Amore e morte nel giardino degli dei
Les Pornocrates
Nel 1975, si svolge a Parigi la prima (e unica) edizione del Festival del Cinema Pornografico, in cui Claudine Beccarie viene incoronata come miglior attrice per le sue performance in Penetration di Lasse Braun (Alberto Ferro) e, soprattutto, Exhibition di Jean-François Davy.
L’attrice rappresenta per il cinema hard francese ciò che Linda Lovelace è stata per quello statunitense, diventando autentica musa di un gruppo di autori non allineati racchiusi dentro una sorta di manifesto ideologico post-Nouvelle Vague e denominati “Les Pornocrates”.
Claudine Beccarie è nata il 19 Giugno 1945 a Cretti, una piccola località transalpina. Nonostante sia stata negli anni ’70 la diva indiscussa del cinema hard-core francese, le notizie sulla sua vita sono scarse e contraddittorie. Si vocifera che prima di entrare nel mondo del cinema, facesse la prostituta a Marsiglia, e che più tardi gestisse un pub a Grenoble in cui si esibiva come entreneuse. Nonostante sia stata pubblicamente chiacchierata per essere stata colei che per prima ha travalicato le barriere del soft-core (in stile Emmanuelle (1974) di Just Jaeckin), e per alcune sue dichiarazioni scandalose, l’autoritratto che di lei esce da Exhibition, contraddice in gran parte quanto su di lei detto in precedenza. La donna è stata ballerina e modella fotografica prima di diventare attrice (la Beccarie sostiene di aver preso parte durante il suo periodo spagnolo ad una serie di film comici di cui però non si ha traccia) e, una volta tornata in Francia, è diventata la musa ispiratrice di quel milieu cultural-cinematografico formatosi dopo la stagione della Nouvelle Vague. Jean-Marie Pallardy, Alain Payet, José Benazeraf e Jean-François Davy intraprendono un percorso di sperimentazione attraverso il cinema pornografico in cui intravedono enormi potenzialità innovative legate sia all’aspetto narrativo che a quello filmico.
Il cinema de “Les Pornocrates” viene definito in Francia come “Porno-chic” e ruota quasi interamente attorno ad una triade di attrici: Claudine Beccarie, Brigitte Lahaie e Sylvia Bourdon, la cui attività diventa vero e proprio fenomeno di costume (secondo le statistiche ufficiali del tempo, in Francia i fruitori del cinema pornografico sono oltre ventiquattro milioni). La stessa Beccarie, con un misto di ingenuità e spavalderia, dichiara a proposito di questo pubblico di massa: “Mi piacerebbe che il pubblico ritrovasse il gusti di un certo romanticismo. La pornografia e l’amore! Si dimentica troppo facilmente che non si tratta di orgia. Quella è ciò che chiamo la bassa pornografia. Quelle cose schifose che non hanno nulla a che vedere con la vera pornografia” (L’Organe numero 1, Settembre 1975). All’apparenza, dunque, “Les Pornocrates” hanno un pubblico sterminato pronto a seguirli nel loro percorso, anche perché durante quello stesso anno, il governo di Giscard D’Estaing liberalizza la pornografia, consentendo al cinema hard di convivere accanto a quello ufficiale, al punto che non sono pochi i registi che attraversano la barriera (tra i quali Jean Rollin, Francis Leroi e persino il vecchio e stimato Paul Vecchiali). Il termometro che misura questa febbre è il Festival di Cannes del Maggio 1975 in cui Sensations di Lasse Braun, viene proiettato trionfalmente per sette sere consecutive, mentre Exhibition gode di un passaggio nella prestigiosa sezione “Perspectives Cinéma Français” e viene acclamato tanto dal pubblico quanto dalla critica. In poco tempo, il porno, quindi, entra direttamente nella distribuzione nazionale, sia con prodotti autoctoni che di importazione. Exhibition, nelle prime diciannove settimane di proiezione a Parigi incassa la ragguardevole cifra di 10.278.837 franchi. Questa atmosfera libertaria, “folle” ed eccessiva, si chiude definitivamente solo un anno dopo, quando sulla spinta di associazioni di ispirazione cattolica, rappresentanti politici di ambo le parti e una campagna stampa martellante e ossessiva, il 14 Gennaio 1976 viene emanata un’ordinanza ministeriale che porta i film porno nelle sale specializzate, mentre nell’ottobre dello stesso anno la “Legge X” ghettizza definitivamente il porno, rinchiudendolo (nuovamente) nella semi-clandestintà.
Exhibition: l’anima e la carne
Exhibition è un intreccio abilmente costruito in cui una lunga intervista a Claudine Beccarie è riprodotta e montata come una specie di autoanalisi in cui l’attrice rivendica da un lato la sua emancipazione e quindi la consapevole disponibilità del proprio corpo e dall’altro racconta le pagine più oscure e controverse della sua esistenza. La struttura ad incastro alterna ad ampi passaggi verbosi e dialogati, sia scene hard girate apposta per il film sia inserti provenienti dal film Les Jouisseuses (1973) di Lucien Hustaix.
