Ivan Gergolet

29. Settimana della critica | Venezia71 | Intervista a Ivan Gergolet,
regista di Dancing with Maria

di Chiara Zanini

 

Nata in Argentina da genitori ebrei russi fuggiti alla persecuzione nei pogrom, legge la biografia di Isadora Duncan e diventa ballerina professionista. Martha Graham le suggerisce di non inseguire maestri e continuare la propria ricerca, che diventerà un metodo per avvicinare anche i più scettici alla danza e alla scoperta di sé. Come aveva fatto con la figlia non udente di un’amica, Maria Fux incoraggia tutti a fare un tentativo, indipendentemente da impedimenti fisici, dovuti a povertà o a resistenze indotte. La sua ricerca si basa sulla valenza terapeutica del corpo che si libera senza ricorrere allo sforzo fisico, dando invece modo al vissuto interiore di liberarsi, inseguendo una libertà che il regista Ivan Gergolet chiama “percettiva e sensoriale”. A 92 anni Maria ha allievi in tutto il mondo.

Ivan Gergolet è un regista italo-sloveno che dopo averla intervistata nell’ambito di un seminario cui aveva accompagnato la moglie è stato rispedito in Argentina da Igor Princic, produttore di Zoran, il mio nipote scemo, che lo scorso anno ha vinto la Settimana della Critica.

 

Chiara Zanini: Dopo aver girato alcuni cortometraggi porta a Venezia71 un soggetto da cui avrebbe potuto trarre un biopic. Perché Dancing with Maria non lo è?

Ivan Gergolet: Pur avendola indagata e averla trovata ricca, la biografia di Maria non è la spina dorsale del racconto del film. Per me era importante seguire il suo lavoro oggi, il suo studio, le persone che lo frequentano e le loro storie. E’ uscito un racconto corale, di cui Maria è il centro, la voce che fa muovere I personaggi e la storia del film.

 

CZ: L’arteterapia funziona se si lascia spazio all’improvvisazione, mentre un regista vuole avere la possibilità di riprendere uno stesso momento più volte. Come ha lavorato con Maria Fux?

IG: Ripetere una ripresa con Maria Fux è qualcosa che non è mai stato preso in considerazione. A volte avrei voluto farlo, ma lei fin dal principio non l’ha permesso. Per Maria nulla è ripetibile, quindi se un momento se n’è andato, non torna più. Lei insegna ad entrare in simbiosi con la musica e improvvisare con la danza quell’attimo, che è irripetibile. All’inizio è stato molto difficile filmarla come avrei voluto ed è stata dura ottenere delle riprese soddisfacenti, ma ora la ringrazio per essere stata coerente con se stessa, costringendo me e la steadycam di David Rubio a inseguirla nei suoi spazi. A volte riuscivamo ad avvicinarci tantissimo, altre volte ci respingeva o scompariva nelle sue stanze. Una danzatrice, anche a novant’anni, sa essere molto sfuggente.

 

 

CZ: Si dice che il mondo della danza sia competitivo e spietato verso chi non si adegua a canoni di bellezza tradizionali. Si può ripensare la danza?

IG: Maria Fux è un’ artista che è sempre stata affascinata dai limiti, del corpo e non solo. Credo che il suo metodo derivi dal suo rapporto con il mondo, dalla sua visione delle cose e dalle sue esperienze personali. Sua madre era rimasta zoppa prima che lei nascesse e probabilmente è stata la persona più influente della sua vita, tanto da dire di se stessa di essere la gamba di sua madre che danza. Cosa succede se si danza a partire dai propri limiti? È la domanda che Maria pone alla sua ricerca. Che è artistica, prima ancora che pedagogica. Ed è una ricerca tutt’altro che conclusa.

 

CZ: Pur trattandosi di una co-produzione tra tre paesi, il suo è l’unico film italiano alla Settimana Internazionale della Critica e, soprattutto dopo il successo di Zoran, in Friuli si parla di una nuova primavera di cineasti.

IG: E’ corretto dire che nella nostra regione si sta raccogliendo ciò che si è incominciato a seminare sette – otto anni fa. Una generazione di cineasti è riuscita ad esordire grazie ad una rete di realtà come il Fondo regionale per l’audiovisivo, la Film Commission del Friuli Venezia Giulia e coproducendo con i paesi vicini. E’ il caso di Zoran, Tir, The Special Need e anche di Dancing with Maria. E’ una regione che ospita festival di respiro internazionale, che parla tre lingue, che ha storia e storie, ancora tutte da raccontare. In questo momento è oggettivamente un bellissimo posto dove fare cinema, nonostante le enormi difficoltà che bisogna affrontare per portare a termine progetti che impiegano tre o quattro anni di lavoro. Detto ciò è sicuramente un momento magico per il nostro cinema, speriamo non irripetibile. Mi auguro che presto, oltre a tutti i cineasti della mia generazione, possa esordire anche una generazione più giovane e che possa sempre esserci continuità e novità.

 

CZ: Quale ruolo dovrebbero avere le Film Commissions presenti nelle regioni?

IG: Dovrebbero copiare dalle nostre!

 

 

CZ: Il cinema è un’industria che valorizza il protagonismo degli uomini molto più che quello delle donne. Un regista che decide di raccontare la storia di una donna, per di più ultranovantenne, si assume quasi una responsabilità. Lei è volato in Argentina per farlo.

IG: Vivevo la responsabilità che avevo nei confronti del film e di tutte le persone che ci hanno creduto da subito nonostante la distanza e tutto il resto. Sono arrivato a Buenos Aires con la borsa della camera e basta. Il resto era tutto da costruire. Nei confronti di Maria Fux vivevo un senso di gratitudine per avermi permesso di filmarla così da vicino, per avermi concesso di filmare momenti che prima non aveva mai concesso ad altri. Forse la responsabilità che sentivo nei suoi confronti era quella di fare un film in cui anche lei si riconoscesse. Ora che anche lei ha visto il film, so di esserci riuscito. Detto ciò, questo non è il mio primo lavoro con protagonista una donna anziana, bensì il terzo. E’ davvero arrivato il momento di smettere.

 

CZ: Maria Fux sostiene che la qualità più alta della danza è la capacità di far incontrare le persone, metterle in contatto. Del cinema invece Lei cosa direbbe?

 

IG: Direi la stessa cosa. I film si fanno prima di tutto con le relazioni, con le persone che si incontrano. Mai avrei pensato di fare un film sulla danza, su una ballerina, a Buenos Aires. Era un mondo per cui non avevo mai provato interesse. Tutto è cominciato per un favore che mi aveva chiesto mia moglie, cioè di far intervistare Maria Fux perché le rimanesse un ricordo di quel viaggio a Buenos Aires. Nessuno in quel momento sapeva che stava nascendo un film. Ed è proprio così che nascono i film, quelli documentari soprattutto, da incontri inaspettati e sorprendenti.

 

 



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