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«Dateci 20’000 dollari e realizzeremo il migliore Fast and Furious di sempre»
Intervista a Joel Potrykus
di Roberto Rippa
articolo tratto da RC numero39
È bene non lasciarsi confondere dall’espressione mite, innocente e anche scherzosa di Joel Potrykus: è uno di quei (pochi) cineasti capaci di prendere il pubblico letteralmente a mazzate, non diversamente dal suo alter ego sullo schermo Trevor Newandyke, che nel suo primo lungometraggio Ape sfoga la sua rabbia sullo spettatore di una sua esibizione a colpi di asta del microfono.
Classe 1977, nativo del Michigan e lì ancora residente, Joel Potrykus non ama concedere ai suoi personaggi uno spazio in cui accoccolarsi e sentirsi sicuri e nemmeno lo concede ai suoi spettatori. Amante dell’horror a bassissimo costo, del Super 8, delle storie che si concentrano sull’estremo quotidiano – mai quello eccezionale – ha scritto e diretto Ape lo scorso anno dopo una manciata di cortometraggi (Gordon, 2007, e Coyote, 2010) che già lasciavano presagire cosa sarebbe accaduto in seguito. Con un attore che definire straordinario non è fuori luogo come Joshua Burge (leggi la sua intervista su RC36), Potrykus realizza un cinema da guerra, realizzato con due soldi, con una troupe ridotta all’osso, la musica a condurre i movimenti del suo protagonista in location rubate, ben distante anche dagli standard del cinema indie americano, sempre orgogliosamente con lo stesso gruppetto di persone di cui si fida e sempre senza muoversi dalla sua Grand Rapids, Michigan, curiosamente città natale di un altro autore anomalo del cinema statunitense come lo sceneggiatore e regista Paul Schrader.
È un autore peculiare, Joel Potrykus, che scrive le sue storie partendo da immagini e, come nel caso di Ape, da un’esperienza personale vissuta a New York quando si esibiva come stand-up comedian (comico monologhista che si esibisce nei club). Forte del rinunciare a qualsiasi fronzolo, Ape è stato il film sensazione lo scorso anno al Festival internazionale del film di Locarno, dove è stato premiato come migliore opera prima e Potrykus come migliore regista esordiente nella sezione Cineasti del presente. Prima dei due premi, aveva goduto di un passaparola che aveva riempito di pubblico le sale del festival ad ogni proiezione.
Sfuggente alle definizioni, con la commedia dai toni surreali a fare capolino nelle scene delle esibizioni sul palco di Trevor, Ape è un film che offre voce alla rabbia di chi si sente impotente di fronte a un sistema che, pur crollando, tenta ancora di tenere in riga i suoi sudditi e che, facendolo, si trasforma anche in ritratto fedele di una generazione non ancora del tutto perduta. Il tutto con un umorismo mai meno che feroce e mescolando Godard, Cassavetes, il Faust di Goethe, ma soprattutto il sentire il cinema proprio del suo autore. Intelligente, sporco, selvaggio e selvatico, punk e nel contempo rigoroso, esilarante e disturbante, soprattutto liberatorio, il primo lungometraggio di Potrykus sembra essere tutto e il suo contrario, riuscendo anche nella mirabile impresa di trasformare i suoi difetti in punti di forza.
Difficile trovare un autore tanto anarchico e altrettanto controllato nella scrittura e nella direzione, altrettanto difficile trovare un autore così libero da non riuscire ad accettare di poter lavorare con più mezzi, nemmeno se questi non fossero comunque causa di interferenze.
Visto quasi un anno fa, Ape è ancora ben presente nella mia mente, tanto presente da fare venire la voglia di fare quattro chiacchiere con il suo autore, proprio mentre è impegnato con la preparazione del suo secondo lungometraggio Buzzard.
JOEL POTRYKUS in Rapporto Confidenziale
Ape (2012) / Recensione
Gordon (2007) / Cineteca
Coyote (2010) / Cineteca
Non sono mai stato a Los Angeles – Intervista a Joshua Burge
Roberto Rippa: Innanzitutto, raccontami un po’ dei tuoi trascorsi. Tutto ciò che so è che sei nato in Michigan, che ancora ci vivi e che hai iniziato a girare film durante il liceo.
Joel Potrykus: Io e mio fratello minore eravamo quel tipo di bambini che sgusciano dalle loro camere da letto per guardare film horror. Indipendentemente dai film che faccio, i miei personaggi sgusceranno sempre dalla loro zona di sicurezza per conoscere un po’ di raccapriccio.
