Vacuità del mondo, fermento delle immagini – Godard e Noé a confronto

Il presente articolo è stato pubblicato su Rapporto Confidenziale numero26 (giugno-luglio 2010), pagg. 18-19

Vacuità del mondo, fermento delle immagini
Enter the Void / Film Socialisme: I film di Jean-Luc Godard e Gaspar Noé a confronto

Sta lì, intrappolato in un bagno nauseabondo, in panico. Un colpo d’arma da fuoco sopraggiunge e lo attraversa. Muore dolcemente, povero Oscar, eroe di Enter the Void, la cui vita ha fine dopo venti minuti di film.
Sta lì, sul ponte di una nave da crociera, e non andrà più lontano di una banale frase, svanendo dopo qualche secondo dallo schermo, l’anonimo di Film Socialisme.
Il mondo non avrebbe più storie da raccontare, tutto è già stato detto, il mondo sarebbe soprattutto vuoto di ogni racconto degno di essere trasposto in immagine e l’artista dovrebbe cercare altrove l’essenza stessa della sua arte. È la prima possibile impressione alla visione degli ultimi film di Gaspar Noé e di Jean-Luc Godard.
Attenzione, non dobbiamo desumere che in sé non ci siano più messaggi da trasmettere, bensì che il messaggio non può passare attraverso l’esplorazione di una storia nel senso classico. Noé costruisce il suo film attorno a tutti i “cliché” possibili del genere noir, Godard non cerca più nemmeno di costruire.
Fare l’esperienza della vacuità del mondo moderno, di questa mancanza di senso nelle nostre esistenze, ecco ciò a cui in parte mirano i due film. Nel film di Noé, Oscar si concede una vita stereotipata: un complesso edipico (che lo spinge ad andare a letto con la prima madre che incontra), un desiderio incestuoso per la sorella (dopo aver appunto visto i genitori fare l’amore), lo choc della morte dei genitori in un violento incidente, un’infanzia all’orfanotrofio (che immaginiamo triste). Oscar non può fuggire, fuggire un mondo assurdo, svuotato di senso, di tutto l’ottimismo, trovare rifugio in Giappone, in questo quartiere fantasmagorico dove notte e giorno si confondono e dove la droga diventa un secondo respiro.
È inevitabile, ci diciamo, che ci fosse bisogno di una vita schematica che sfociasse sul funereo colpo d’arma da fuoco. Un bravo ragazzo senza problemi non sarebbe arrivato a vendere droga per far soldi e non avrebbe senza dubbio vissuto in questo quartiere immaginario. Immaginario perché il quartiere che sorvola Enter the Void è creazione pura (uno dei personaggi costruisce un modellino gigante di un quartiere giapponese), la realtà non merita più di essere esplorata. E proprio perché il mondo moderno non avrebbe più in sé storie da vivere che il regista parte per affrontare un altro mondo, quello dell’aldilà. Tutto l’interesse di Enter the Void risiede nel suo aspetto formale, prendendo la parte di una cinepresa soggettiva durante la prima parte, poi decisamente a focalizzazione zero di un personaggio capace in apparenza di viaggiare dove meglio crede, compreso nel tempo, ma solo in apparenza, perché lo spettro di Oscar segue i destini di coloro che sente vicini, senza avventurarsi all’esterno del quartiere giapponese o dei suoi ricordi; come se, all’immagine di una frase di Mon Oncle Boonmee (Loong Boonmee raleuk chat di Apichatpong Weerasethakul, Palma d’oro a Cannes quest’anno), i fantasmi fossero unicamente legati agli intimi e non ai luoghi.

Da parte sua  Jean-Luc Godard, tanto detestato quanto adulato, sembra non avere più interesse a discorrere. A fine corsa, affaticato, disilluso, l’uomo lancia una successione di idee nere, opta per il peggior luogo sulla terra: una nave da crociera dove si costeggiano volgarità, assurdità e lusso, e finisce per nemmeno più tentare di costruire un discorso coerente. La Shoah, il sovietismo, i totalitarismi, la fine dell’Europa, la gioventù perduta, la politica corrotta e sterile, la fine del cinema…ce n’è di che deprimere i più ottimisti.
Di nuovo il mondo appare come svuotato da ogni senso, vano. Ed è grazie all’effervescenza delle immagini che l’opera riprende fiato e tutto il suo interesse. il delirio formale non tiene più, come in Gaspard Noé, attraverso l’esplorazione di una forma narrativa inusuale (la focalizzazione interna), ma nel montaggio (si potrebbe parlare di collage per momenti), virando più verso l’installazione video che verso l’opera cinematografica. E avendo vissuto l’evoluzione completa del mondo dell’immagine, esplora i diversi supporti visivi, dalla camera HD alla macchina fotografica, sino al telefono portatile.
Il cineasta ha l’occhio, i colori sono sorprendenti per la loro bellezza, certi piani possiedono un’estetica incredibile (le viste del mare, certe visioni dal ponte della nave tra il blu della notte e il giallo dei metalli). Anche quando sceglie di utilizzare le immagini digitali di una macchina fotografica, in cui i pixel sono più che fastidiosi, esiste ancora una sorta di regia.
Per prendere lo spettatore, per forzarlo a vivere le immagini, a respingerle, a lavorarle, Godard costruisce un montaggio nervoso, incostante, senza logica apparente (talvolta senza logica del tutto), ma dalle tematiche ricorrenti, che fanno da eco alle sue opere passate. È verosimilimente questa effervescenza delle immagini o dell’immagine ad intrigare in questi due film. Una camera folle e tormentata, che utilizza con profitto il digitale, camere disseminate (foto amatoriali, archivi, immagini televisive, artistiche) sovrapposte come possibili sguardi multipli su di uno stesso mondo, non più completamente comprensibile.

I tre colpi sonori iniziali di Film Socialisme divengono una trasformazione numerico-informatica dei tre colpi che aprono le pièces di teatro, il cui testo, diviso in atti e movimenti (Des choses comme ça / Notre Europe / Nos Humanités), costruisce l’immagine della modernità. Nessun racconto, ma racconti, storie che incorciano le immagini, intervallano, spezzano, per terminare su quell’ultima immagine del , che corrisponde al sogno di ogni artista (spesso rivoltato) di vedere la propria opera semplicemente vissuta e non commentata all’infinito quando non commentata male.
o ill desiderio di tacere, di non più mostrare, di avere detto già tutto, tutto rivelato. No Comment avrebbe potuto chiudere Enter the Void, come constatazione del fatto che una vita è cosa fragile, troppo vana per perdere tempo ad analizzarla, a commentarla. Vivere semplicemente per evitare di perdersi in spiegazioni banali come le biografie dei personaggi di Enter the Void.
Vibranti, le immagini danno tutta la dimensione a questi due film intuitivi tanto quanto pensati che segnano una pausa, per meglio farci comprendere, forse senza volere, l’incredibile potenziale del cinema.

Emeric Sallon
[traduzione: Donato Di Blasi]



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