Luigi Cozzi

Il tunnel sotto il mondo

Verso il 1965, durante la mia attività fantascientifica letteraria, sono diventato amico dello scrittore americano Frederik Pohl, uno dei quattro autori di fantascienza più celebri del mondo. Così, intorno al 1968, ho pensato di chiedergli se mi regalava i diritti del suo racconto più polemico e famoso, che si intitolava, appunto, The Tunnel Under the World, uscito per la prima volta nel 1955.
Lui ha accettato e così mi sono messo al lavoro con Alfredo Castelli– oggi direttore della Sergio Bonelli e creatore del fumetto Martin Mystere –, che all’epoca era un giovane autore di soggetti per le storie di Diabolik. Insieme abbiamo scritto la sceneggiatura de Il tunnel sotto il mondo e io ho cominciato a cercare qualcuno che producesse il film. Siccome non l’ho trovato, alla fine, con Castelli, m’è venuta l’idea di autoprodurlo. L’abbiamo fatto, girandolo tutto a Milano in soli quattro giorni, poi il film è stato preso e proiettato al Festival del Film di Fantascienza di Trieste, nel 1969, mi pare. A quel punto sui giornali sono uscite recensioni abbastanza positive e così il circuito delle sale d’essai alternative italiane (Filmstudio, etc.) ha preso il film, che è stato quindi proiettato per qualche anno in quei cinema. Poi il film è quasi scomparso, ma adesso in Francia ne hanno fatto una bella edizione in DVD. Il tunnel sotto il mondo era molto all’avanguardia anche alla fine degli anni ’70, perché in pratica The Truman Show, il celebre film di Peter Weir, è uguale al famoso racconto di Pohl. Allora, negli anni ’70, in Italia si capivano poco le tematiche sulla pubblicità ossessiva descritta da Pohl e sull’invadenza della televisione, tutte cose che qui allora non esistevano e neanche ce le immaginavamo. E così paradossalmente oggi la gente capisce molto di più di quello che dico in Il tunnel sotto il mondo.

Dario Argento secondo Cozzi

Quando ho finito il servizio militare e mi sono trasferito a Roma, ho cominciato a lavorare fisso come redattore della rivista musicale Ciao 2001, allora la più venduta del genere in Italia. Nel frattempo ho continuato a coltivare l’amicizia con Mario Bava, Riccardo Freda e Antonio Margheriti, amicizia che avevo stabilito intervistandoli. Tutti e tre a un certo punto del 1970 mi hanno chiesto di scrivere il soggetto di un film per loro, e Margheriti era persino disposto a farmene dirigere uno. Poi ho visto al cinema L’uccello dalle piume di cristallo e l’ho trovato un film straordinario. Mi sono così attivato grazie alle conoscenze di Ciao 2001 per conoscere il regista e per fargli un’intervista. Ho conosciuto Dario Argento, quando lui aveva 29 anni ed era un giovane trascinante, pieno di entusiasmi, di slanci, insomma era un personaggio straordinario. Sono entrato in amicizia con lui, andavamo insieme tutte le sere al cinema, ci vedevamo in continuazione, parlavamo di cinema, tutto era una scoperta allora.

Luigi Cozzi e il soggetto di 4 mosche di velluto grigio

Un giorno Dario m’ha detto che mi voleva come sceneggiatore del suo nuovo film, così ci siamo messi a lavorare insieme al soggetto di 4 mosche di velluto grigio, del quale lui aveva in mente il titolo e basta. Intanto stava anche girando il suo secondo film, Il gatto a nove code: al distributore quel suo film non piaceva e sembrava che la carriera di Dario fosse a rischio, ma invece, quando finalmente Il gatto a nove code uscì nelle sale, fu un successo clamoroso e lui di colpo diventò un regista famoso e ricercatissimo. Ed io ero il co-autore del suo prossimo film. Infatti a quel punto il soggetto di 4 mosche di velluto grigio era finalmente terminato. Il padre di Dario, che era il produttore, l’ha messo all’asta e le offerte sono fioccate da tutti i distributori italiani. Quando si è trattato di iniziare la preparazione del film, Dario, che sapeva quanto io volessi fare a mia volta il regista, m’ha detto: «Luigi, perché non fai l’aiuto? Nessuno meglio di te conosce questo film, visto che l’abbiamo scritto insieme». Ripensandoci, posso dire che è stata un’esperienza meravigliosa, ancora la ricordo con nostalgia e piacere infinito.

La porta sul buio

La porta sul buio

Dopo l’inaspettato successo di 4 mosche di velluto grigio, la Rai ha proposto a Dario di fare la serie La porta sul buio. Lui m’ha subito proposto di girare da regista un episodio e così è stato. Ho fatto prima l’aiuto sull’episodio diretto da lui, Il tram, poi ho girato il mio segmento, Il vicino di casa, e Dario ha fatto da aiuto a me (!). Infine abbiamo scritto insieme il terzo episodio, Testimone oculare, che è stato diretto da lui, mentre invece il quarto la Rai ha voluto farlo dirigere da un loro dipendente, Mario Foglietti. Anche quella de La porta sul buio è stata un’esperienza bellissima. Ma erano tempi diversi da quelli di oggi. Eravamo giovani, pieni di entusiasmo e di voglia di fare, di sfondare, di andare oltre. Il cinema italiano era tutto un proliferare di attività, si facevano film in continuazione, di tutti i tipi: un’età meravigliosa, forse appunto perché, come ho detto, allora eravamo giovani.