Exhibition rappresenta un tentativo (in parte riuscito) di raccontare tanto il lato godereccio quanto quello disturbante della pornografia. Il film va visto oggi lontano da quell’ottica rivoluzionaria e politicamente schierata in cui è stato concepito e analizzato non solo come documento imprescindibile di un’epoca ma anche come esperimento cinematografico innovativo capace di racchiudere e amalgamare al suo interno peculiarità diverse e lontanissime: l’educational, il “cinema verité”, il documentario e la Nouvelle Vague, convivono in un prodotto che, anche filmicamente, risulta studiato e pensato con perizia, e finalizzato a sviscerare un mondo (quello del cinema hard) allora occulto e controverso. Davy ne svela contraddizioni e falsità, piacere e mercimonio, dolore e compiacimento, mantenendo costantemente un’aura di ambiguità che permette al film di essere apprezzato tutt’oggi. L’operazione regge il peso degli anni perché è costruita attorno ad un assioma ben preciso: l’intrecciarsi tra il racconto della vita della diva con le immagini mostranti la sua professione, è imperniato attorno ad una proporzionalità secondo cui man mano che l’analisi psico-esistenziale avanza (fino allo straziante finale), la pornografia delle immagini scompare, occultata dalla forza dirompente del primo piano di Claudine Beccarie che tra le lacrime confessa al pubblico (lo sguardo è diretto in macchina) la violenza carnale subita da adolescente dallo zio.
Exhibition, dunque, non è solo un film pornografico (di cui tra l’altro mantiene tutte le caratteristiche e peculiarità), ma è anche una docu-fiction sperimentale costruita attorno al concetto di montaggio discontinuo in cui l’interazione tra realtà e finzione è totale e programmatica. Sin dalla prima scena, quella nella sala montaggio, aperta dal ciak del film, si ha l’impressione di essere di fronte alla rivelazione del cinema, quando invece, essendo in sala montaggio, si è di fronte alla manipolazione del cinema. L’intento meta-cinematografico è dunque solamente apparente visto che di fronte alla moviola ci sono Christel Micha (la montatrice), Jean-François Davy (il regista) e Claudine Beccarie (l’attrice), la cui presenza certifica la post-produzione di un film (lo stesso) che in realtà lo spettatore sta già vedendo. Di quanto sia fondamentale il montaggio nell’economia del film, e di quanto questa operazione sia rivelatrice della produzione di senso (attraverso la continuità delle immagini) e del coinvolgimento empatico dello spettatore (attraverso l’associazione delle immagini), è la stessa Claudine Beccarie a darne conferma quando di fronte al passaggio di un suo primo piano sequenziale alle immagini di un amplesso, interrompe la montatrice e afferma: “Un momento, vedi, un attimo fa c’è stato un’inquadratura del viso che mi ha dato fastidio. Vedere quell’espressione dopo tutti quei dettagli sessuali mi è sembrato molto strano. Mi ha dato fastidio vederla montata così”. Incalzato sull’argomento, il regista le chiede: “Tu vuoi dire l’alternanza tra i dettagli di nudo e il tuo primo piano. È così?” L’apparente ipocrisia contenuta nell’affermazione della Beccarie, la quale nei film hard è per forza di cose prima corpo (anzi dettaglio sessuale) che volto, è istantaneamente contraddetta dalla scena successiva in cui è la stessa attrice a dirigere la scena di un amplesso lesbico ipotizzando la presenza della macchina da presa per restituire la migliore inquadratura (m.d.p. che in effetti c’è ma, trattandosi di una scena insertata proveniente da un altro film, non è quella di Davy). Non a caso, la lunga sequenza iniziale che alterna le immagini della sala montaggio, quelle delle riprese in presa diretta di un’orgia lesbica, e quelle della scena insertata, si chiude con le parole della stessa Beccarie che dice: “Ora che è montato ho capito che gli puoi dare qualunque senso”, ed è lo stesso Davy a chiosare: “Hai capito una cosa fondamentale, che si può far credere alla gente quello che si vuole, basta manipolare le scene.”
Data l’epoca in cui il film è girato, quello del regista è un evidente richiamo critico alla “politica del cinema”, secondo cui anche il cinema hard è una forma di manipolazione costruita sull’asse spazio-tempo e in cui la “normalità” è bandita in cambio di un’esasperazione dei contenuti e degli atti. Nell’ottica di Davy, quest’aspetto è subito confermato dal dialogo successivo in cui Hellen e Claudine, raccontano la loro disillusione verso le modalità di proposizione del cinema pornografico in cui tutto è finalizzato a destrutturare la normalità e il mistero dell’erotismo in funzione di un’esaltazione degli aspetti più perversi e deteriori della sessualità. La scena più interessante di Exhibition è comunque quella girata di fronte all’ingresso di un cinema in cui si proiettano film pornografici, e che è montata da Jean-François Davy alternando le riprese delle interviste agli spettatori, con il rapporto saffico tra Claudine e Mandarina. L’intento di questo montaggio parallelo è finalizzato a mostrare la falsità della messa in scena in relazione alla durata oltremisura degli atti sessuali. La dilatazione temporale infatti qui coincide con la confusione ingenerata nel pubblico dal connubio realtà-finzione. La Claudine Beccarie nuda sui manifesti del cinema, non viene riconosciuta dagli intervistati come la Claudine Beccarie in carne e ossa che in quel momento gli pone le domande: uno di loro dubita addirittura che si tratti della stessa persona. Quello che interessa al regista è da un lato riconfermare come ci sia un pubblico vasto ed eterogeneo interessato alla pornografia e dall’altro raccontare al pubblico quanto l’attrazione indotta da essa sia il frutto di una manipolazione artificiale e indotta. In coerenza con quest’aspetto, la scena si chiude con la conclusione del rapporto lesbico e con le parole di Claudine che afferma con amarezza: “Allora bisogna fare a meno dei sentimenti, possiamo dare solo l’impressione dei sentimenti.”
