L’Italia del “silenzio – assenso”. “Il conformista” di Bernardo Bertolucci

L’Italia del “silenzio – assenso”
Il conformista, regia di Bernardo Bertolucci (Italia-Francia-Germania Ovest/1970)
a cura di Fabrizio Fogliato

Il conformista (1970), film di Bernardo Bertolucci, liberamente tratto dal romanzo omonimo di Aberto Moravia, è opera autonoma con una sua espressività ed un suo linguaggio (cinematografico) specifico. L’intento del regista parmense, coadiuvato dal montatore Franco “Kim” Arcalli, è quello di infondere nello spettatore, lo spirito (e non la realtà) e l’atmosfera di un’epoca. Il conformista evoca un “impressione di realtà” e, attraverso ogni aspetto filmico e narrativo, non tradisce mai questa idea di partenza. È dunque evidente che si tratta di un’operazione di stravolgimento (del romanzo, ma non solo) tesa a visualizzare l’immagine di un simulacro (il fascismo), che ha nel concetto di “normalità” l’adesione silenziosa e totalizzante a un sistema di regole anti-democratiche. Il protagonista, Marcello Clerici, convinto della sua “anormalità”, rivelata (apparentemente) da un episodio della sua infanzia, si inserisce volutamente in un sistema omogeneo e massificato in cui ogni diversità non solo non è contemplata, ma è perfino condannata.

Per tutta la durata del film, la sua indole poggia in equilibrio instabile sull’ambiguità: egli è al contempo assimilato al pensiero unico e straziato dal dubbio: «Insomma, se il fascismo fa fiasco, se tutte le canaglie, gli incompetenti e gli imbecilli che stanno a Roma portano la nazione italiana alla rovina, allora io non sono che un misero assassino». (Alberto Moravia, Il conformista, Bompiani, Milano, 2005 [ed.or. 1951], pag. 244). Amara conclusione cui egli giunge dopo la caduta del fascismo la notte del 25 Luglio 1943, dopo aver intuito che, forse, il suo crimine di infanzia è vissuto solo nella sua testa, e che forse, la strenua corsa alla ricerca di una “normalità” omologata, è stata la negazione del concetto stesso di vita. Il suo rientrare nella “normalità” coincide con l’adesione alla polizia segreta fascista denominata OVRA. Scelta emblematica, visto che qui gli agenti non si sporcano mai le mani, non uccidono, ma si limitano a segnalare, e a fornire informazioni, in modo che altri portino a termine l’eliminazione del soggetto indicato.

Storicamente la caccia e la repressione degli anti-fascisti avviene attraverso un’operazione capillare, ispirata dallo stesso Mussolini. Questi, che nel corso del 1926 è scampato a quattro insidiosi attentati, decide di istituire un corpo speciale all’interno della polizia finalizzato alla protezione della sua persona. Il conformista, in quanto tale appare ontologico all’OVRA stessa: egli non agisce mai direttamente, reitera continuamente gesti e pedinamenti, azioni e parole in codice suggeriti da altri. Il delatore dell’OVRA è una spia, un essere passivo che vive nell’ombra e osserva le vite degli altri: così il conformista si mimetizza nella sterminata massa di informatori del regime, percepisce uno stipendio netto di cinquemila lire (circa € 4.200,00), e agisce nascosto nella folla. A cavallo tra gli anni ’20 e gli anni ’30, ogni condominio è presidiato da un agente dell’OVRA, un’organizzazione tentacolare che controlla capillarmente i movimenti di ogni singolo cittadino. Marcello Clerici dunque, aderendo all’OVRA, vive “l’impressione della normalità” e agisce quasi in una dimensione parallela perfettamente congenita alla sua ambiguità. Egli, con le sue scelte e i suoi comportamenti, è effettivamente endemico all’organizzazione stessa, prima ancora di entrarvi: fatto evidente se si prende in considerazione l’evoluzione storica della stessa polizia segreta.