La sceneggiatura e la lavorazione de Le cinque giornate

Le cinque giornate è nato perché, prima ancora che uscisse Il gatto a nove code, il distributore Goffredo Lombardo della Titanus aveva dato in appalto a Dario e a Salvatore Argento la realizzazione del film comico Er più con Celentano. Gli Argento hanno fatto il film guadagnandoci sopra qualcosa, ma poi Er più è uscito e ha realizzato incassi strepitosi, una montagna di soldi che però spettavano tutti a Lombardo. Tagliati fuori da quella montagna d’oro, Dario e suo padre hanno allora deciso di realizzare un altro film di quel tipo, questa volta producendolo tutto loro. Dario ha tirato fuori dal cassetto un altro copione comico di quel tipo ambientato nella Roma papalina dell’800. In quel periodo però c’era appena stato l’enorme successo televisivo dello sceneggiato storico sulle cinque giornate di Milano ed io, essendo milanese, ho fatto molte pressioni su Dario, finché l’ho convinto ad ambientare a Milano la sua storia dell’800. Così è nato il progetto de Le cinque giornate, un film comico-storico di cui Dario e Salvatore intendevano essere soltanto i produttori. Il protagonista doveva essere Ugo Tognazzi e il regista scelto era stato Nanni Loy perché aveva già fatto Le quattro giornate di Napoli. Con cast e regia assegnati, io e Dario siamo andati a Milano a fare ricerche in biblioteca e sui posti per scrivere il film. Ho insistito affinché venisse con noi Enzo Ungari che voleva diventare uno sceneggiatore. Convinto Dario a prendere anche Enzo, ci siamo trasferiti tutti per un paio di mesi a Milano per scrivere il film, che, tra l’altro, era ispirato soprattutto ai film comici di Buster Keaton. Scritto il film, bisognava attendere che Tognazzi fosse libero per interpretarlo. Ma allora Tognazzi era l’attore più richiesto in Italia e non era mai libero. È passato un anno e a quel punto Nanni Loy si è stufato di aspettare e ha rotto il contratto. Allora Salvatore ha convinto Dario a farla lui la regia. Dapprima Dario non ha voluto, poi ha ceduto. Ma Tognazzi era sempre impegnato e allora si è cominciato a pensare a qualche altro attore, ma serviva comunque un grande comico. È così che alla fine è saltato fuori il nome di Celentano, perché tra l’altro era stato lui il protagonista di Er più e gli Argento speravano proprio di bissare quel successo.

L'assassino è costretto a uccidere ancora

L’assassino è costretto ad uccidere ancora

L’assassino è costretto a uccidere ancora, che originariamente si intitolava Il ragno, è nato con dei produttori che avevano acquistato il romanzo di Giorgio Scerbanenco “Al mare con la ragazza”, nel quale si narrano le disavventure di una coppia di giovani teppistelli che rubano un’auto senza sapere che nel bagagliaio della vettura c’è il cadavere di una donna. Io sono partito sviluppando la storia da quello spunto e poi reinventandola tutta di sana pianta con l’aiuto di Daniele Del Giudice. I produttori volevano il solito film alla Argento ma non mi andava di fare ancora una storia con l’assassino misterioso con i guanti di pelle: ne ero stufo. Così in pratica ho dato ai produttori quello che volevano loro, ma solo apparentemente. Ho infatti smontato tutto il giocattolo e poi l’ho rimontato a modo mio. Per andare controcorrente, sono partito da questo concetto: voglio far vedere sin dalla prima inqua-dratura del film che faccia ha l’assassino, perché si può creare la tensione anche se si sa già chi è il killer. E così io e Del Giudice abbiamo costruito l’intera storia partendo da questa premessa, prendendo spunto di sicuro da Hitchcock, tanto da Delitto per delitto che da Il delitto perfetto. Poi ci ho ricostruito dentro, con più sesso, la vicenda del villino isolato e della coppia sola con l’assassino che già avevo sviluppato nel mio episodio de La porta sul buio. Quindi il mio film è un omaggio ad Argento, sì, ma facendo vedere però che si possono fare dei bei film gialli anche se si sa subito fin dall’inizio chi è l’assassino. E poi c’è sempre molto humor macabro: insomma, l’assassino della pellicola è un killer spietato, ma è anche un coglione che commette il crimine perfetto ma poi si fa fregare come un babbeo la macchina con il cadavere da due spiantati qualsiasi. Queste sono mie caratteristiche ricorrenti: fare film di genere ma al tempo stesso in controtendenza con il genere, e in più metterci dentro una buona dose di humor e di autoironia.
L’assassino è costretto ad uccidere ancora sintetizza bene queste due mie usuali componenti.

Sulla censura

Oggi in pratica non esiste censura ma negli anni ’70 e ’80 invece sì. E spesso la censura è stata un problema, talvolta imprevedibile. Ad esempio l’episodio diretto da Dario de La porta sul buio ha avuto qualche problema: il direttore di Raiuno, Salvi, ha fatto togliere il coltello impugnato nel finale dall’assassino perché secondo lui era un simbolo fallico e così Dario l’ha sostituito con un uncino. Un uncino secondo noi era molto peggio, molto più orripilante, ma per Salvi no, perché secondo lui l’uncino non simboleggiava niente. Altro esempio: il mio lungometraggio Il ragno è stato presentato in censura e fu bocciato, per questo abbiamo dovuto cambiare il titolo in L’assassino è costretto ad uccidere ancora, quasi che fosse stato un altro film, dato che era l’unica soluzione per poterlo presentare di nuovo. In questo secondo tentativo il film finalmente è passato, ma è stato massacrato: la censura ha imposto il massimo divieto possibile e ha ordinato il taglio di gran parte delle scene con l’uccisione della Benussi e della scopata incrociata tra l’assassino che violenta la ragazza e il suo ragazzo che fa l’amore con la turista bionda. Vale a dire, hanno tolto il clou, il meglio del film. Fare horror e violenza non è stato facile in quegli anni, lo splatter non era
ancora arrivato o, per lo meno, non era stato ancora accettato. Oggi invece i telegiornali alle otto di sera ti sbattono in faccia morti ammazzati, gente squartata, persone fatte a pezzi come se niente fosse.