Le ampie sequenze introspettive, si svolgono in luoghi diversi: a casa della madre, nell’attuale appartamento di Claudine, all’interno di un parco e ai margini di un set cinematografico. L’introspezione avviene sotto forma di analisi psicologica in cui Jean-François Davy assume la dimensione astratta dell’istanza narrante (nella scena a casa della madre così come in quella a casa di Claudine egli è sempre fuori campo e la sua presenza è dettata dalla voce-off che pone domande), con l’intento di costruire un’auto-confessione in cui l’attrice metta a nudo esistenzialmente se stessa. L’obiettivo del regista è quello di mostrare al pubblico di quanto possa essere labile il limite tra pornografia tout court e pornografia esistenziale. Il tono del racconto di Claudine Beccarie è sempre malinconico, sincero, ricolmo di rimpianti e tristezza, mentre le immagini ne tracciano la complessità: ne viene fuori un ritratto a 360° in cui emerge l’intelligenza di una personalità sfuggente e affascinante. Se da un lato, infatti, c’è una reiterata volontà da parte dell’attrice di essere chiamata a fare del cinema “normale” dall’ altro, in lei, c’è anche la rabbia per l’ipocrisia diffusa intorno all’ambiente. Non a caso quando il regista le pone domande sui compensi richiesti, è lei stessa a svelare l’ipocrisia del divismo: “Se si tratta di fare la controfigura ad un’altra attrice magari famosa, allora lì aumento la tariffa. perché non mi sta bene che di certe attrici che stanno su tutti i giornali si dica che sono fatte bene quando invece il culo è mio.” Mentre Claudine racconta la sofferenza per non aver avuto un fratello maggiore, per non aver vissuto l’adolescenza a causa dell’aver trascorso il periodo dai quattordici a diciotto anni chiusa in riformatorio, contemporaneamente descrive la sua abitazione come “quella camera da ragazza che non ho mai avuto” e quando, incalzata dal regista che vuole un’opinione su Deep Throath (Gola Profonda, 1972) di Gerard Damiano, afferma sdegnata e infastidita: “Non mi piace fare dei film per gente malata. Il sesso è bello ma il sesso deformato mi disgusta.”
Nella seconda parte del film, Jean-François Davy affronta seriamente e con efficacia il tema tabù dell’orgasmo femminile. Con un certo compiacimento, costruisce un piano-sequenza di dieci minuti in cui Claudine Beccarie si masturba in presa diretta, mentre lo zoom a stringere ed allargare della macchina da presa fissa, indaga il suo corpo alla ricerca dell’intensità del piacere. Quello di Davy è un tentativo alla Gerard Damiano di svelare l’essenza dell’orgasmo femminile, in cui il realismo della messa in scena, l’esasperazione del sonoro, e una musica fatta di suoni e stridii tentano di ricostruire (cinematograficamente), la dimensione dell’orgasmo attraverso l’astrazione. Al termine della sua performance, Claudine Beccarie volge lo sguardo verso la macchina da presa e confessa di aver conosciuto l’orgasmo clitorideo solo a ventitre anni e quello vaginale all’età di ventotto. Il monologo dell’attrice è serissimo ed è ripreso come un educational, attraverso cui mettere a conoscenza il pubblico di un argomento intimo e proibito, ed è aperto dalla domanda programmatica di Davy: “Claudine, tu hai cercato di procurarti un piacere reale?” La crudezza e il realismo della messa in scena di questo piano-sequenza stridono fortemente con le altre scene di amplessi e di orge mostrati nel film, in cui è subito evidente la dimensione filmica e pornografica attraverso la dilatazione della durata e l’artificiosità delle posizioni assunte.
