti e centrati rispetto agli eventi: ce lo mostra in La Esteticien dove Emmy, un’anziana donna ungherese che lavora ormai in Brasile come estetista e che, sopravvissuta ad Auschwitz, racconta la sua tragedia tra una cliente e l’altra. O in Goodbye America attraverso la testimonianza di Al Lewis, il Grandpa di The Munster, popolarissima serie televisiva arrivata in Italia con il nome I Mostri, che racconta la storia degli Stati Uniti dalle interrogazioni parlamentari del senatore McCarthy fino all’11 settembre, riportando il vivo ricordo delle vicende che hanno attraversato la sua vita e quella degli Stati Uniti.
You have no idea how much I love you, Paweł Łoziński
L’altro importante omaggio di questa edizione è dedicato alla regista libanese Danielle Arbid: una serie di pellicole che raccontano la vita della cineasta e quelle del suo Paese, una perenne tensione amorosa verso il Libano, verso la necessità di comprenderlo più a fondo possibile, interrogandosi e interrogando. Seule avec la guerre è uno splendido esempio della spontaneità della Arbid che, accompagnata dal suo operatore, torna nei luoghi della guerra civile del Libano per avere ulteriore conferma del bisogno di rimozione della gente di una vicenda le cui ferite, non solo quelle immateriali, sono ancora davanti agli occhi di tutti. “Non fuggo dal passato ma dal presente. Dal male che c’è ancora dentro di noi. Come fanno i giovani a vivere in pace? La guerra c’è stata. E so per certo di non averla sognata.”, nella loro semplicità, le parole che chiudono il film raccontano profondamente della poetica della regista, questa capacità di andare dritto alla questione in maniera efficace. Come in This Smell of Sex, intervista a dei giovani libanesi che, nell’anonimato di una conversazione al buio, raccontano a ruota libera e senza giri di parole, le loro vite sessuali promiscue, le loro fantasie che mai potrebbero esternare alla luce del sole. Quasi all’opposto si pongono invece le conversazioni in salotto, Conversations de salon, delle amiche della madre della regista che, in modo più aperto quindi più misurato, rivelano comunque una parte della società libanese sulle questioni delle famiglie, della guerra, di Dio, dei mariti, anche nei non detti, nei gesti e nelle frasi a metà.
Depth Two, Ognjen Glavonić
Per la sezione competitiva di mediometraggi, la giuria internazionale ha premiato Dum Spiro Spero dello scrittore e regista croato Pero Kvesić, una soggettiva continua nella quale l’affannato autore racconta della sua malattia e della sua quotidianità con uno stile che ricorda una scrittura a penna di una pagina di diario, un avvicinamento alla morte pieno di ironia e sarcasmo che rivela un fortissimo attaccamento alla vita. Il vincitore del concorso dei lungometraggi è il film del serbo Ognjen Glavonić, Depth Two, un’intensa ricostruzione di un tragico evento della guerra in Jugoslavia in cui 55 civili albanesi furono brutalmente uccisi dalla polizia serba. Una segnalazione merita inoltre You have no idea how much I love you del regista polacco Paweł Łoziński che mette in scena una seduta psicoterapeutica in cui madre e figlia si confrontano sulle loro difficoltà di comunicare i propri sentimenti. Apparentemente sembrerebbe un film abbastanza ordinario, quasi solo un’osservazione , in verità una rivelazione finale (che ovviamente non sveleremo) dà al film un senso spiazzante trasformando l’opera in una riflessione sul cinema e sulla rappresentazione della realtà.
Giorgio Lisciandrello
Festival dei Popoli
Festival internazionale del film documentario
Firenze, 25 novembre – 2 dicembre 2016
www.festivaldeipopoli.org