Il college sarebbe stato un obbligo, non c’era modo di evitare che io dovessi studiare ancora dopo il liceo. Non avevo i soldi per andare alla NYU (New York University) o alla UCLA (University of California, Los Angeles) e quindi non pensavo davvero che avrei potuto studiare cinema. Poi, nel corso del mio anno come matricola presso un community college (Istituzioni pubbliche che offrono istruzione per adulti o diplomi superiori attraverso corsi biennali; NdR.) della mia città, sfogliando un catalogo di corsi di laurea ho scoperto che alcune scuole del Michigan offrivano corsi di studio sul cinema. A quel punto, non ci sono state più questioni: finalmente ero entusiasta dell’opzione college. Ho frequentato una scuola che mi permetteva di usare le sue camere a 16mm e i suoi pacchetti per il montaggio senza limiti di tempo. Era entusiasmante! Quella scuola non mi ha più sostenuto in alcun modo dopo avere pagato la mia retta ed essermene andato ma in quel periodo è stato bello.
RR: Quali sono i film con cui sei cresciuto? Tra l’altro, so che sei anche un critico.
JP: Ero preso dai film horror. E avevo una speciale affinità con i film spazzatura a bassissimo costo. Il distributore di VHS Prism (Distributore di oscuri film dell’orrore, splatter e gore in VHS; NdR.) era il mio preferito. È stato bello essere appassionato di film prima di internet perché alcuni film erano misteriosi e impossibili da reperire. Ho trascorso ore da bambino in biblioteca a leggere di Caligola, Arancia meccanica (A Clockwork Orange, Stanley Kubrick, 1971) e La casa (The Evil Dead, Sam Raimi, 1981). Se non erano disponibili nella videoteca in città, allora non c’era modo di vederli. Non ti restava che guardare nelle ultime pagine di Fangoria (storica rivista statunitense specializzata in horror, slasher e splatter. Viene pubblicata dal 1979; NdR.) o pregare che venissero trasmessi di notte dalle reti via cavo. Ero appassionato di “video nasty” (Termine coniato dalle commissioni di censura britanniche per definire videocassette e DVD distribuiti in Inghilterra dal contenuto particolarmente violento. Alcuni tra questi film venivano banditi nel Paese; NdR.). Eraserhead era come il santo Graal: ne sono stato ossessionato per sei anni finché un amico ha finalmente trovato un bootleg giapponese di terza generazione in VHS. Quello è stato un bel giorno.
Tutto il tempo speso in biblioteca mi ha fatto nascere la voglia di scrivere anche di cinema. Mi piace scrivere e realizzare film. E anche sbattere le mie opinioni sulla gente.
RR: Dimmi del fascino che il Super 8 esercita su di te. È il formato che hai scelto per i tuoi Gordon (2007) e Coyote (2010)…
JP: Il Super 8 ha quella grana tipica dei film anni ‘80 a basso costo. Non esiste effetto digitale che possa simulare l’autenticità della sporcizia del super 8.
RR: Ho trovato che Coyote fosse un cortometraggio fantastico. Secondo me, sembra un lavoro di preparazione per Ape. Ne sei (o ne eri, al tempo) consapevole?
JP: Non ho mai pensato che ci fosse una connessione tra Coyote e Ape a livello stilistico o tematico. L’unico punto comune che vedo è che siamo io, Mike (Saunders; NdR.) e Josh (Joshua Burge; NdR.) a realizzare insieme un film. Però capita spesso che la gente noti una connessione, quindi immagino ci sia qualcosa…
RR: Coyote tratta di un uomo come tanti che scopre di essere un lupo mannaro e quindi si lancia sulle droghe per sostenere la sua condizione. Joshua mi ha detto che lo spunto per il film è stato che eravate seccati da come le droghe vengono usate nel cinema. È corretto?
JP: Beh, non direi che eravamo scocciati da come le droghe vengono trattate perché ci sono tanti film che invece lo fanno bene. Bad Lieutenant di Ferrara è uno dei miei “drug movies” preferiti. Non è melodrammatico ma nemmeno una grande festa. È irregolare e mostra le conseguenze. Mi sono solo chiesto cosa le persone reali avrebbero fatto per sostenere la pena di essere un assassino animalesco e privo di controllo. Ho giusto pensato che una persona reale avrebbe fatto affidamento sulle droghe pesanti.