La discrasia è la stessa che si ritrova nel finale del film, in cui si alternano immagini di quotidianità (girate con taglio amatoriale) tra Claudine, la madre, la sorella Nicole e il fidanzato Didier all’interno di un giardino, con quelle di un set pornografico, mentre il dialogo in voce-off di Claudine assume i toni di una confessione estrema e lancinante: quella del racconto dello stupro subito da parte dello zio all’età di quattordici anni e del successivo tentativo di violenza sessuale ad opera di un poliziotto. Nonostante vittima della violenza, è lei a non essere creduta e a essere rinchiusa in riformatorio. Il racconto della violenza si chiude tra le lacrime dell’attrice che, senza essere mostrata, confessa il suo tentativo di suicidio. Nonostante si sia assistito ad un film pornografico, il finale restituisce un senso di amarezza e di impotenza in grado di riposizionare le priorità, e ciò che rimane nella mente dello spettatore è il primo piano flou del volto sinceramente sofferente e rigato dalle lacrime di Claudine Beccarie. Jean-François Davy, infatti, dopo aver “spogliato” l’attrice (non fisicamente ma psicologicamente), ha messo in secondo piano l’esposizione e la rappresentazione dell’atto sessuale, attuando una logica (anche politica) secondo cui la realtà della parola è molto più dirompente della finzione delle immagini. Exhibition, in definitiva, interroga lo spettatore sul ruolo che egli assume di fronte al grande schermo e si chiede, provocatoriamente, se sia una vittima o un carnefice.
Exhibition 2: il piacere e la morte
Il controverso Exhibition 2 (id., 1976-1978) calca ulteriormente la mano sul principio di ambiguità della sguardo e, parallelamente si spinge nell’analisi introspettiva dell’estremo attraverso un personaggio-maschera che non si svela mai completamente ma che fa intravedere la sua fragilità di fondo di fronte alla quale antepone un gusto cerebrale per la provocazione e per l’eccesso ben consapevole che questo faccia parlare di lei: Sylvia Bourdon. C’è nel film – in quello che ne rimane dopo le vicende giudiziarie – una sincerità sorprendente e straniante in cui le risposte delle donna appaiono più crudeli e sferzanti del reale sado-masochismo rappresentato, nudo e crudo, sulla scena.
Jean-François Davy racconta direttamente così le traversie legali a cui il film è andato incontro: “La versione che resta è quella terribilmente mutilata dalla censura. Quando presentai la pellicola per il visto, venne bloccata e, successivamente, sequestrata con l’accusa di “attentato alla dignità della persona”. Il film rimane bloccato per più di un anno. Viene poi rilasciato con pesantissimi tagli e classificato come film pornografico nonostante non ci siano scene di sesso esplicito. E’ un film dal forte impatto sociale incentrato su un problema che esiste nella società e che vuole spiegare il funzionamento delle dinamiche sado-masochiste. Resta il fatto che la versione integrale del film, ormai perduta, era molto più interessante di quel poco che rimane.” (Intervista a Jean-François Davy in L’avant-scène cinema n.550 – Marzo 2006)
Exhibition 2 è oggi visibile in una versione della durata di 66 minuti, totalmente epurata del materiale ritenuto osceno e pericoloso dalla commissione censura. Il girato rimasto segue un breve periodo della vita di Sylvia Bourdon: un viaggio in Grecia, una cena, un’orgia organizzata per godere collettivamente delle sofferenze dello schiavo Yann e una seduta più intima con lo schiavo a cui assistono a vario titolo sia la troupe che un gruppo di amici di Sylvia. Il patchwork, abilmente montato in modo parallelo prima e alternato poi, offre una visione d’insieme estremamente interessante a cui il regista aggiunge la sua maestria nel cogliere l’improvvisazione del momento e nel filmare tutto ciò che succede modificando repentinamente il punto di vista per spiazzare lo spettatore. Il film è un gioco di maschere orchestrato secondo la collaudata struttura ad incastro del cinema-verité. La sua forza è quella di riuscire a mantenere uno sguardo oggettivo permettendo a Sylvia di spiegare con passione le sue azioni e contrapponendo il controcampo dei commenti e delle reazioni di amici e conoscenti. Sylvia è una donna molto intelligente e appassionata, consapevole e cosciente di tutto quello che fa, e pienamente in grado di affrontare qualsiasi effetto che le sue azioni hanno su di lei. La donna ostenta, prima di tutto, il suo esibizionismo totale e, in secondo luogo, il suo entusiasmo per una sessualità senza né limiti né privazione; ma, su tutto, domina la sua apparente felicità. Grazie alla sua intelligenza la donna non getta mai la maschera e il regista va solo vicino a svelare la natura di questo essere umano che al contempo risulta mostruoso e delicato. Nonostante lei voglia far credere il contrario, le sue performance S&M non sono la sua vita ma solo una parentesi, una componente di una sessualità fisica e cerebrale costruita a tavolino per mettere in scena un personaggio, in grado di celare completamente la vera natura della persona Sylvia. Ella, infatti nel film si mostra (e racconta) con una schiettezza talmente sfacciata e strafottente da risultare sospetta.
