Quando, mentre scrivo, mancano poche ore all’inizio del Festival di Locarno, puntuale come i mali di stagione, arriva la prima polemica. A lanciarla, è di nuovo – come già lo scorso anno – l’editore svizzero italiano Armando Dadò, che in un editoriale pubblicato dal Corriere del Ticino (“Festival, uno strano premio all’onore”, martedì 2 agosto) si scaglia contro il Pardo d’onore attribuito al regista Abel Ferrara. Un regista di cui – ça va sans dire – non sa assolutamente nulla tanto che, dopo avere letto le poche righe che ha trovato su Wikipedia e non prima di avere precisato che non si tratta di Giuliano Ferrara, lo definisce “regista, attore e sceneggiatore americano del genere splatter”, “regista di seconda categoria”, i cui film sono “sono popolati soprattutto di horror, di tradimenti e violenza in ambienti di metropoli infernali, di profanazione, con scene in cui la cubista lecca il cane (Leccava la lingua del cane, per la precisione. n.d.r.), il Cristo è pieno di bava, la suora è stuprata, i cadaveri sono fatti a pezzi e messi in scatola”.
Ora, qualsiasi critica e polemica è sempre benvenuta – come del resto afferma lui stesso, che loda la “critica autentica, che sgorga da sentimenti autentici, che non è soggetta alla moda, non gregaria delle convenienze del momento, non schiava dei desideri della nomenclatura, non arresa al coro del belato ufficiale e ufficioso” – ma si esige che almeno chi la propone sappia di cosa sta parlando.
O ne abbia almeno una pur vaga idea.
Abel Ferrara, regista magari non per tutti i gusti, non è certo quello che descrive lui (serve una prova? Qui è possibile trovare qualche esempio di critica, non sempre benevola, nei suoi confronti). È sì un regista un regista controverso (e dai risultati discontinui) ma è un autore che sa raccontare il suo e nostro tempo, non certo tempi facili o morbidi, e certamente con un suo peculiare gusto per la provocazione. Un autore riconosciuto come degno di essere considerato tra i più interessanti della sua generazione.
Non pago, Dadò mette le mani avanti, precisando che il “ben oliato direttore artistico” (di cui, spiega, non è noto il compenso, un cavallo di battaglia tra i più triti di qualsiasi buon reazionario che ritiene che il denaro speso per la cultura sia denaro gettato), troverà forse sostegno nella sua scelta da “eruditi e uomini di corte”. In queste pagine non si troveranno né gli uni né gli altri. Si potranno però trovare però persone che il cinema di Ferrara lo conoscono per averlo visto. Persone che lo hanno elogiato e criticato. Persone che ne conoscono e riconoscono l’importanza e che mai si sognerebbero di considerare il regista come un “fenomeno di moda”. Persone che, conoscendone il cinema, non hanno sollevato il sopracciglio alla notizia del premio alla carriera.
Dadò, invece (e verrebbe la tentazione di citare la sua biografia da Wikipedia, se esistesse), è colui che lo scorso anno si era scagliato furibondo contro la presentazione al festival di “L.A. Zombie” di Bruce LaBruce (due mesi dopo e sempre per sentito dire), scegliendo di scrivere un durissimo editoriale su “La rivista di Locarno”, da lui edita, e poi ripreso da molta stampa (“Il Festival precipita nel fango”. E ancora: “Oliver Père: un disastro. Il gusto del disgusto”), non mancando di inviare ad addetti ai lavori del giornalismo e della politica, Consiglieri federali, ministri ticinesi, municipali, direttori di testata, alcune foto pornografiche, a suo dire tratte dal film, per dimostrare la scarsa qualità della scelta e scagliarsi contro la scelta del direttore artistico Olivier Père.
Non aveva visto neppure quello.
Le immagini da lui fatte circolare – palesemente foto posate in studio e non tratte dal film – non corrispondevano in nulla al contenuto del film di LaBruce, che pure delle fotografie era l’autore, film che a Locarno era passato nella sua versione non pornografica che poi ha fatto il giro di altri festival.
Ora, a distanza di pochi mesi, Dadò trova “strano questo premio alla carriera e all’onore”.
Se a Dadò piace la polemica, cosa assolutamente legittima, si documenti su ciò su cui intende polemizzare. Guardi i film, non si limiti a leggere Wikipedia o a cercare immagini in internet. Altrimenti le sue accuse di servilismo da parte della critica e del giornalismo locale non potranno che rivoltarglisi contro.
Dadò conclude: “Ma a chi giova in definitiva questo strano premio? Alla città o al direttore festivaliero?”.
Non lo sfiora il dubbio che a giovarne sarà soprattutto il pubblico?
P.s.: Voglio offrire a Dadò un nuovo, serio, spunto polemico: la retrospettiva è dedicata a Vincente Minnelli e comprende ovviamente alcuni musical. Non è che vedendoli i giovani frequentatori del festival potrebbero sentirsi spinti a mettersi a cantare e ballare improvvisamente mentre camminano per strada?
Rapporto Confidenziale
Roberto Rippa, Alessio Galbiati
L’articolo (Corriere del Ticino, 2 agosto 2011, pag. 16):