RR: Il film segna anche l’inizio della tua collaborazione con Joshua Burge (trascurando i video realizzati per il suo gruppo Chance Jones e il video Goldenboy che, come lui stesso mi ha detto, è composto da estratti di Coyote ed era un regalo di compleanno), uno tra i più straordinari attori che io abbia visto da molto tempo a questa parte. Come vi siete conosciuto e cosa vi ha uniti nel lavoro?
JP: Joshua è il cantante di una incredibile band Motown-folk che si chiama Chance Jones. Sono popolari qui in Michigan, specialmente a Grand Rapids, la nostra città. Sul palco lui è una sorta di sintesi tra Tom Waits e Michael Jackson. Ho pensato che se avessi potuto incanalare parte di quella frenetica energia in un film, avremmo ottenuto qualcosa di importante. Joshua è un performer intuitivo, ha l’abilità di esistere nel personaggio. È come se non facesse sforzi, ancora non me ne capacito. Andiamo d’accordo, e questa è la parte più importante della relazione tra attore e regista. Ci capiamo.
RR: Trovo che i tuoi film siano molto personali e peculiari, per questo mi chiedevo come fosse lavorare con un attore alle prese con materiale con il materiale che scrivi.
JP: Appunto, ci capiamo a vicenda e mi fido ciecamente di lui. Lavoriamo insieme e costruiamo il personaggio in corsa. Gli concedo libertà totale e penso che lui lo apprezzi.
RR: So della tua esperienza non molto piacevole come comico monologhista a New York. Puoi raccontarmi qualcosa in proposito e spiegarmi come questa esperienza è confluita nel tuo lavoro per Ape?
JP: Facevo quella che chiamo “anti-comedy” (Con anti-comedy si intende un tipo di umorismo che disattende le aspettative del pubblico attraverso battute surreali, volutamente non divertenti o di non immediata comprensione, che trasformano la situazione in un paradosso ironico; NdR.) in Michigan. Un amico stava dietro al palco a produrre applausi e risate da un campionatore mentre io sul palco recitavo battute senza senso. La situazione confondeva ed era divertente allo stesso tempo.
Dopo un po’, la gente iniziava a ridere in modo da sovrastare le risate registrate e così abbiamo dovuto eliminarle dall’esibizione. Quelle strane battute funzionavano da sole, stranamente. Ero annoiato e così ho deciso di portare il mio spettacolo in giro e mi sono spostato sulla East Coast.
Cercare di sopravvivere come comico è difficile ovunque, ma a New York è un incubo. Le mie giornate consistevano nel guidare per un’ora da casa al lavoro presso una stamperia, dove lavoravo dalle 8 alle 17 dal lunedì al venerdì. Quindi, due sere a settimana, un’altra ora di metropolitana per raggiungere Manhattan per il mio spettacolo. A New York, questo significa trascorrere ore alle open mic nights (Le serate a microfono aperto, dove è possibile esibirsi da dilettanti, guadagnandosi eventualmente un ingaggio in seguito; NdR.), per le quali dovevi pagare. Io sono stato fortunato nell’incontrare il proprietario di un club a cui il mio numero piaceva e quindi sono stato “premiato” con l’opportunità di distribuire volantini ai turisti a Times Square. Stavo per due ore al freddo a distribuire volantini mascherati da buoni per poi tornare al club a presentare al pubblico il mio materiale per cinque minuti. I nuovi comici ripetono questo ciclo per sei ore. Se sei fortunato, vieni pagato 1 dollaro per ogni persona che si presenta al club con un buono distribuito da te, che ha le tue iniziali impresse. Io vivevo come un successo il riuscire a coprire le spese di viaggio con la metropolitana.
È la professione meno glamour del mondo dello spettacolo. Ho pensato che sarebbe stato l’ambiente ideale per una storia su una persona arrabbiata con il mondo.
Oh, e si: tutte le battute nel film sono le battute vere che pronunciavo sul palco!
RR: Ape è stato premiato a Locarno con una menzione speciale come migliore lungometraggio d’esordio e hai ottenuto anche il premio come migliore regista nella sezione Cineasti del presente. Dennis Lim ti ha consegnato il premio sul palco definendo il film come notevole, coraggioso e intransigente. Sono aggettivi che ti definirebbero bene, secondo te, o ce ne sono altri che ti si confanno di più?