L’ esibizionismo verbale di Sylvia Bourdon è un sottile e “pericoloso” gioco di equilibrio tra intelligenza e simulazione. Già all’inizio del film sorprende e interroga lo spettatore in tre dialoghi distinti: a tavola si definisce “professionista del piacere” e, all’affermazione di Bercoff: “Brindiamo all’orgasmo…e a cosa altro dovremmo brindare?”, Sylvia replica: “Al mio culo!” Sulla nave, prima, mentre mangia il melone: “Questa roba mi fa venire la pancia…lo sento. Ma è ottima per cagare.” Poi, parlando del suo sedere e mostrandolo, con naturalezza dichiara: “Non posso farmi inculare perché ho le emorroidi”; e, infine, una volta sbracata a Mykonos, di fronte ad una chiesa: “Faccio spesso l’amore davanti alle chiese ortodosse di notte.” Ogni affermazione, ogni provocazione (talvolta fine a se stessa), appaiono come il frutto di una stucchevole ricetta studiata a tavolino. Proprio partendo da questa messa in scena stereotipata della provocazione Davy dimostra la sua bravura di regista nel non cadere nella trappola e nell’ingaggiare, mediante la m.d.p., una vera e propria “guerra” di nervi con la donna per cercare di strapparle la maschera. Lo dimostra, ad esempio, la sequenza che racconta la biografia di Sylvia Bourdon, in cui si alternano le sue parole con le immagini naturali e spontanee di lei nuda immersa belle acque del Mar Egeo: “Appartengo ad una famiglia della borghesia di Colonia. Cattolica. Sono stata sverginata a sedici anni. Avevo già un comportamento aggressivo che ha fatto credere al prescelto che non ero più vergine. Così lui mi ha aperto in due senza esitare. Ho studiato scienze economiche e sono interprete quadrilingue: inglese, tedesco, italiano e francese. Dopo avere fatto l’interprete, ho fatto film porno.” Colpisce, nella sequenza, il conflitto tra immagini eteree e normali delle nudità di Sylvia con il cinismo e l’artificiosità delle sue parole visto che la confessione prosegue, parlando del suo essersi prostituita, così: “Si, l’ho fatto.. ma mi sono fermata al trentacinquesimo… ce l’aveva troppo grosso. Mi ha distrutta” e, quando, incalzata da Davy le viene chiesto che piacere ne ha ricavato l’uomo, la donna chiosa ammiccante: “Di scopare nello sperma degli altri.”
Jean-François Davy, quindi, costruisce la messa in scena di Exhibition 2 senza infingimenti (nel raccontare, sottotraccia, la solitudine di Sylvia) né filtri (sulle sevizie inferte a Yann); egli si compiace (l’uso di Wagner) di rappresentare un romanticismo (nell’accezione sturm und drang) che prende le forme di una libertà impossibile da attuare. Il suo è un film che pulsa di morte, in cui Eros e Thanatos non coesistono ma in cui il secondo si divora il primo. Sin dai titoli, si avverte sia la negazione della libertà (ridotta a mera rappresentazione volgare e ostentata) sia il flirt pericoloso, ma necessario, con la morte (inconsapevolmente?) ingaggiato dalla padrona prima e dallo schiavo poi. A fare da sfondo musicale e lirico al viaggio di Sylvia verso Mykonos c’è “La Cavalcata delle Valchirie” di Wagner (chissà se se ne è ricordato Coppola); la donna integralmente (s)vestita di nero, ad un certo punto, osserva anche una nave allontanarsi all’orizzonte. Ad un certo punto, Davy inquadra (con lo zoom) un’enorme onda che sembra infrangersi sulla nave e travolgerla. Presagi di morte quindi, diluiti lungo tutta la rappresentazione del film e che sembrano trovare compimento nella parte finale della pellicola dove il gioco S&M sempre più violento e rischioso si alterna all’auto-confessione di Sylvia e al suo pensiero sulla morte: “La morte è per me una compagna quotidiana… e non mi fa affatto paura. Fa parte della vita come l’amore o la paura. Prima di morire vorrei dire, se ci riesco di avere vissuto bene…sarebbe straordinario.”
Se il coté politico di Exhibition 2, con la diatriba tra comunismo e religione, con l’ipocrisia della destra (che conviene) e della sinistra (che è l’ideale morale), con l’associazione tra S&M e nazismo, appare ormai del tutto superato ( e pleonastico agli occhi dello spettatore di oggi), non altrettanto si può dire per gli ultimi venti minuti di film (un autentico gioco di specchi), i quali non solo non possono lasciare indifferenti ma sembrano mischiare ulteriormente le carte per confondere lo spettatore. L’incosciente intreccio messo in atto da Jean-François Davy tra sessualità esibita e metafora sociale (il partouze degli amici-professionisti), performance S&M, il colloquio di Sylvia con lo psicanalista e le profonde affermazioni esistenziali della donna, mette a dura prova le certezze e le convinzioni dello spettatore in un gioco di rimandi tra schermo e sguardo che trovano esplicitazione nell’amalgama pericolosa di repulsione e fascinazione presente nella lunga sequenza. Il regista, con un tentativo (smisuratamente) ambizioso (ma riuscito) raggiunge qui due obiettivi: da un lato dimostrare come sia impossibile per il cinema dire tutta la verità su un essere umano, troppo complesso e articolato per essere compresso su pellicola, dall’altro inscenare il sottile limite che separa i ruoli di padrona e schiavo che, nell’ambito del codice di Leopold Sacher-Masoch, sembrano complementari mentre invece è l’ultimo a prevalere sulla prima in una rappresentazione che deve (necessariamente) orbitare e sfiorare continuamente il pericolo di lesioni (quando non di morte). Non a caso, infatti, in Exhibition 2 l’aspetto più interessante (e “politico”) e che più interessa sviscerare a Jean-François Davy è quello che appare più marginale: come ogni essere umano reagisca diversamente di fronte alla violenza (seppur concordata tra pari).