La portiera nuda

Sul finire del 1973 ho girato Il ragno, che verso il dicembre del 1974 non era ancora uscito perché, come ho detto prima, la censura l’aveva bocciato in quanto eccessivamente violento e amorale. Ho cominciato a temere che la mia carriera di regista, appena iniziata, fosse già in bilico. Allora ho conosciuto un produttore importante, al quale ho proposto un progetto di fantascienza. Lui ha rifiutato la mia idea perché troppo costosa però mi ha detto che aveva appena acquisito un’opzione sui diritti di un romanzo classico del genere, “Gli strani suicidi di Bartlesville” di Fredric Brown, e ha aggiunto che me ne avrebbe affidato sia la sceneggiatura sia la regia se io prima avessi dimostrato la mia bravura girandogli bene un piccolo film erotico che lui aveva in programma subito. Io ovviamente ho accettato. Anche qui ho smontato il genere, trasformando quel progetto erotico in una specie di commedia un po’ fantasy di tono abbastanza leggero e per niente volgare (malgrado il titolo imposto). Il produttore è stato contento del risultato ma non mi ha affidato “Gli strani suicidi di Bartlesville” perché quel progetto intanto si era arenato. Così La portiera nuda è rimasto come il secondo film della mia carriera e ora sapete perché l’ho girato.

Dedicato a una stella

Avevo deciso di reallizare Dedicato a una stella perché volevo riuscire a lavorare con Ovidio Assonitis, che era l’unico in Italia in quel periodo a fare film per il mercato americano e quindi speravo di arrivare a fare fantascienza con lui. Ci siamo conosciuti e, a un certo punto, saputo che facevo anche il regista, mi ha offerto di scrivere un soggetto, quello che poi sarebbe diventato Dedicato a una stella. E così è nata la nostra collaborazione, alla quale io tenevo molto perché speravo poi di realizzare con lui qualcosa di fantastico oppure che lui mi invitasse a collaborare (ci avrei tenuto tanto!) al suo Tentacoli. Ovidio Assonitis aveva appena prodotto con enorme successo L’ultima neve di primavera prodotto dalla Toho, che gli offrì subito dopo una grossa somma per un nuovo film di quel genere e, siccome in quel periodo Ovidio era troppo preso con la preparazione di Tentacoli, ha chiesto a me di occuparmi di questo nuovo film e me ne ha dato il soggetto: un’aspirante cantante d’opera giapponese va Perugia per affinarsi nel canto. Lì s’innamora di un
ragazzo ma poi si ammala e vuole morire con indosso l’abito da sposa che lui le aveva regalato in previsione delle nozze. Questo era il film che Ovidio voleva che facessi, ma a me faceva quasi schifo e poi di una giapponese in Italia non poteva fregarmene di meno. Così gli ho controproposto un altro soggetto ambientato in Francia sulle selvagge coste della Bretagna e della Normandia: la storia di una fanciulla che è malata e sa di dover morire e per questo va alla ricerca del padre che non ha mai conosciuto. Durante questa ricerca conosce un celebre pianista che ha mollato la carriera per una fortissima delusione d’amore. La ragazza s’innamora del pianista e con la sua enorme gioia di vivere, lei che sa di dover presto morire, lo spinge a riprendere la carriera, a ricominciare tutto da capo. A Ovidio è piaciuta la mia versione della sua storia, l’ha fatta leggere alla Toho e loro hanno dato l’ok. E così è nato
Dedicato a una stella (anche il titolo è mio). Di solito Ovidio interferisce tantissimo nella lavorazione dei film che produce, ma in questo caso mi ha lasciato la massima libertà perché lui era tutto preso dal suo progetto di Tentacoli, che era il kolossal, mentre il mio doveva essere solo un piccolo film da poco. Invece alla fine Dedicato a una stella è diventato primo negli incassi in Italia e in Giappone, mentre Tentacoli è stato un fiasco. La lavorazione di Dedicato a una stella è stata semplice, ci sono stati problemi solo con il protagonista, Richard Johnson, il quale non voleva il finale con la morte della ragazza perché così lei gli avrebbe rubato la scena. Se non è finita a cazzotti con lui, poco c’è mancato, ma alla fine il film è venuto proprio come lo volevo io.

Luigi Cozzi e la musica dei suoi film

Da sempre appassionato della musica come sono, ho curato sempre tantissimo le colonne sonore dei miei film. Per esempio, quando montavo, inserivo già i pezzi delle colonne sonore più o meno come li volevo, prendendoli dai dischi LP delle colonne sonore di centinaia di film che avevo. Così i maestri con i quali lavoravo sapevano bene che tipo di melodia volevo per quella o per quell’altra scena e si adattavano. Proprio per questo ho litigato per due volte con Ennio Morricone, che è un grande ma non accetta imposizioni di questo tipo. Morricone doveva fare la musica sia per Hercules che per Starcrash, ma tutte e due le volte, sentendo le musiche che ci avevo messo io (pezzi di Bernard Hermann tolti soprattutto dai film di Harryhausen), si è irritato e ha detto che allora preferiva non comporre le musiche per me perché voleva essere libero di seguire solo la sua ispirazione e basta. Certo, io capisco il suo punto di vista ma da regista autore quale mi reputo, non lo condivido per niente: ogni mio film è mio e solo mio, e se il maestro non si adegua a metterci dei pezzi come li voglio io, può pure andarsene. Comunque, parlando più specificamente di alcuni dei compositori con i quali ho lavorato realmente e bene, con Donaggio ho avuto un ottimo rapporto,
così come lo ho avuto con Vince Tempera o con Stelvio Cipriani. Di John Barry invece posso solo dire che è stato molto bello collaborare con un compositore così famoso e, tra l’altro, le melodie che ha composto per
Starcrash lui poi le ha arrangiate in maniera più lenta e ci ha tirato fuori le musiche de La mia Africa, con le quali ha vinto un Premio Oscar.