Già nel nome, l’OVRA, contiene il senso di una “proiezione del reale”, infatti, questo, che appare come un acronimo (ma non lo è), compare per la prima volta in un documento del 2 Dicembre 1930, in cui lo stesso Mussolini, soddisfatto dell’esito di alcune operazioni di polizia, sostiene che «quel nome avrebbe fatto colpo ed acceso la fantasia». Oggi è accertato che OVRA è solo un nome, comparso sul documento come errore dattilografico di PIOVRA, fatto altresì significativo che permette di associare il ruolo del delatore con quello del conformista: entrambi sono vittime di un fraintendimento, cercano la realtà promessa dal regime per poi ritrovarsi a vivere solo come “ombre” dello stesso. Marcello Clerici, in quanto agente dell’OVRA, lavora come informatore, per avvicinare l’esule anti-fascista Prof. Quadri, per poi segnalarlo ai sicari politici che provvederanno ad eliminarlo lontano dall’Italia. Il conformista è colui che ha la vista annebbiata, e non vede altro che il “simulacro della realtà”. Colui che silenziosamente aderisce come collaboratore di un regime (apparentemente) vincente e lo fa nella forma più bieca e vigliacca: quella del delatore.

 

 

Nel film di Bertolucci prevale il concetto di “spirale” attraverso cui il singolo personaggio viene stretto d’assedio, circondato e inglobato dalla sua stessa ignavia e dalle proiezioni degli altri personaggi. Marcello Clerici agisce all’interno di un circolo vizioso che ne impedisce sia l’espulsione del senso di colpa che lo attanaglia (dall’infanzia), sia l’estromissione dell’anormalità (l’omosessualità) presunta che gli impedisce di accettarsi così com’è. Egli si muove come un fantasma tanto a Roma quanto a Parigi. Si potrebbe dire che il suo movimento è solo apparente: egli è statico mentre sono gli altri che si muovono intorno a lui. Marcello Clerici osserva, spia, vede passare la vita davanti ai vetri e talvolta questi gli impediscono il contatto con l’esterno. Si apposta dietro le porte socchiuse (in albergo e al Ministero), guarda da dietro i vetri (all’EIAR, in treno, in macchina), ma non agisce: accetta passivamente le scelte degli altri “protetto” dal suo cappello che diventa una sorta di “coperta di Linus”. Il cappello è dunque il simbolo di un’identità conformista; egli lo tiene sempre in testa negli ambienti chiusi e rimane sconvolto dalla dimenticanza nel bordello di Ventimiglia: unico momento in cui deciso, torna sui suoi passi per cercarlo.

Quello che egli cerca in definitiva è un’identità, e la sua scelta è quella di un’adesione indiscriminata al servizio della dittatura: la “normalità” è chiusa nella delazione volontaria. A tal proposito appare emblematica la scena al Ministero, in cui Clerici viene scortato fino all’ufficio del Ministro da due servili segretari che ammiccano ironicamente alla sua scelta pronunciando a turno le parole: «Opera Volontaria… Repressione Antifascista». Bernardo Bertolucci gioca abilmente sul presunto acronimo di OVRA e contemporaneamente sottolinea l’apatia del conformista, il quale si propone come “servo del regime” per adeguarsi ad un sistema “normale” che ipocritamente persegue valori tradizionali: casa, chiesa e famiglia. È lo stesso Clerici a sottolineare lo stesso aspetto durante la confessione pre-matrimoniale: «Sto per costruirmi una vita normale, sposo una piccolo borghese, mediocre, piena di idee meschine, di piccole ambizioni meschine. Si, tutta letto e cucina! La normalità, voglio costruire la mia normalità… faticosamente». Egli evoca qui il concetto di “donna di regime”, propagandata dai cinegiornali Luce del ventennio: una donna che è brava massaia, cucina con bravura e dedizione, servizievole verso il marito, perfetta conduttrice degli affari domestici; muta e gioiosa compagna come è Giulia (che, infatti, viene mostrata, con un lento carrello all’indietro, inginocchiata davanti al confessionale).