Durante la sessione S&M privata nell’abitazione di Sylvia a Parigi, sono presenti due amiche della donna le quali, per la prima volta, si trovano di fronte ad un rapporto tra padrona e schiavo. Joceyline, per nulla turbata ma anzi compiaciuta, partecipa attivamente e con ardore al gioco tra Sylvia e Yann, infliggendo, con naturalezza sevizie e umiliazioni sullo schiavo; viceversa, l’altra amica Laura si pone con ambiguità di fronte alla situazione, sospesa tra repulsione e attrazione, turbata e piangente, più per il suo comportamento inatteso (se ne sarebbe dovuta andare, invece è rimasta) che per il dolore inflitto a Yann, come lei stessa afferma: “Devo essere un po’ sadica perché non sopporto ma guardo. Non lo so, penso che della droga mi farebbe lo stesso effetto.” Ed è quindi ancora una volta sul punto di vista di chi guarda che si concentra la regia di Jean-François Davy. Tutta la serie di Exhibition, infatti, si muove sul crinale che separa immagine e sgurdo ed è abilmente costruita sulla ambiguità che da questo confronto ne scaturisce: il paradosso dell’esibizionismo.
L’esibizionismo non esiste di per sé se non c’è nessuno che guarda e, soprattutto, esso è costruito sull’inganno secondo cui mentre si mette in mostra il corpo (ma anche la propria interiorità) per scandalizzare e compiacere chi guarda, non ci si accorge di essere solo uno strumento dei desideri, delle fantasie, talvolta delle perversioni, delle ansie e delle paure di chi desidera vedere (e implicitamente conduce il gioco), il quale, come nel rapporto S&M, è lui, il voyeur, a tenere le fila della messa in scena a ordinare e a padroneggiare sul corpo di chi si esibisce, lui decide i tempi e modi dell’exhibition, perché lui è il regista. E’ per questo che in Exhibition 2 la macchina da presa di Davy, sempre mobile e “nascosta” rimane invece fissa nel riprendere con inflessibilità i momenti più brutali e selvaggi delle sevizie che Sylvia infligge a Yann con fruste e coltelli durante l’orgia. La performance necessità del pubblico che pretende di vedere e di spingersi sempre più in là: padrona e sciavo si esibiscono mentre la società, qui rappresentata dai professionisti nascosti sotto le maschere, osserva silenziosa ma partecipe.
Exhibition 79: il corpo e la memoria
Quattro anni dopo Exhibition, il regista Jean-François Davy ritorna sulle tracce di Claudine Beccarie, la quale in quel film si era raccontata in un modo che, probabilmente, neanche lei aveva previsto. L’attrice per Davy si era rivelata come un canale interessante per uno studio più mirato dell’industria del sesso in rapida crescita. Affascinato dalla sua “musa” (dopo le riprese del film del 1975 i due ebbero anche una breve relazione), Davy aveva programmato di tornare da Claudine Beccarie ogni quattro anni per vedere cosa stesse facendo. Ecco quindi nascere Exhibition 79 dove, abilmente assistito dal direttore della fotografia Roger Fellous, il regista racconta la trasformazione contemporanea della donna e dell’industria pornografica. Il successivo episodio avrebbe dovuto essere girato nel 1983 ma l’attrice fece perdere le sue tracce. In questo film troviamo una Beccarie disillusa e malinconica in netta contrapposizione esistenziale con la donna volitiva e spigliata di Exhibition. Niente sesso in questo film, incentrato non sul corpo, bensì sulla personalità, sull’anima di Claudine Beccarie che, all’epoca ha deciso di smettere di recitare davanti alle cineprese. Il regista, che qui rinuncia ad ogni forma di voyeurismo per mettere in scena, a posteriori, la memoria di un’epoca di speranze e libertà andate perdute oscilla, tra il tratteggiare il recente passato dell’industria hard – utilizzando segmenti del film precedente con l’audio distorto e la fotografia slavata e monocromatica, e il presente di un mercato, ormai deprivato di qualsivoglia contenuto e forma, fatto di prodotti amatoriali, performer improvvisati, e minacciato dall’imminente espansione del video.