Starcrash

Scontri stellari oltre la terza dimensione

Starcrash è un film che ho fatto con enorme amore e grandissima fatica, ma che mi ha anche dato delle belle soddisfazioni: ci sono ancora oggi in giro per il mondo dei siti fatti dai fan di questa pellicola. L’ho iniziato a scrivere nel maggio del 1977 e l’ho missato nell’ottobre del 1978. Il film poi è uscito sia in America sia in Italia nel gennaio del 1979. Volevo fare un film di fantascienza diverso da tutti quelli fatti in Italia fino a quel momento, volevo fare un film di fantascienza come a mio parere bisognava farli, e cioè con trucchi ed effetti ottici in quantità, in contrapposizione alle idee di Margheriti e dei produttori nostrani che invece preferivano fare tutto dal vero in teatro, con cavi e fili. Quindi ho fatto un film unico fino a quel momento, e devo dire anche che da allora in poi nessuno più qui in Italia ha realizzato una pellicola simile, con altrettanti effetti ottici. Di recente mi hanno invitato per una proiezione di Starcrash alla Cineteca Melies di Parigi e lì mi hanno fatto notare che questo mio film finora (e ormai siamo nel 2008) è l’unica grande space-opera realizzata nell’intera Europa. Sempre in Francia hanno invitato a una doppia proiezione speciale me ed Irvin Kershner, regista de L’impero colpisce ancora, affermando che la pellicola di Kershner è il più grande film spaziale a grosso budget di sempre, mentre Starcrash è il più grande film spaziale a budget medio di sempre: davvero un bel complimento per me. Il quotidiano inglese The guardian ha poi dedicato mezza pagina a un servizio su di me qualche anno fa, in occasione dell’uscita del primo episodio della nuova serie dei film dedicati a Guerre stellari, scrivendo che Lucas avrebbe dovuto lasciar girare quel suo film a me, perché Starcrash è ancora oggi un’opera estremamente piacevole da vedere, mentre Star wars: episodio I – La minaccia fantasma non ha né capo né coda.
Quando è nato Starcrashera appena iniziato il boom di Guerre stellari e il mio produttore non faceva altro che ripetermi: «Devi fare un film come Star Wars, dev’essere tutto uguale a quel film lì». Però io sapevo che mai e poi mai avrei potuto fare un film tipo quello di Lucas (che a me è piaciuto moltissimo) perché non c’erano i soldi e soprattutto non c’era il tempo per realizzare un’opera simile. Allora ho volutamente inteso fare un film espressionistico, dove per “espressionistico” intendo soprattutto l’uso del colore. Ho infatti usato il colore come mezzo per stupire. In più, per accentuare questa componente fiabesca, ho caricato volutamente tutta la parte fantastica e surreale, con un bel po’ di autoironia qua e là (Stella Star che si congela e diventa rigida come uno stoccafisso surgelato, per esempio). In pratica non ho voluto certo realizzare una variazione sul genere di Star Wars, bensì un’opera fantastica che io definivo come il mio Sinbad va su Marte, cioè un fantasy da “mille e una notte” pura; non nello stile di George Lucas, bensì in quello di Ray Harryhausen. In più nella storia ho messo il ritmo dei pulp letterari di fantascienza degli anni ’40 e ho preso tante situazioni dai vari romanzi di fantascienza d’azione letti in gioventù ea nche moltissime tratte dai fumetti. Credo di essere riuscito a confezionare un film autonomo, che ha ben poco in comune con Star wars, e che proprio per questo è piaciuto a tanta gente e a molti continua a piacere ancora oggi.

Contamination

Contamination – Alien arriva sulla terra

Contamination è l’ennesima prova di come offrivo ai produttori quello che loro volevano vedersi offrire, ma poi quando si trattava di lavorare sulla storia e sul film facevo quello che più andava a me. Contamination è nato con un manifesto e un titolo eclatanti per pescare all’amo un produttore (il mio titolo era solamente Alien arriva sulla Terra), più l’idea delle uova (e ovviamente tutti hanno pensato alle uova di Alien). Poi però la somiglianza con il film di Ridley Scott finisce qui: se c’è un mio film dedicato al cinema degli anni ’50, quello è appunto Contamination. Mi spiego: l’elicottero che avvista la nave alla deriva in mare è l’elicottero che avvista la bambina vagante tutta stordita nel deserto di Assalto alla Terra. Gli uomini che esplorano la nave e trovano i corpi spappolati è l’esplorazione della nave contaminata con i mostri antropofaghi del giapponese Uomini H. Le uova del mio film sono l’equivalente dei baccelloni de L’invasione degli ultracorpi. L’agente che ha visto le uova ma non viene creduto ed è preso per pazzo è come ne Il risveglio del dinosauro. La fabbrica delle uova è come la fabbrica degli alieni nel film inglese I vampiri dello spazio. I miei personaggi poi indossano persino le stesse tute e le stesse maschere antigas che ci sono in quel film! Insomma, Contamination sembrerà pure a qualcuno come un film figlio di Alien ma questo è solo un complimento alla mia abilità nel mescolare i generi e le carte in tavola, perché in realtà questo film è totalmente un clone della fantascienza del periodo che va dal 1953 al 1956. Di moderno ha solo il riferimento (molto vago) ad un Alien e alle uova, più un po’ di sangue esagerato. Ma con Contamination siamo davvero nella science-fiction cinematografica degli anni ’50, con una scena che è allo stesso tempo un omaggio a Hitchcock e uno scherzo sul tema: quella della ragazza minacciata nella doccia. Naturalmente chi non ha visto quei film di fantascienza che ti ho citato, non può rendersi conto del lavoro di recupero che ho fatto.