Marcello è dunque pronto a vivere in questo idilliaco contesto, con accanto un sorridente angelo del focolare, però egli non crede nella religione, anzi è convinto che solo la società possa giudicare la sua vita; così quando viene incalzato dal confessore a proposito del pentimento, risponde seccamente: «Voglio che il perdono me lo dia la società. Si, mi confesso oggi per la colpa che commetterò domani». Arroganza che dimostra la consapevolezza delle sue scelte: egli è conformista perché decide scientemente di “annegarsi” nella massa per nascondere la sua “diversità” agli occhi degli altri. La sua è una condanna alla passività raffigurata nel film attraverso il concetto di sguardo. Se per gran parte della pellicola, Marcello agisce come voyeur osservando ossessivamente l’agire altrui (ed incarnando il ruolo di spia), nei momenti più intimi e riflessivi emerge in lui una cecità latente. Se questa appare più volte come simulata (sui titoli di testa dove si copre gli occhi con le mani, all’EIAR dove si addormenta…), in altri momenti assume il significato di metafora del fascismo stesso. In due casi specifici, questo concetto viene esplicitato e reso tangibile: durante la festa dei ciechi (che in realtà è l’addio al celibato di Marcello) e nel viaggio finale verso la Savoia, per poi essere ulteriormente evocato (ma con modalità diverse) attraverso l’enunciazione del Mito della caverna di Platone.

La cecità è dunque un simbolo, ma ancor di più una scelta che pone la figura del conformista come colui che elargisce al regime fascista un “silenzio-assenso” scevro di pregiudizi e di motivazioni. Durante la festa organizzata dal’ amico Italo Montanari, Clerici è l’unico vedente e nel seminterrato in cui si svolge il convivio (altra scelta che determina l’occultamento sotto terra degli agenti dell’OVRA e ne sancisce la mimesi nel tessuto sociale), interroga l’amico sul concetto di normalità: «Come è un uomo normale secondo te?». Montanari, con pacatezza, risponde sereno e convinto: «Per me, l’uomo normale è quello che si volta per la strada per guardare il sedere di una bella donna che passa, e scopre che non è il solo ad essersi voltato e ce ne sono almeno cinque o sei. Ed è contento se scopre gente uguale a lui, i suoi simili; perciò gli piacciono le spiagge affollate, le partite di football, i bar del centro…», qui Marcello lo interrompe e aggiunge: «…e le adunate oceaniche a Piazza Venezia», poi Italo riprende il discorso: «Ama quelli che sono come lui e diffida di quelli che sente diversi. Per questo l’uomo normale è un vero fratello, vero cittadino, vero patriota…». Marcello nuovamente interrompe il discorso e chiosa: «…vero fascista!». Italo si siede vicino a Marcello, lo interroga sul fatto se egli concorda o meno con lui e mentre dice: «Si lo so che sei d’accordo, io non mi sbaglio mai», l’inquadratura abbandona il campo medio per mostrare il dettaglio delle scarpe spaiate di Italo. In questo breve scarto figurativo è racchiuso il dubbio che lacera l’animo di Clerici: il suo sguardo cade sulle scarpe del cieco e l’immagine mostra una discrepanza rispetto alla parola («io non mi sbaglio mai»), e sottolinea con forza l’apparente e fittizia sicumera dietro a cui si nasconde il fascismo.

 

 