JP: Oh no, sono più come un codardo che vorrebbe vendersi ad ogni minuto. Fortunatamente, facendo film molto distante dal sistema hollywoodiano, posso permettermi di essere coraggioso. Ma Dennis è una persona straordinaria e se lui vede il film, o chiunque di noi che lo abbiamo fatto, come notevoli, allora va bene. È raro ottenere un encomio così da un’industria logora.
RR: I premi ti sono stati di aiuto nel trovare supporto finanziario per il tuo prossimo film o pensi di lavorare ancora con un budget limitato? E saresti capace di lavorare diversamente oggi?
JP: Diciamo che i premi ci hanno ammantato di credibilità e hanno fatto sì che la gente si fidi ad aiutarci finanziariamente. Però preferisco lavorare ancora con budget molto bassi e con una troupe ridotta. Dopotutto, meno spendi e più tieni per te. Questo è il mio consiglio a tutti voi ragazzi lì fuori.
RR: Hai dichiarato che Ape è stato realizzato soprattutto nel corso dei fine settimana con un budget risibile. Lavorare con pochi soldi significa però anche totale libertà di espressione, senza interferenza alcuna. Ma cosa accade dopo, con la distribuzione per esempio?
JP: Con la distribuzione devi iniziare a pagare per la musica. O togliere tutta la musica che hai rubato sperando di trovarne altra altrettanto buona senza spendere. Fortunatamente, avevamo pronta della musica alternativa nel caso i Ramones non avessero approvato. E così la nostra nuova colonna sonora è migliore di quella originale grazie ai S.O.D, . Worshit, The Amoebas e Crack Abraham.
RR: Com’era composta la troupe?
JP: Ho mantenuto la troupe molto ridotta perché spesso non avevamo il permesso di girare in esterni e in quel caso una troupe ridotta aiuta a rimanere invisibili. Io stavo dietro la camera e non abbiamo usato luce artificiale. Tutto molto naturale. I nostri amici si occupavano del suono se potevano, altrimenti, se un attore era fuori dall’inquadratura, allora usavano il boom mic. Tutto ridotto all’osso. Il cinema tradizionale è la forma d’arte più sprecona che esista. Persino le produzioni a basso costo hanno troppe persone che gironzolano perdendo tempo e soldi. Non hai più bisogno di macchinisti per aiutare con la camera. E io non uso certo carrelli o gru. Ai miei occhi, quella è metodologia superata. Se tenti di emulare Spielberg con un budget di 20’000 dollari, il tuo film apparirà scadente ma se tenterai di emulare i Dardenne con la stessa cifra, allora il film apparirà straordinario. Ovviamente, se tenterai di emulare un altro regista sarà un fallimento.
RR: Sia in Coyote che in Gordon che in Ape, il realismo ha un ruolo fondamentale. È una naturale conseguenza dei limiti di budget che ti hanno costretto a girare nei luoghi reali o una scelta precisa?
JP: Una scelta estetica. Se un film si apre su una ripresa con la camera a mano di un uomo che lavora su una falciatrice, nessun movimento sballottante di camera, nessuna odiosa saturazione di colore, allora sono agganciato. Sono infinitamente più entusiasta di una ripresa come questa che di vedere Spiderman lanciarsi da un grattacielo. E mi sento fortunato per questo. Sono felice che l’estetica abbia un fascino su di me. Harmony Korine ha reso cool usare la luce naturale, allo stesso modo i Nirvana hanno reso cool fare acquisti presso i negozi dell’usato. I jeans usati sono molto più economici dei pantaloni di pelle.
RR: Qual è abitualmente il punto di partenza per te nello scrivere una storia?
JP: L’immagine di una persona. Per Ape è stata l’immagine di un tizio che raccontava battute pessime di fronte a uno specchio. Da lì infilo tutto ciò che voglio. Mi piace stipare le mie storie con molte cose.
RR: E quindi, le tue sceneggiature sono molto precise o lasci spazio all’improvvisazione? Sei aperto ad accogliere suggerimenti dai tuoi attori o dalla troupe?
JP: Normalmente le mie sceneggiature sono molto precise. Sono un maniaco del controllo sul mio lavoro. Però sono anche sempre aperto all’improvvisazione o all’accogliere consigli. Nel corso delle prove, le scene vengono modificate e migliorate. Questo è il punto in cui gli attori contribuiscono di più.