Ercole e Le avventure di Ercole

I due Hercules sono nati nella mia mente come un rifiuto del peplum italico, che era ben poco pieno di fantasia, e non certo come un tentativo tardivo per farlo rinascere. Con i due Hercules ho voluto fare fantasy puro alla Harryhausen, sono andato direttamente alla fonte greca, quella delle leggende antiche che sono molto più fantastiche e immaginifiche dei film italiani del periodo. Infatti ho usato come guida proprio il libro I miti greci di Robert Graves e poi ovviamente ho realizzato il tutto in stile Harryhausen, quindi fantasy, ma fantasy all’americana, non certo all’italiana. Il mio modello è stato Clash of the Titans di Harryhausen e pure Gli argonauti. Il peplum all’italiana non c’entra niente, solo chi non ha visto i miei due film può fare un paragone del genere.

Luigi Cozzi e il rapporto con la critica

Essendo io stesso critico e storico dei generi che amo (ho scritto più di venti libri sull’argomento e altri ne ho in preparazione), ho il massimo disprezzo per certa gente che scrive di queste cose, ma in realtà ben poco le conosce: esempio lampante il modo in cui sono trattati sovente i miei film.
Accetto che ad un critico Hercules possa non piacere, è un suo diritto, ma quando quello stesso critico scrive che il mio film è un tentativo di rifare il peplum, allora questo significa che quel critico non ha mai visto il mio film, altrimenti non avrebbe scritto una tale bestialità. Marco Giusti è un mio caro amico. Quando è uscito il suo libro Stracult però ha scritto di alcuni dei miei film delle cose che solo se non li aveva mai visti poteva aver scritto. Gliel’ho detto in faccia e, scusandosi, mi ha risposto: «Luigi, io quei tuoi film non li ho mai visti, e ho scritto sul loro conto solo basandomi su quanto riferito da alcuni collaboratori». In più, a volte, ci sono anche casi come quello di Paganini Horror, che non è un film horror, ma un fantasy sulla circolarità del tempo e sulle teorie einsteiniane, con in più alcuni paradossi su certi schemi cari all’horror. Ebbene, ho letto numerose recensioni atroci di questo film stese da persone che non ci hanno capito nulla e che evidentemente si aspettavano uno “splatter alla Fulci” e quindi, secondo costoro, siccome il mio film non era uno “splatter alla Fulci”, faceva schifo. Ma che modo di ragionare è? Un film andrebbe visto per quello che è, non per quello che si vorrebbe che fosse. Fortunatamente tutto questo succede solo in Italia.
All’estero ci sono molta meno improvvisazione e mancanza di serietà, e non è un caso se lì godo infatti di una buona stampa.

Godzilla aka Cozzilla

Godzilla è uno dei tanti film che ho recuperato per l’Italia con la mia società di distribuzione specializzata. Era successo che il primo Godzilla (nella versione con Raymond Burr) qui da noi era uscito nel 1956 con la Paramount, ma dopo un paio di anni la Paramount Italia aveva chiuso e tutte le copie dei film erano state mandate al macero. Quindi dal 1958-59 Godzilla in Italia non c’era più, perché allora non esistevano VHS o DVD. È stato così che allora, nel 1976 ho pensato di recuperare quel film: pagai 7000 dollari alla Toho e ne ho preparato la distribuzione. Gli esercenti delle sale però quando hanno saputo che quel Godzilla era in bianco e nero, mi hanno detto di no, non volevano più programmare in prima visione pellicole in bianco e nero e, siccome l’avevo pagato tanto, dovevo per forza fare uscire la pellicola in prima visione, anche d’estate, ma comunque sempre in prima visione. È stato così che, forzato dai fatti, mi è venuta l’idea di farne una versione colorizzata, anche perché nel frattempo a Torino avevo conosciuto Valcauda e avevo capito che con il sistema tecnico a passo uno di cui lui disponeva si potevano anche ricolorare i film: in effetti, il principio è lo stesso della ricolorizzazione che si usa oggi, solo che noi allora l’abbiamo fatta a mano, un fotogramma per volta, mentre adesso la fanno tutta automaticamente con i computer.
Quindi il mio
Godzilla è il primo film ricolorizzato al mondo. E poi, dato che il film durava appena 80 minuti mentre ormai le sale diprima visione volevano solo film lunghi almeno un’ora e mezza, ho chiamato il montatore milanese Alberto Moro e l’ho incaricato di aggiungere scene spettacolari del repertorio di guerra al film, che ho successivamente rieditato e rimissato, anche con nuove musiche di Vince Tempera.

Gli effetti speciali di Phenomena

Sono andato a cena con Dario appena dopo aver concluso l’edizione de Le avventure di Ercole e lui mi ha parlato dei grossi problemi che aveva con gli effetti di Phenomena che stava preparando. Gli ho chiesto che cosa doveva fare di tanto complicato, lui me l’ha spiegato. Allora mi ha chiesto se ero disposto a lavorare per lui e così, prima che la cena fosse terminata, ero già stato assunto per il film. I trucchi in effetti non erano nulla di complicato, il problema era che qui in Italia nessuno sapeva come li si poteva fare. Ma io non ho fatto altro che richiamare due o tre delle persone che avevano lavorato con me a Le avventure di Ercole e insieme abbiamo fatto il tutto. Diverse cose le ho fatte personalmente, altre le ho fatte fare a Parigi dai due fratelli Costa che si erano occupati dei trucchi de Le avventure di Ercole. Poi Dario, visto che era entusiasta dei risultati, mi ha fatto girare altre cose per quel suo film: mi ha affidato infatti la regia di tutte le scene con gli insetti e mi ha fatto fare anche alcune piccole scene con la seconda unità. È stato un lavoro facile, ma che nel complesso mi ha dato molte soddisfazioni, anche perché poi Phenomena ha avuto un enorme successo e tutti hanno apprezzato i miei trucchi ottici e la macrofotografia con gli insetti.