Abbandonata la carriera di attrice, e dopo un secondo divorzio dal collega performer Didier Faya e un aborto del figlio cercato e voluto (il cui desiderio era già espresso nel primo film), Claudine si è ritirata in un tranquillo paese di campagna per allevare conigli e galline, con l’aiuto un amica-fidanzata di nome Nova. Alla traccia principale, quella dell’auto-confessione della donna, si intrecciano una serie di segmenti (spesso volutamente mantenuti sugli stereotipi di genere e pieni di luoghi comuni) riguardanti giovani coppie datesi all’hard: l’obiettivo di Jean-François Davy è quello di provare ad analizzare la situazione del cinema per adulti alle porte degli anni ’80. Per fare questo Davy sposta l’attenzione su una serie di performer come Richard Lemieuvre (noto come Richard Allan), che racconta il suo infelice matrimonio con Liliane come conseguenza diretta del loro prendere parte insieme a film pornografici; una giovanissima Marilyn Jess (che qui usa ancora il suo vero nome: Dominique Troyes), che si racconta come innamorata e desiderosa di sposare (cosa che non avverrà) il suo compagno-performer Didier Humbert; la relazione malinconica e deprimente, raccontata attraverso l’intimità domestica tra Cathy Greiner (vero nome di Cathy Stewart) e il fidanzato Dominique Hérissou (nei film hard accreditato come “Irissou”). Segmenti che raccontano di un universo centripeto in cui i protagonisti all’inizio si illudono di poter essere liberi e, solo con il tempo, realisticamente, prendono consapevolezza che il loro lavoro sui set pornografici dà come moneta depressione, reciproche incomprensioni dileggio e disprezzo da parte della società (che nel frattempo sta cambiando rispetto alle aperture del decennio precedente).
La forza e il valore aggiunto di Exhibition ‘79 sta proprio nella capacità del regista di cogliere e fissare su pellicola il momento in cui l’illusione del piacere sessuale a pagamento, i facili guadagni dell’industria hard si scontano con le necessità del quotidiano di attori e attrici, mentre fuori, c’è una società che non è più disposta ad accettare la pornografia ma che, ipocritamente, non la nega ma la ghettizza per poterne fruire di nascosto. E’ il momento in cui il giocattolo si è rotto e in cui si deve cominciare a smontare lo spettacolo (non a caso nel film le immagini della Beccarie sono accompagnate da quelle degli operai intenti a smontare un traliccio vicino a casa sua), perché quello che rimane è solo la memoria di un’âge d’or breve come un respiro. Quelle dei giovani performer amatoriali sono vite distrutte che vivono solo nel riflesso patinato dei fotogrammi dei loro film: stanchi, affranti, quasi mai sorridenti, incapaci di avere rapporti sessuali alla sera perché provati dalle fatiche del set, ostinati nel negare l’evidenza (ma le immagini contrastano fortemente con le loro dichiarazioni) sono i frutti di una società che, secondo Davy (qui a facile rischio moralismo) si sta auto-annientando che non ha più desideri reali ma solo iperreali, che vuole vedere sempre di più e sempre meglio. La parabola esistenziale di Claudine Beccarie è quindi il perfetto contraltare del rampantismo giovanile e della sua cecità.
L’attrice, ormai ritiratasi in campagna, vive sola (o al massimo con Nova), si dedica alla coltivazione del suo orto e alla cura degli animali da fattoria, vive lontana dai riflettori e dice che la sua vita e la sua sessualità sono “ad un punto morto”. Racconta le sue ansie, custodisce gelosamente i passaggi più privati del suo passato, si lascia riprendere struccata e naturale, racconta del suo sciopero della fame per le manipolazioni subite da Exhibition negli anni e si entusiasma per le lettere di ammirazione ricevute dai suoi fan. Osserva malinconicamente la pioggia, si indurisce quando Davy le fa notare le sue contraddizioni, sorride di fronte all’accoppiamento dei conigli e scopre la sua fragilità e tenerezza quando parla del rapporto con Nova. Exhibition 79, quindi, è soprattutto un film esistenziale in cui il corpo appare come un simulacro di un passato florido e rigoglioso mentre la memoria è ciò che rimane in un presente grigio, piovoso e incupito. Il tentativo, questa volta è quello di provare a raccontare una società intera nel momento del cambiamento attraverso la figura di una persona: un’attrice che per lungo tempo ne ha incarnato i desideri sessuali. L’operazione di Davy, in questo caso, però è troppo ambiziosa rispetto ai mezzi a disposizione perché Claudine Beccarie non ha né la personalità aggressiva né l’inquietante intelligenza di una Sylvia Bourdon. Inoltre, nel film si avverte anche che il rapporto tra lei e il regista è compromesso da questioni riguardanti il passato (c’è di mezzo anche una denuncia per questione di soldi) e pertanto privo tanto della sincerità dell’originale, quanto della fiducia reciproca per potersi raccontare fino in fondo. Non a caso, Jean-François Davy, in questo film, si riappropria della filosofia della serie di Exhibition solo nel momento in cui padroneggia il materiale che conosce meglio: il rapporto tra immagine sullo schermo e sguardo dello spettatore.
