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Fängelse (Prigione)
regia di Ingmar Bergman (Svezia/1949)
recensione a cura di Leonardo Persia

Un film sul diavolo e, come il diavolo, polimorfo. Realismo, surrealismo, cinema nel cinema, cinema inchiesta, cinema filosofico. Bergman affronta i temi e i linguaggi e li confonde, li trascende e li vanifica. E’ proprio del demonio (“un simbolo, un’allegoria”) il non essere, la trasformazione continua, contrapposta alla stabilità divina. Fuoco, fumo: elementi ricorrenti. Il diavolo tabagista è un’icona del ‘700. Fängelse (Prigione) devia invece verso il ‘900 delle luci e dei lumi cinematografici, incorniciato com’è da un set cinematografico, luogo di fumatori, fabbrica di fantasticherie fumiganti, bagliori luminosi che appaiono all’improvviso, démoni.

Nel prologo si parla di una possibile pellicola da girare, una storia vera sul diavolo-dio padrone di tutte le cose sulla terra-inferno. Nell’epilogo se ne rileva l’irrealizzabilità, una cosa che nessuno vorrebbe fare (e vedere). Ma, in mezzo, il film da non produrre è scorso, insieme di stazioni legate da dissolvenze incrociate, una progressione di croci e di crocicchi, impossibili direzioni di fuga.

L’idea viene a un vecchio professore di matematica, reduce da una clinica psichiatrica, che dal nulla irrompe nel teatro di posa e propone il soggetto a Martin, il regista, a cui l’uomo sembra già il diavolo, “naturalmente un buon diavolo”. La suddivisione della storia tra demone buono e demone cattivo, già presente in Piove sul nostro amore con interscambio di ruoli, fa ritorno e struttura l’intero lavoro, costruito come (in) uno specchio, dove due coppie, una positiva l’altra negativa, ma con le relative sfumature, si riflettono l’una nell’altra ed entrambe sono completate da un terzo elemento, maschile nella prima, femminile nella seconda.

Da un lato Thomas e Sofie, marito e moglie alla cui crisi partecipa come testimone e amico Martin; dall’altro Birgitte, prostituta minorenne vittima del fidanzato Peter, della cui misera vita è responsabile altresì la sorella Linnea. Come quest’ultima è legata a Peter da una strana, morbosa complicità (che arriverà fino al delitto), Martin sembrerebbe un timido corteggiatore di Sofie (verso la quale tuttavia non si spingerà, almeno in campo, oltre l’allusione di una battuta spiritosa).

Intervistando Birgitte, Thomas si innamora e fugge con lei, la classica fuga a due bergmaniana che trova (provvisorio) rifugio nell’attico simbolico di una pensione, luogo onirico di spettacolo e apparizioni. Vi ritrovano la serenità dell’infanzia (Thomas c’era già stato da piccolo con la zia), i giocattoli, un filmino che, proiettato, renderà allegra la coppia.

Birgitte si apre all’uomo, rompe il guscio che ne faceva un’impersonale marionetta senza problemi, sprigiona calore. Lo schermo s’infiamma. Quando i due cominciano ad amarsi, il fuoco del camino sembra bruciare i fotogrammi (come accadrà con Persona). Sprofondamento magico nella distanziazione e nel sogno, punto di incontro di un’impossibile emozionalità che vorrebbe scansare l’immedesimazione, il coinvolgimento eccessivo.

Lei si addormenta ed ecco la visualizzazione di un incubo, profezia choc dell’inevitabile ritorno al punto di partenza. Nello stesso luogo, Birgitte, e con lei lo spettatore, aveva osservato da vicino la miseria isterica della vita di coppia. La proprietaria della pensione che litigava col marito; la figlia che, senza entusiasmo, aspettava il fidanzato (già cliente della prostituta.) per fuggire dopo un’inaspettata gravidanza. Nel sogno, la ragazza incinta è vestita a lutto. Il dono gioioso che offre all’altra (la maternità) diventa un pesce strangolato. A Birgitte, infatti, avevano sottratto e ucciso la bambina, epifania di svolta divelta.

Il diavolo è simia Dei, lercia imitazione di Cristo, uno specchio scuro in aenigmate. Perciò nel film tutto si trasforma in uno speculare contrario. La maternità complica, l’amore uccide, gli incontri sono una grazia rovesciata. Spaventoso soprattutto il collegamento di uomini ed elementi (quel bambino col coltello, oggetto che servirà a compiere il suicidio), nerissima parodia del religere celeste alla base, anche etimologica, della religione.

Per questa via, Ingmar Bergman riflette sul dispositivo filmico, sulla sua natura di strumento imitativo. Il cinema come specchio, con annessi i livelli di essere e apparire della realtà. E specchio dello specchio, del mezzo stesso messo in campo attraverso il set, poi nella miniaturizzazione della comica proiettata al suo interno, variazione slapstick della tragedia narrata, dominata da Morte e Diavolo (il film visto da Thomas e Birgitte). La sua natura immateriale è superata dalla compiuta realizzazione di un’idea: il corpo stesso del film a cui assistiamo.