Sul “Profondo Rosso Store”

Dario voleva creare un punto di incontro per i suoi fan, io qualcosa di simile al Forbidden Planet di Londra (ma meno di massa) e così ne abbiamo parlato a lungo e alla fine abbiamo deciso di metterci insieme per fare questo negozio tutto dedicato all’horror, alla fantascienza e al fantasy. A quel punto Dario ha buttato lì l’idea che nei sotterranei ci voleva fare anche Il museo degli orrori e allora abbiamo trovato un locale che si prestasse al tutto e siamo partiti. Tutti ci dicevano che eravamo dei pazzi, all’inizio varie associazioni cattoliche fondamentaliste ci hanno perfino denunciato alla magistratura perché avevamo osato creare un punto di incontro per i fan dell’orrore, dicevano che “istigavamo a delinquere”, ma per fortuna i magistrati hanno respinto tutte quelle denunce e noi siamo andati avanti. Profondo rosso è andato bene sin dal principio e poi in tanti hanno persino preso ad imitarci. Ma ancora oggi siamo gli unici in Italia ad avere un negozio e un museo di questo tipo.

Turno di notte

Turno di notte è nato da un’idea di Dario Argento ed Enzo Tortora, poi sviluppata da Dardano Sacchetti e dalla coppia Laura Grimaldi-Marco Tropea che allora erano i direttori del Giallo Mondadori. Sul tema dei tre tassisti che indagano, sono stati girati sei episodi da parte di Lamberto Bava e poi sono subentrato io, che ho diretto (e in parte riscritto) i successivi nove episodi, per i quali ho ridotto il trio dei protagonisti a un duo. Dopo la trasmissione del mio primo telefilm il direttore di Raidue telefonò a Dario per congratularsi e per dirgli che il telefilm l’aveva trovato ottimo. Da quel momento in poi ho goduto della massima libertà: mi hanno lasciato fare quello che volevo. In effetti credo di averne fatte di cose insolite, innanzitutto spostando il thriller su un piano più fantastico e poi addirittura concludendo con l’ultimo episodio che era di pura fantascienza, con tanto di alieni. I miei nove telefilm di Turno di notte hanno avuto tutti altissimi indici di gradimento e duravano in media attorno ai quindici minuti, alcuni anche diciotto. La cosa interessante è che noi li giravamo quasi in contemporanea con la messa in onda. Mi spiego: ogni venerdì sera andava in onda un episodio, ma io finivo di girarlo (se tutto andava bene) il mercoledì all’alba e quindi, per tutto il mercoledì e il giovedì, c’era un’equipe supervisionata da Dario in persona che provvedeva freneticamente a montare e a mettere le musiche. Insomma, lavoravamo con un ritmo frenetico, come in una catena di montaggio, sempre con l’incubo che se io accumulavo un ritardo nelle riprese poi si rischiava di non avere niente da mandare in onda il venerdì.mInsomma, è stata un’esperienza bellissima, della quale ho un ottimo ricordo e credo anche di avere confezionato, in quei telefilm, alcune delle mie opere migliori.

Luigi Cozzi e le regie non accreditate

Ho scritto il soggetto di Sindbad of the Seven Seas per la Cannon, che lo voleva fare dopo Ercole. Ma ci sono stati dei ritardi, il progetto non partiva e allora sono andato con Argento a fare Phenomena. Proprio allora la Cannon ha deciso di dare il via a Sindbad of the seven seas, ma io non
c’ero più e allora decisero di farne un serial televisivo per la Rai in quattro puntate e lo affidarono a Enzo G. Castellari affinché allungasse il mio copione da due a cinque ore di film, ideali per la suddivisione in puntate. Il mio era ovviamente un copione tutto basato sugli effetti speciali, con Sinbad che andava perfino sulla luna, ma Castellari tenne solo la storia di base ed eliminò quasi tutte le sequenze con gli effetti ottici mettendo al loro posto scene di botte e scazzottate in quantità.
Poi girò il tutto. Un anno dopo, quando i capi della Cannon hanno visto le cinque ore di montato, le hanno trovate impresentabili sia alla Rai sia sul mercato americano, e decisero di archiviare del tutto il girato. Dopo un altro paio d’anni mi sono incontrato per caso con il capo della Cannon e quello, a un certo punto, m’ha detto: «Luigi, noi abbiamo messo in cantina il tuo Sindbad fatto da Castellari, perché non ci piace. È lungo cinque ore: a te non andrebbe di rimetterci le mani, girare qualcosa, metterci tanti effetti e ridurlo ad un’ora e mezza?». Io ero libero e ho detto di sì e così loro m’hanno dato tutto il girato originale di Castellari più le cinque ore di montato. Ci ho lavorato per un anno, ricostruendo in parte il mio script originale, girando l’introduzione e la fine ed aggiungendo ovunque effetti ottici in quantità. Alla fine ho presentato il mio prodotto alla Cannon, a loro è piaciuto e finalmente l’hanno distribuito in tutto il mondo nella mia versione. Comunque, va detto che il film come lo si vede oggi mantiene lo schema della mia sceneggiatura originale, però mantiene anche tutto il girato di Castellari anche se ovviamente non contiene le grandi scene spettacolari previste dalla mia sceneggiatura originale.
Nosferatu a Venezia invece, non l’ho né scritto né diretto. Semplicemente ero amico del produttore esecutivo e lui mi ha preso come suo consulente per tutta la durata delle riprese (e anche dopo). Mi sono occupato soprattutto degli effetti speciali, degli ammazzamenti vari, e in più ho girato delle piccole scene come seconda unità. Ma il film è stato diretto tutto da AugustoCaminito. In ogni caso questo è un esempio di un film-casino che alla fine non rispetta per nulla la sceneggiatura originale: in fase di montaggio in pratica si sono reinventati una nuova trama e tutto l’ordine delle scene è stato cambiato, per cercare di dare un’apparenza di senso al tutto. Kinski poi impazzava a tutto spiano: ha voluto girare da solo almeno una ventina di ore di scene tutte inventate da lui, io lo accompagnavo in queste riprese assurde ed inutili e ho vissuto al suo fianco davvero delle esperienze folli.