RR: Citi David Lynch, John Cassavetes, Alan Clarke e Lindsay Anderson come fonti di ispirazione. Ma sia in Coyote che Ape ho trovato la stessa anarchia di Godard, la stessa meravigliosa libertà nel raccontare una storia mescolando i generi. Ma credo di avere colto molte altre influenze, la musica, per esempio. In effetti, quando ho visto Ape per la prima volta, ricordi di avere detto che era in un film punk, nel senso musicale del termine. Per la scrittura, il montaggio…
Dimmi della tua relazione con la musica e di come questa entri nei tuoi film.
JP: Ho suonato in una garage band nel corso degli anni del liceo e fino ai vent’anni. La musica guida il personaggio di Ape. Trevor è arrabbiato e oppresso, e le sue cuffie dettano il suo umore. Non c’è colonna sonora in Coyote e Ape, è tutto diegetico. Qualsiasi cosa il personaggio ascolti, lo sentiamo anche noi. Voglio che il pubblico sperimenti il mondo allo stesso modo in cui lo vive il personaggio.
Musica e cinema sono amici stretti. Tutti i miei registi preferiti hanno buon gusto. Non ci vuole molto per realizzare che sollevo il sipario sui miei film come Made in Britain di Alan Clarke e Funny Games di Haneke. Le aperture di quei film mi fanno venire voglia di prendere a pugni qualcuno per allegria.
Voglio anarchia nelle motivazioni dei personaggi e nella struttura della storia ma è quasi impossibile fuggire dalla struttura a tre atti, esattamente come le band punk suonano ancora con la struttura verso-ritornello-verso. La mia attitudine punk rock riguarda più il mio voltare le spalle a carrelli, gru, tre punti luce, assicurazioni, tutte queste tecniche superate che non servono più. E il romanticismo. Per me il romanticismo è morto.
RR: In un momento in cui possiamo vedere tutto il peggio immaginabile giungere da Hollywood, la scena indipendente scoppia di idee e nuovi linguaggi. Cosa le impedisce di avere i sopravvento, secondo te?
JP: Il mondo indie ha avuto il sopravvento molto tempo fa, è solo che è stato annacquato quando Hollywood ha abbracciato la rivoluzione. La maggiori parte dei film indipendenti sono peggiori di quelli usciti da Hollywood. Il settantacinque per cento dei film hollywoodiani sono formulaici e stantii. L’ottanta per cento dei film indipendenti sono formulaici e stantii. È che siamo soggetti a tutto ciò che Hollywood produce, mentre solo il 20% dei film indipendenti ottiene attenzione. La gente non smetterà mai di fare film formulaici e stantii, è nel nostro DNA il fare più cose brutte che belle.
RR: Ma pensi che l’industria sia in grado di riconoscere i nuovi talenti della scena indipendente o tenterebbe di usarli per i loro progetti “sicuri”?
JP: Sì e sì. Nicolas Winding Refn è stato appena assoldato per dirigere il rifacimento di Logan’s Run (La fuga di Logan, 1976, Michael Anderson; NdR.). L’industria ha riconosciuto il talento e gli ha affidato il progetto più sicuro che potesse immaginare. Spero che lui restituisca qualcosa di osceno e offensivo.
RR: E per te è un male essere così lontano dall’industria, geograficamente parlando?
JP: No, è molto meglio. Non sono vittima di interferenze mentre tento di fare i miei film. Non spreco le mie giornate tra meeting con gli esecutivi. Il genere di film che io realizzo in Michigan con 10’000 dollari ne costerebbe 100’000 a un regista a Los Angeles. Non ci sono dubbi, posso cavarmela meglio qui: niente permessi, nessuna assicurazione, nessuna esenzione, nessun sindacato. Posso ancora fare film con persone con cui ho voglia di passare del tempo.
RR: C’è però interesse nella scena indie negli USA? Le persone cercano i film indipendenti nella sale o gira tutto intorno a Netflix, Mubi, eccetera?
JP: Credo che New York abbia ancora una cultura vibrante di cinefili che cercano uscite nuove e indipendenti in piccole sale. Dove vivo io no. È dura per film cool ottenere attenzione qui. Però sono colpevole dello stesso reato. Io scarico i miei film e non vado nella sala indipendente della mia città sufficientemente spesso. Sono solo troppo pigro. Davvero.
RR: Ma pensi che lo schermo di un computer sia il giusto modo per vedere il tuo film?