Malgrado ciò, proprio come gli strani personaggi che completano le due coppie, il film in sé diventa il terzo elemento materiale ma inafferrabile (perché extradiegetico, perché cinema) che presiede alle due epifanie metalinguistiche in esso contenute. Qualcosa che non può andare oltre la pura contemplazione e il puro enunciato. E’ probabile che si citi l’autore della Summa theologica (che difatti sosteneva la conoscenza esclusivamente discorsiva della speculazione), se non addirittura l’apostolo scettico di Cristo, nel nome del personaggio Thomas. Che difatti sperimenta per (non) credere e (non) capire, essendo il giornalista e lo sceneggiatore la cui conoscenza delle miserie altrui è condannata a restare teorica, a dispetto anche di una partecipazione diretta e dolorosa. La moglie avverte che l’uomo non fa che recitare un ruolo, la sua è tutta scena.

L’autore conosce anche Aristotele (di nuovo il sapere filosofico come contemplazione), la sua concezione del tre come completamento necessario di una vicenda narrata (inizio-centro-fine). Il tre bergmaniano non si dà come risposta, piuttosto è un interrogativo, sia nel caso dei personaggi correlati alle coppie, sia nel prodotto finale costituito dal film Fängelse (Prigione). Non c’è inizio e non c’è fine. Secondo quanto riferito dal professore, il diavolo ha ordinato al mondo di restare così com’è, immobile, facendo poi dell’immobilità il segreto desiderio delle stesse vittime. Prigioniere della prigione, orrida tautologia che s’incarna nel sorriso (finzione? disincanto?) di chi torna all’ovile (Thomas) o nella battuta di giustificazione, sia pure estorta, di Birgitte:. “Io resto qui, loro sono i miei amici e io sono come loro”.

Bergman mette in discussione la compiutezza del tre, la narrazione risolta. Il ruolo conchiuso di Birgitte come prostituta senza problemi (l’intervista che rilascia a Thomas) viene smentito da un carrello in avanti, specie di accesso al reale, che, alla fine del percorso, scambia la ragazza gaudente con una sofferente. La voce del narratore, a cui è affidata questa unica battuta, ci avverte che sono trascorsi sei mesi dalla prima apparizione della donna. Quindi pure dall’immagine d’esordio di Thomas e Sofie intenti a ridere, adesso incupiti nel vuoto della loro esistenza. Sei è un numero che raddoppia il tre. Numero del sesso, dell’apocalisse e del diavolo. Gli oscuri elementi che completano la supposta perfezione della trinità religiosa, altro residuo aristotelico.

A comple(ta)mento dei due “tre” (il terzo elemento correlato alle due coppie) manca l’elemento che confermi la quaterna bergmaniana, coincidente appunto con l’oscurità delle cose, la sua apertura all’irrazionale. Un innominato personaggio, d’indicibile orrore, irrompe allora come aggressiva apparizione, prima in un sogno, poi nella realtà, senza che si sappia niente di lui. Inconsistente mostruoso, proprio al pari del diavolo, esclude definitivamente dalla grazia e dal cambiamento la povera Birgitte, vittima sacrificale di un rito consacrato al demonio. Il fascio di luce proveniente dalla grata non toccherà il suo corpo senza vita.

Strani suoni, strane luci, strani fantasmi annunciano la funebre epifania satanica, gusto bergmaniano per l’horror che si ritroverà a più riprese nei film successivi, da Il volto a Fanny & Alexander. E’ l’epitome misteriosa di un’opera che, benché matematicamente organizzata, risulta contraddistinta da personaggi e battute sfuggenti, tali da lasciare aperti numerosi interrogativi diegetici. Mimesi ulteriore dell’interrogativo per eccellenza e senza risposta a cui approda nel finale: la mancanza di scopo e di clemenza della vita, tragicomico capolavoro esteso “in un arco di tempo crudele e voluttuoso, dalla nascita alla morte”.

La vera carta vincente del diavolo, vi si dice, è non avere programmi. Chi ne ha, film e personaggi, è destinato inevitabilmente a soccombere.

Leonardo Persia

 

 


Fängelse (Prigione)

regia, soggetto, sceneggiatura: Ingmar Bergman
fotografia: Göran Strindberg
montaggio: Lennart Wallén
musiche: Erland von Koch
suono: Olle Jacobsson
trucco: Inga Lindeström
produttore: Lorens Marmstedt
interpreti: Doris Svedlund (Birgitta Carolina Soederberg), Birger Malmsten (Thomas), Eva Henning (Sofi), Hasse Ekman (Martin Grande), Stig Olin (Peter), Irma Christenson (Linnea), Anders Henrikson (Paul), Marianne Löfgren (signora Bohlin), Bibi Lindqvist (Anna), Curt Masreliez (Alf), Britta Holmberg (madre di Birgitta, voce)
casa di produzione: Terrafilm
paese: Svezia
anno: 1949
durata: 98′

 

 

speciale INGMAR BERGMAN

 



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