Paganini Horror

Paganini horror è nato così: io ho proposto quel titolo a uno dei produttori di Contamination e a lui quel titolo insolito è piaciuto. È stato lui a far fare la locandina con la casa e il violinista e poi, avuto il disegno, ha detto a me di scriverci attorno un soggetto per un film. Io, che avevo appena finito di lavorare a un copione fantastico su Paganini per il produttore di Starcrash, ho mischiato un po’ di cose che avevo appreso su Paganini con il classico tema della casa infestata, poi ho pensato di
metterci dentro anche gli spunti di uno dei film che amo di più, L’uomo che visse nel futuro e ho confezionato un prodotto molto insolito su una casa dove il tempo ti uccide facendoti invecchiare d’improvviso oppure facendoti ringiovanire di colpo, facendoti diventare un neonato e poi un ovulo.
Al produttore buona parte di quelle mie idee però non sono piaciute e, in gran parte, me le ha fatte togliere, obbligandomi a mettere pezzi di puro splatter al loro posto. Allora ho portato il progetto di
Paganini Horror così com’era stato trasformato ad altri produttori ed alla fine De Angelis, il produttore di Fulci, me lo prese. Poi però pochi giorni prima di iniziare per risparmiare sui costi mi ha ordinato di togliere tutte le sequenze splatter dal film e allora ho cercato di riequilibrare il tutto reinserendo alcune delle cose più strane e fantastiche della mia precedente versione. Nel complesso credo di esserci riuscito abbastanza bene. Ne è venuto fuori un film che di sicuro non è un horror
ma un fantasy o un fantastique con molta ironia e un mucchio di teorie sulla musica e sul tempo, argomenti ostici per gran parte degli spettatori. Però devo dire che mentre nel 1990 sentivo solo opinioni negative su questo mio
Paganini Horror, a partire dal 2000 ho cominciato a sentire invece sul suo conto pareri sempre più favorevoli: era un film sul tempo e forse proprio il tempo ha poi cambiato le cose e i giudizi.

The Black Cat

The Black Cat si intitolava De profundis, ovvero Out of the Dephts ed era un gioco di parole perché Suspiria de profundis è il titolo completo della lirica di De Quincey dalla quale il mio amico e maestro Dario Argento ha tratto il suo Suspiria. L’altro gioco di parole è con Out of the Dephts, che è la traduzione di De profundis e che sta per Fuori dagli abissi con l’aggiunta sottintesa (che si spiega solo alla fine del film) di of your mind, cioè Fuori dagli abissi (della mente). A film quasi finito, però, il distributore Golan (lo stesso che aveva diretto la Cannon) mi ha chiamato perché
aveva venduto in vari paesi un film tratto da Poe chiamato
The black Cat prodotto da Harry Alan Towers. Golan aveva però appena litigato con Towers e lui non gli dava più quel film, ma il problema era che Golan l’aveva già venduto, quindi aveva comunque bisogno di un altro film che avesse lo stesso titolo. Così chiamò me e mi disse che dovevo cambiare il titolo al mio film e farlo diventare il The Black Cat che serviva. Ho protestato ma Golan mi ha detto che se non lo facevo io, ci avrebbe pensato lui a cambiare il titolo al mio film quando l’avrebbe distribuito e così non avevo scelta. Per sistemare un po’ le cose – anche se il mio film non c’entrava niente con il racconto di Poe – ho girato qualche inquadratura di un gatto nero che passeggiava qua e là e ho chiamato il mio film The Black Cat (e successivamente intitolai proprio The Black Cat la pellicola che sta girando la protagonista del mio film). The black cat poi è un ennesimo mio film di fantascienza “truccata”.
Dico così perché in Italia i produttori non ne vogliono nemmeno sentir parlare di fantascienza, e quindi io sono costretto a proporre film che sembrano essere dell’orrore mentre in realtà sotto sotto sono di fantascienza. E
The Black Cat è appunto uno di questi. Voglio far notare una curiosità, che mi stupisce ma che comunque più d’una persona mi ha segnalato e quindi la riporto: Gomarasca di Nocturno e altri mi dicono infatti che secondo loro il recente La terza madre di Argento ha un po’ dell’atmosfera del mio film, che Dario in effetti ha visto. Non so, non mi pronuncio. Sarà davvero così?

Le sceneggiature di Paradiso blu, Shark – Rosso nell’oceano e La mano nera – Prima della mafia…più della mafia