La sicurezza è determinata solo dalla forza, imposta con la violenza dello squadrismo prima e della polizia segreta poi. La forza dell’OVRA e del suo sistema criminale è perfettamente incarnata dall’ “Agente Speciale in Servizio Manganiello” (nomen omen, ma nel romanzo, egli appare invece con l’anonimo nome di Orlando). Questi è come una sorta di Caronte che traghetta Marcello verso i meandri più oscuri e indicibili dell’agire fascista. Manganiello che agisce esclusivamente in funzione del motto: «tutto per la famiglia e per la patria», per tutto il film mantiene un atteggiamento bonario e sornione (escluso l’episodio di Alberi) animato da una rozza efficienza investigativa. Solo nel finale svela la sua vera anima criminale, di uomo uniformato all’ordinamento fascista, attraverso il monologo pronunciato nel bosco della Savoia dopo l’omicidio di Quadri, in cui manifesta tutto il suo disprezzo per gli uomini “passivi” come Clerici: «Che schifo, l’ho sempre detto io: fatemi lavorare nella merda ma non con un vigliacco. Per me, vigliacchi, invertiti, ebrei sono tutti una razza…fosse per me li metterei al muro tutti assieme… anzi, bisognerebbe eliminarli subiro appena nati». Parole che esplicitano l’anima più “rumorosa” del fascismo, quella viscerale della squadrismo, che agisce in modo complementare al “silenzioso” spionaggio dell’OVRA. Manganiello è dunque una sorta di “guida infernale” che accompagna, suo malgrado, Marcello verso il bosco della Savoia e verso la vista della morte.

Durante il viaggio è lo stesso Clerici ad evocare il binomio cecità-fascismo attraverso il racconto di un sogno (ad occhi aperti?) che mette in relazione mandante, sicario e vittima come i tre vertici del triangolo in cui agisce l’OVRA ed evocando l’irrazionale della fuga amorosa come unica via di uscita dal conformismo e dal declivio mortifero su cui sta precipitando. La macchina corre veloce nel freddi boschi della Savoia, circondata dal bianco della neve invernale, e dal suo interno Marcello Clerici racconta: «Manganiello, che strano sogno che ho fatto. Ero cieco e voi mi portavate in Svizzera per farmi operare… ed era il professor Quadri che mi operava. L’intervento riusciva, riacquistavo la vista e partivo con la moglie del professore». Manganiello, che da pragmatico uomo di regime, sa che quello di Marcello è destinato a rimanere un sogno, reagisce con indifferenza e, quasi canzonando il racconto appena ascoltato, rievoca una canzone d’infanzia sulla Svizzera e coinvolge nella burla puerile anche il suo quieto passeggero. Durante il viaggio con Manganiello, in Marcello cresce la convinzione di essere realmente integrato nella “normalità fascista”; in realtà egli non è mai diventato endemico al sistema, proprio a causa di quella sua diversità che cerca continuamente di nascondere, quella stessa che è disprezzata da Manganiello ed è proveniente da tare ereditarie di classe.

Marcello Clerici è figlio di genitori borghesi, di quella stessa classe sociale che si è oltremodo arricchita durante e dopo la prima guerra mondiale, per poi adagiarsi nell’opulenza ed iniziare un lento e progressivo processo di decadenza. La rappresentazione della famiglia borghese che emerge da Il conformista, è devastante: il padre dopo essere stato squadrista e torturatore asservito al fascismo della prima ora è ridotto a un vegetale folle e auto-compiaciuto, rinchiuso all’interno di un manicomio; la madre divenuta schiava della morfina, trascorre i suoi giorni dentro una grande villa in disfacimento, tra sporcizia e disordine, dipendente sessualmente da un autista giapponese che si crogiola nelle sue ricchezze; Marcello, infine, nasconde la sua “diversità” decidendo di mettere al servizio del regime le sue inclinazioni al crimine, diventando uno dei tanti italiani aderenti ad un consenso forzato e auto-assolvendosi da ogni colpa pregressa e futura.