Sorprendentemente, lo fa attraverso una scelta insolita e bizzarra: quella della sequenza dello spettacolino di spogliarello alla fiera del paese in cui risiede Claudine. Quella operata dal regista è una scelta volta a mostrare due cose: da un lato come l’ostentazione del proprio corpo non sia dissimile dalla prostituzione e come il denaro (nonostante le parole di Claudine) sia comunque sempre una necessità, e dall’altro come il voyeurismo porti all’assuefazione e ad una degradante condizione di inferiorità. Lo spettacolino, brevissimo e improvvisato, in cui Claudine si spoglia fulmineamente mentre balla dietro un vetro, avviene in uno squallido baraccone tra cartacce e rifiuti in cui entrano indistintamente uomini giovani e vecchi, donne e coppie con neonati che per pochi spiccioli assistono (o meglio sono testimoni) alla brevissima messa in scena. Dall’alto, da dietro, alcuni bambini tentano di sbirciare all’interno del baraccone per cogliere fugacemente le nudità della donna. E’ una messa in scena di raro squallore in cui la m.d.p. di Jean-François Davy si incunea curiosa per riprendere più che il corpo di Claudine gli sguardi esterrefatti e soddisfatti di questo pubblico di paese che si accontenta delle briciole che cadono dal “banchetto” parigino e dei riflessi di un tempo che fu, qui incarnati dalla bellezza non più giovanissima di Claudine Beccarie. Il regista, dunque, un po’ ipocritamente, sembra dire che oramai tutto e perduto, che solo un ritorno alla natura e ad una vita fatta di fatica e di sudore può rendere felici.
Ma, forse, la sua è semplicemente la presa d’atto che un mondo è finito e che quello che inizia potrà essere peggiore o migliore di quello di prima, ma in cui rimarrà, comunque, sempre la memoria di un’epoca in cui riflettori, lustrini e pailettes hanno provato ad infilarsi tra le lenzuola e tra le nudità degli essere umani alla ricerca di una vita di piacere e godimento per poi accorgersi invece, terminata la sbornia, che si è trattato semplicemente dell’illusione di un attimo, come ben racconta il testo amaro e malinconico della canzone composta da Daniel Longuein che chiude il film sui titoli di coda. Ben diverso dalla marcetta dei titoli di testa che fa di Exhibition uno status-symbol, una parola da usare per rispondere al telefono, al ristorante, per ordinare un caffè…
Rien ne va plus, les jeux sont faits: ricordi di un’epoca, cartoline dal passato
Epilogo del film, Claudine Beccarie nella stalla mentre una vecchia munge una mucca. Davy: “Sei felice ora?”, Claudine: “Molto più che nel ’75. Ti giuro. Niente a che vedere. Nel ’75 era una vita da nulla”. Davy: “Meglio le grandi prospettive”, Claudine: “E le grandi speranze. Posso tutto. Tutto può accadere“. Davy: “Ci vogliono soldi”, Claudine: “No…no, assolutamente no. Ho iniziato con due conigli…” Ecco il testo della canzone di Longuein le cui parole riecheggiano perfettamente spirito e sentimento di Exhibition ’79. “Exhibition / Finiti i filmetti / Exhibition / Son tempi maledetti. Oggi distante dalla vita. Allevi conigli / Exhibition / Un giorno la vita è carogna e tu sei alla gogna / Bambina dal cuore fragile. Bambina dal corpo triste / Exhibition / Seduta tra due sedie / Exhibition…iniziano le insidie. Ora torna a galla ma non rimpiangere nulla / Exhibitiuon / Ritorni te stessa / Exhibition / Una vera leonessa. Dì a te stessa quando soffri, domani andrà meglio. / Exhibition / Destinazione tragica / Exhibition / Fermata neurologica. Cancella dalla memoria i sogni di un tempo / Exhibition / Un’altra vita inizia / Exhibition / Sei tu a condurre la danza. Non hai più bisogno della gloria. Il sole è con te / Exhibition /Scendi alla prossima / Exhibition / Non è stato male / Non guardare le stelle. I proiettori sono spenti / Exhibition / Ecco un finale / Exhibition / Orginale / Mandaci delle cartoline. Dicci che tutto va bene / Mandaci dell cartoline. Dicci che tutto va bene.” •
Fabrizio Fogliato
Exhibition (Francia, 1975)
Regia: Jean-François Davy • Fotografia: Roger Fellous • Montaggio: Christel Micha • Intrepreti principali: Claudine Beccarie, Benoît Archenoul, Noëlle Louvet, Béatrice Harnois, Frédérique Barral, Michel Dauba, Ellen Earls • 110′ (versione originale) 85′ (versione montata)
DVD / Amazon
Exhibition 2 (Francia, 1978)
Regia: Jean-François Davy • Musiche: Peter Dreames • Fotografia: Roger Fellous • Montaggio: Claude Cohen • Intrepreti principali: Sylvia Bourdon, André Bercoff, Jocelyne Clairis, Jean-François Davy, Jack Gatteau • 66′
DVD / Amazon
Exhibition 79 (titolo italiano: Exhibition 80. Francia, 1979)
Regia: Jean-François Davy • Musiche: Daniel Longuein • Fotografia: Roger Fellous • Montaggio: Christel Micha • Interpreti principali: Claudine Beccarie, Richard Allan, Cathy Stewart, Dominique Irissou, Didier Humbert, Marilyn Jess [Dominique Troyes] • 90′