Pino Mangogna e Ugo Valenti mi hanno chiesto quindi di scrivergli Paradiso blu. Personalmente non avevo voglia di scrivere una storia del genere, non era nelle mie corde, ma loro (era luglio) hanno detto che, oltre a pagarmela, avrebbero pagato un mese di vacanza a me e a mia moglie all’Hotel Sheraton se li avessi seguiti a Santo Domingo per scrivere, una volta lì, un progetto di
fantascienza. A quel punto ovviamente ho accettato, ma ho dato da scrivere il copione di Paradiso blu a un mio amico, lo scrittore di fantascienza livornese Gianluigi Zuddas, mentre io ho fatto solo la ripulitura finale di quello che lui aveva scritto. Ho consegnato il copione, che è piaciuto, e allora Joe d’Amato ha chiesto che io modificassi anche il copione del primo film che lui doveva girare,
Voodoo Baby. Così ho fatto la revisione di questo copione (che in italiano credo si chiami Orgasmo nero), riscrivendo in pratica le scene un giorno prima che Aristide le girasse. Ma la struttura della storia esisteva già, non è mia. Ho passato un agosto di sogno a Santo Domingo, scrivendo tutto sommato ben poco e divertendomi invece moltissimo. Shark – Rosso nell’oceano è nato da Sergio e Luciano Martino, i quali mi hanno chiamato perché volevano che scrivessi e dirigessi un film tipo Lo squalo ambientato però a Venezia. Ho scritto un trattamento che in pratica era già tutto il film e
loro lo hanno approvato. Poi però Sergio Martino, che doveva fare il produttore, ha abbandonato il progetto per mettersi a fare un film suo e il fratello Luciano ha deciso di sospendere il progetto.
Qualche mese dopo lo ha ripreso in mano, ma lo ha voluto fare con pochi soldi: mi ha richiamato e io gli ho scritto una versione più semplice della prima storia, ispirata in buona parte al libro “L’incubo sul fondo” di Murray Leinster. A Luciano Martino il mio trattamento è piaciuto, però ha voluto fare il film davvero con quattro soldi e allora ne ha affidato la produzione a Mino Loy, il quale ha deciso di farlo fare come regista a Lamberto Bava, con il quale era in grande amicizia e del quale si fidava ciecamente. Quindi è stato Lamberto a fare il film, scritto da me con l’ultima sezione aggiunta da Dardano Sacchetti. Però a me il film finito non piace molto: eppure ho una grandissima stima di Lamberto come regista, è bravissimo, però questo non mi sembra essere uno dei suoi lavori migliori, forse perché magari gli hanno dato veramente troppi pochi soldi per poter riuscire a farlo
bene. La mano nera – Prima della mafia… più della mafia è un film ideato, supervisionato e prodotto da Carlo Infascelli. Ho conosciuto Carlo quando lui aveva già iniziato a girare La mano nera. Il copione c’era già, visto che stavano già girando anche il film, ma Carlo lo voleva modificare in continuazione a seconda di quello che gli chiedevano gli attori. Mi spiego: lui voleva mettere nel film Philippe Leroy, ma Leroy aveva detto no, non gli piaceva la sceneggiatura. Allora Carlo gli chiedeva che cosa doveva cambiare nel copione perché lui accettasse. Leroy magari gli diceva che voleva una scena in cui lui moriva (o scopava, o scappava…). E qui entro in scena io, il supervisore aggiunto del copione: Carlo mi telefonava a casa e mi dava 24 ore di tempo per aggiungere la scena che Leroy aveva chiesto. Questo per fare un esempio. Ecco tutto il mio lavoro su
La mano nera – Prima della mafia… più della mafia. È stato così. Loro mi telefonavano dal set dicendo che c’era questo problema o quest’altro, e io dovevo precipitarmi sul set dove stavano girando per portare una soluzione, una nuova scena, dei dialoghi diversi, il tutto mentre loro già giravano. È stata un’esperienza totalmente folle, mai vissuta un’altra così, ancora oggi, a ripensarci, scoppio a ridere.

Il cinema italiano di genere tra passato e futuro

Ruggero Deodato, Lamberto Bava, Michele Soavi e tanti altri registi (me incluso) hanno lasciato l’horror e il thriller non perché non vogliono più fare i film di questo tipo, ma perché il pubblico di oggi ha smesso di andare a vederli, quindi se sei un regista e non vuoi restare disoccupato devi cercare per forza di fare qualcos’altro. E a quel punto qualsiasi cosa, anche una soap in TV, va bene: vedi il caso di Deodato, oppure vedi anche il mio caso che, per non abbandonare il fantastico, ho preferito dedicarmi al Profondo rosso store. Purtroppo questa è la situazione. Di recente sono usciti per esempio quattro film horror tutti molto interessanti quali Il bosco fuori di Albanese, Ghost Son di Bava, La terza madre di Argento e Il nascondiglio di Avati, eppure sono stati tutti e quattro dei grossi flop economici al botteghino. Siccome il loro insuccesso commerciale è stato decretato dal pubblico che non è andato a vederli, è evidente che gli spettatori di oggi preferiscono vedere film di genere diverso, questa è la realtà, perché durante quest’annata diversi film italiani di altro genere hanno riscosso ottimi risultati. Quindi è l’horror italiano che non attira più la gente. Negli anni ’60 e ’70 c’erano abbastanza spettatori per i film di genere horror, mentre oggi no, o meglio, oggi ci sono numerosi giovani appassionati che una volta non c’erano, ma comunque gli appassionati che ci sono oggi sono in ogni caso troppo pochi per contribuire a decretare il successo dei nuovi film di questo tipo. Purtroppo. E così in Italia il cinema thriller/horror sta per sparire: ma, lo ribadisco, è il pubblico che ha voluto decretare questa scomparsa. Film come Il bosco fuori, La terza madre, Il nascondiglio e Ghost Son evidentemente non attirano più gli spettatori.

Luigi Cozzi e il montaggio

Un montatore può cambiare un film, perché è lui che ne decide il ritmo, lo spostamento di alcune scene, l’eliminazione o il taglio parziale di altre (ovviamente sempre d’accordo con il regista). Un film discreto montato da un bravo montatore diventa un buon film, un film discreto montato da un cattivo montatore diventa un film mediocre. Prendete per esempio i film di Dario Argento: finché ha avuto al suo fianco quel montatore eccezionale che è Franco Fraticelli, i film di Dario sono secchi, vibranti, tesi, quando Dario ha smesso di lavorare con Fraticelli, il suo cinema è cambiato, diventando molto più lento, a volte persino quasi noioso. Lo ripeto, i montatori sono fondamentali nel dare il giusto ritmo a un film, sono collaboratori preziosissimi di ogni regista e in qualche caso sono perfino meglio del regista. Chi è appassionato di cinema lo deve sapere.

Luigi Cozzi e la direzione della fotografia

I direttori della fotografia sono molto convenzionali. Hanno paura di usare colori accesi, tinte forti, perché in genere nel cinema di oggi si usano poco, mentre invece per il mio cinema di fantasia sono fondamentali, così ho dovuto insistere non poco per convincerli a fare come volevo. Ma ci sono sempre riuscito.

Sintesi di un’intervista di Matteo Contin realizzata nel 2009




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