Eppure il tarlo del dubbio, così come la consapevolezza della sua normalità di facciata, persistono in lui, come si evince dal primo incontro con Quadri nella casa di Parigi, dove egli stesso evoca l’ “assurdità” del fascismo in relazione al Mito della caverna. Marcello è un uomo che semplifica, divide il mondo in modo manicheo, non accetta l’ambiguità e la complessità. Non condivide una realtà plurale, sfaccettata e contraddittoria, perché il conformista ha bisogno di un’unica certezza: quella di incontrare altre persone somiglianti. Per questo l’incontro con Quadri suscita in lui un misto di avversione e fascinazione, ed è per questo che il mito Platonico serve da cartina di tornasole della sua intrinseca “diversità”. Quello tra i due uomini è un confronto (mai uno scontro) padre-figlio, avvolto in un complesso edipico latente e mai manifesto. L’incontro tra un fascista straziato dal dubbio ma altrettanto fermamente deciso ad allontanarlo da sé, è un “vecchio” e logoro intellettuale anti-fascista trasparente nella sua impossibilità di incidere sulle vicende italiane. Lontano, esule, teorico, ridotto a mera figura monodimensionale (la silhouette) dalla luce proveniente dalla finestra, il professor Quadri è assimilabile a tutta la classe politica autoreferenziale che agisce all’opposizione nei mesi della crisi innescata dal delitto Matteotti. Di fronte a lui un ex studente che gli rinfaccia di aver abbandonato i suoi studenti, che con la sola presenza lo costringe alla vergogna e alla “fuga” (si nasconde nell’ombra e si nega alla vista di Marcello).

 

 

La metafora plurisignificante del “prigioniero” di Platone, entra nel tessuto narrativo per raccontare l’Italia durante il ventennio: i suoi abitanti, obnubilati dalla forza del potere e accecati dalla luce emanata dal fuoco scambiano per vera la realtà che vedono e non si accorgono che quella che passa davanti ai loro occhi è solo l’”immagine della realtà”. Il fascismo è un’allucinazione collettiva che vede uomini e donne aderire compulsivamente ad un sistema criminale e distruttivo. L’annichilimento del pensiero dell’individuo e la coercizione verso un “pensiero unico” trovano nell’atteggiamento passivo di Clerici una forma di adattamento alla “normalità”. Il conformismo del giovane emissario dell’OVRA è comune a tutti coloro che vivono nell’indifferenza e nell’opportunismo un sistema di regole imposto violentemente. Per questo, al ristorante, quando Quadri afferma: «Clerici, mi ero convinto che lei fosse il tipo dell’italiano nuovo», Marcello gli risponde: «È un tipo che non esiste ancora, ma lo stiamo creando». Il suo parlare al plurale («stiamo»), oltre a denotare le cieca acquiescenza all’”ordine” e allo status-quo, si integra perfettamente con il suo compito di delatore: egli deve “solo” consegnare a Manganiello il biglietto con l’indirizzo della casa della Savoia. Compito facile, «avvicinare il Quadri, infondergli fiducia» (diceva il colonnello al Ministero), per poi intascare le cinquemila lire di stipendio. Il viaggio a Parigi, per la missione, coincide con il viaggio di nozze: «tutto per la famiglia e per la patria», appunto.

Nella scena, ambientata nel bosco della Savoia, Clerici osserva, dietro i vetri appannati e chiuso nella sicurezza dell’abitacolo l’evolversi dell’azione criminale: non interviene, non parla, rimane immobile. In questa scena i dettagli scompongono i corpi degli attori, privilegiando il primo piano come elemento empatico. In breve tempo si susseguono gli stacchi che disegnano il profilo della morte. Né Marcello, né Anna possono ritagliarsi uno spazio-altro rispetto a quello a cui sono condannati: l’abitacolo (per lui) e il bosco (per lei) sono frammenti di un mondo stretto in un legame mortifero. Marcello, come un entomologo riesce a perforare la visione statica del volto di Anna e a vederne l’altra dimensione, (cioè quella della morte). Alla donna sparano alle spalle, ma noi ne vediamo il volto ricoperto di sangue, come se l’immagine proposta fosse quella della morte “immaginata” preventivamente da Marcello. Scelta opportuna, e non casuale, che determina la passività del conformista come connaturata ad una scelta precisa e consapevole. Un comportamento razionale dunque, innervato in un tessuto sociale sfilacciato e terminale, legato ad una società inerte.