JP: Ape non ha bisogno di essere visto su grande schermo in una sala buia e rumorosa piena di sconosciuti. Ma è dannatamente meglio in quel modo!way.
RR: Tutti i tuoi film sono prodotti da Sob Noisse Movies, la compagnia che hai fondato a Grand rapids con un gruppo di amici come Ashley Young, Mike Saunders, Kevin Clancy. Come lavorate? E pensi che produrrete film di altri autori in futuro?
JP: Sì, preferisco lavorare con amici e gente che mi capisce. Sob Noisse lavora solo sui propri film. Realizziamo video musicali e normalmente lasciamo perdere se un musicista non rientra nel nostro concetto. Non c’è davvero senso nel lavorare per qualcun altro. È per questo che la compagnia è stata creata: per esplorare le nostre idee. A meno che, ovviamente, non ci paghino un mucchio di soldi. Dateci 20’000 dollari e realizzeremo il miglior Fast and Furious di sempre. Parlerebbe di un uomo che lavora in una fabbrica e guida una Oldsmobile Cutlass del ‘74. Seriamente!
RR: Ape ha circolato tra vari festival nel mondo. Quali sono state le reazioni del pubblico? E ti è capitato di notare differenze nelle reazioni tra Europa e Stati Uniti?
JP: Enormi differenze, questo è certo. Essendo distanti dalla società in cui il film è realizzato, il pubblico europeo tende a vedere in modo più chiaro gli aspetti politici e sociali. E questo ha senso. Tende anche a ridere nei momenti di terrore. Il pubblico statunitense ride talvolta delle battute di Trevor e questo non è mai capitato oltreoceano. Nel loro linguaggio nativo, alcune tra le battute di Trevor sono davvero assurde e pungenti. I monologhi comici non si traducono bene.
RR: Cosa è accaduto negli Stati Uniti dopo Locarno, pensi che i premi ottenuti abbiano aiutato a ottenere attenzione da parte dei distributori?
JP: Senza dubbio. Alcuni distributori molto astuti erano interessati quando siamo tornati a casa. Ci siamo guardati in giro e quindi abbiamo scelto un distributore che aveva capito il film e che aveva un catalogo degno del nostro rispetto. Mi sono sentito rassicurato e onorato dal fatto che Ape venga distribuito con altri film che rispetto e che avevano la sua stessa attitudine. .
RR: Puoi citarmi qualcuno – regista, direttore della fotografia… – con cui ti piacerebbe lavorare? Senza porti limiti.
JP: Mi piacerebbe trascorrere un giorno a osservare Rick Alverson (regista di The Comedy, 2012; NdR.) sul set. Ma se n’è andato dal set di Ape e quindi non credo che riceverò un suo invito prossimamente. Mi piacerebbe resuscitare la carriera di Edward Furlong. Magari come un John Connor, che ha avuto paura e non ha condotto la rivoluzione (John Connor è il personaggio interpretato da Edward Furlong in Terminator 2 – Il giorno del giudizio e T2 3-D: Battle Across Time; NdR.).
RR: So che stai lavorando al tuo prossimo film. Ho addirittura letto un titolo: Buzzard. Puoi dirmi qualcosa in proposito? Leggendo la trama pare essere una nuova storia di ribellione raccontata da un’altra prospettiva.
JP: Sì, si intitolerà Buzzard. Tratta di un tizio che froda il sistema. Sente che banche e grandi aziende gli sono debitrici. Ha un pessimo carattere che alla fine lo metterà nei guai. Parla degli Americani oggi, del loro malcontento e delle loro lagnanze. Si tratta di me al 99% e di un 1% di apologo. Con omaggi a Freddy Kruger.
RR: Cosa pensi sia cambiato in te come cineasta dopo Ape?
JP: La gente mi prende sul serio. ■
Giugno 2013
Crediti immagini
(1) Joel Potrykus / per concessione di Yann Houlberg Andersen
(2) Gordon (still)
(3) Coyote (still)
(4) Ape (still)
(5) Joel Potrykus & Joshua Burge / foto: Tim Saunders
(6) Joel Potrykus, Ashley Young, Mike Saunders e Joshua Burge / foto: Locarno Film Festival
(7) Joel Potrykus / per concessione di Sob Noisse Films
(8) Joel Potrykus – autore sconosciuto
(9) Joel Potrykus & Joshua Burge – per concessione di Katy Batdorff