Guardare e “immaginare”, immoti nella propria adesione alla massa (che, a parole, egli rifiuta), questo, sembra essere il fine ultimo del conformista, anche di fronte alla morte della donna amata (ma forse solo desiderata). Il desiderio di Marcello rimane sospeso nella “permanenza del possibile” in una dimensione interiore e astratta perfettamente sovrapponibile all’immagine ctonia del fascismo e alla sua città simulacro: Roma. Nel film Il conformista, il fascismo aleggia su ogni fotogramma attraverso la sua immagine. Mussolini compare solo come un feticcio: in un busto al Ministero, in una foto sulla parete nel locale della festa dei ciechi, e nella testa di bronzo trascinata su Ponte Milvio al momento della caduta del regime. Per tutto il film si avverte la presenza incombente della dittatura, ma non si vede mai la realtà totalitaria, perché di questa ne viene mostrata solo l’idea rimasta nella memoria. A distanza di anni, ciò che interessa a Bernardo Bertolucci è solo l’evocazione figurativa di un periodo storico: questa viene raffigurata attraverso i volumi e gli spazi dell’architettura razionalista e mediante l’immagine bidimensionale degli uomini di potere che hanno attraversato quegli anni. Manganiello, il Ministro, il fiduciario Raul di Ventimiglia, sono soltanto proiezioni semplicistiche degli uomini di regime. Bertolucci vuole fortemente sottolineare l’inconsistenza ontologica del potere fascista, fatto di uomini rozzi, ignoranti e “vuoti”, mera coreografia (necessaria) di un abbaglio collettivo.

Il finale claustrofobico, in cui l’uomo di spalle siede di fronte ad un fuoco che illumina il letto del giovane pederasta, se da un lato sancisce il suo ritorno alla “diversità”, dall’altro condanna Marcello ad una pena infernale. E proprio l’immagine conclusiva sottolinea la dimensione “infernale” del conformista: stretto tra le sbarre delle inferriate di quella prigione (non più dorata) che egli stesso ha voluto, fortissimamente, costruirsi. Quello sguardo in primo piano che chiude il film è ricolmo di rimpianto per la vita non-vissuta, ma è anche un monito (morale e non-moralista) diretto allo spettatore (Marcello guarda dritto in camera) affinché non si chiuda nello stesso labirinto e non cada nella trappola del conformismo, amplificato dalle parole provenienti dalla canzone diegetica che udiamo in sottofondo: «Folla che canta / t’allontani da me / nella vita cos’è che ti manca / forse tu vai cercando l’amor / che questo cuor non ti sa dar…». (Nel romanzo Marcello muore con la sua famiglia in seguito ad una sventagliata di mitragliatrice proveniente da un aereo, che colpisce la macchina su cui sta viaggiando verso Tagliacozzo)

Fabrizio Fogliato

 

 

IL CONFORMISTA
Regia: Bernardo Bertolucci • Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci dall’omonimo romanzo di Alberto MoraviaFotografia: Vittorio Storaro • Montaggio: Franco “Kim” Arcalli • Musiche: Georges Delerue • Scenografia: Ferdinando Scarfiotti • Costumi: Gitt Magrini • Produttore: Maurizio Lodi-Fè • Produttore esecutivo: Giovanni Bertolucci • Interpreti: Jean-Louis Trintignant (Marcello Clerici), Stefania Sandrelli (Giulia), Dominique Sanda (Anna Quadri), Gastone Moschin (agente speciale Manganiello), Pierre Clémenti (Lino Semirama), Enzo Tarascio (Luca Quadri), José Quaglio (Italo Montanari), Fosco Giachetti (il colonnello), Yvonne Sanson (la madre di Giulia), Milly (la madre di Marcello), Giuseppe Addobbati (il padre di Marcello), Antonio Maestri (Don Lattanzi), Christian Aligny (Raoul), Pasquale Fortunato (Marcello a 13 anni), Alessandro Haber (Senigallia, il cieco ubriaco) • Case di produzione: Mars Film, Marianne Productions, Maran Film • Paese: Italia, Francia, Germania Ovest • Anno: 1970 • Durata: 108′-112′

HOMEVIDEO: DVD



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