Dopo 4 anni di fila a Trieste è difficile dire qualcosa di nuovo, è difficile essere sempre diversi (e sempre irrimediabilmente uguali) rispetto a se stessi. Scervellarsi per dare nuovi punti di vista, diagonali ancora non note, non percorse, itinerari cittadini nascosti, da me finora elusi, sorprese e novità. Niente di nuovo sul fronte, stavolta però il fronte è quello orientale, la porta verso i Balcani, questa Trieste che cade a pezzi, lunghi muri scrostati di splendore, palazzi monumentali per coprirti anche solo minimamente dalla bora che irrimediabilmente ulula e sferza il corpo ed il viso, le strade che si inerpicano fra salite, rovine, passano sotto ad archi, cunicoli come se si fosse sopra ad un enorme dente cariato, senza alcuna meta come la maggior parte delle vite, moti vorticosi in cui è l’entropia a far da padrone, ritrovarsi in folle corsa verso il nulla, lasciando dietro di sé nient’altro che polvere…lunghe passeggiate come un unico immenso piano sequenza che va dal molo vecchio sino a San Giusto, una ascesa che si vorrebbe non tornasse mai a scendere di nuovo, una ricerca di rarefazione, di luce. Ed ecco che invece si torna irrimediabilmente verso il basso, tornano a fare compagnia rumori terreni, macchine ed infiniti clacson in mi bemolle, piccoli accrocchi blablanti di quella cantilena talvolta simpatica e molte altre volte odiosa che è il triestino, odore di crauti, flatulenze, suggestioni marittime, barche che cigolano…ed un gabbiano enorme chino ed indaffarato, da lontano non capisco che sta facendo, mi avvicino, volta il capo verso di me e l’occhio scintilla truce, mentre dal becco piccoli brandelli pendono, aggrappati in quella punta acuminata, di un rosso vermiglio…un piccione a terra giace inerte, squartato dal pennuto marittimo, le interiora sparse pronte per un puzzle anatomico di cui sicuramente qualche pezzo è mancante, mentre le piume sparse ai quattro venti se la battono velocemente, sospinte dalla propria leggerezza ora che non sono più attaccate ad un corpo. Il gabbiano mi guarda attento, indeciso se riprendere a banchettare, io indeciso se continuare a camminare o rimanere per capire meglio le mie emozioni a riguardo…rimango. Il gabbiano non demorde, continua a guardare con quello sguardo che posso a ragione dire assassino…allora è così lo sguardo di un killer!? Sembra che torni a darsi da fare sul piccione squartato, poi ritorna con gli occhi verso di me…un monito…che devi decidere, mio caro, cosa vuoi essere, da che parte vuoi stare, se squartare o esser squartato. Io me ne vado, stupito da come l’uomo ricrei da sempre comportamenti naturali anche se da sempre tenta in ogni modo di emanciparsi dalla natura. La storia del mondo non è nient’altro che una ripetizione di catastrofi nell’attesa della catastrofe finale, e così è la storia dell’uomo, vero motore di questo reiterarsi di odii, massacri, squartamenti, perdizioni, olezzi, oblii. Nemmeno il benedetto panino al cotto e kren mi ristabilizza l’umore, nemmeno se annaffiato da gocce di en e malvasia. Ammetto che parto con il piede sbagliato, parto con il piede calzante in pieno un malumore che non vorrei dire esistenziale per non darsi troppa importanza…trovo infatti che darsi troppa importanza, dare troppo peso ai propri drammi, sia sinonimo di arroganza…si muore, ma in fondo ciò è irrilevante. Meglio lavare il tutto con una risata sguaiata e cattiva con la consapevolezza di avere il peso specifico del nulla. Piccole piume disperate che vagano fra una folata e l’altra…mona d’un mona, vado mica avanti molto così, io per lo stato deprimente e voi per i coglioni prossimi all’esplosione! Insomma, diamoci una regolata, per Diana. Allora si, faccio fare lo sporco lavoro alla musica shakerata di Keith Papworth, una sorta di Piccioni o Umiliani inglese (o americano?) che riesce a farmi svagare in questa sera del 28 gennaio sopra a questo tavolo verde acido e di fronte a questa imponente lavagna sopra a cui sta un volto che nei miei intenti avrebbe dovuto essere Eddy Merckx, il cannibale! In pratica la mia cucina. Viaggio con la memoria nelle pieghe del Trieste Film Festival, alla sua ventiseiesima edizione. Per un attimo mi metto la corona in testa, mi auto incenso, mi sbronzo di potere….immagino di essere il deus ex machina del festival, ebbene si.
Szabadesés – Free Fall, György Pálfi
Il TFF inizia con una rasoiata, diretta a tutte le impellicciate, a tutti i benpensanti, a chi va solo all’apertura dei festival sfoderando termini à la page, a chi «Hai visto chi c’è? Mamma mia come è invecchiato…», a chi vede il mondano anche in una bevuta al baretto di quartiere, a chi insomma vuole andare alla prima perché è la prima e sa già quello che vedrà. Bene, per tutti costoro faccio iniziare il festival con l’ultima fatica di György Pálfi, Szabadesés – Free Fall. Caduta libera. Caduta libera senza paracadute. Caduta libera con allegata vertigine. Caduta libera che libera. Una vecchia signora, grassa, foruncolosa, immagini geriatriche, mento traballante, probabilmente esami sballati, picchi glicemici, colesterolo, transaminasi, analisi come tripudio di asterischi ammonitori, adipe strabordante, capello con tinta azzurrina, bigodini…tenta di instaurare un dialogo con un marito dalle orecchie felpate, totalmente incurante alle domande della moglie, il matrimonio negli anni ha asfaltato ogni sembianza di umano rapporto. Le parole cadono inascoltate, si frantumano a terra pronte per una passata di swiffer che ne tolga ogni minimo ricordo. E allora la vecchia continua con le mansioni di casa…un arrosto, un po’ di soap opera, una lavatrice…ma nonostante più si vada avanti e più si è vaccinati alla vita, la nostra eroina in un guizzo vitale ha un’idea mortale. Sale piano le scale, carrellino della spesa a mano, il corpo grasso che le fa accorciare il fiato, la carcassa fisica e morale in una difficoltosa ascesa, apre la porta del terrazzo, guarda di sotto, si butta! Cadere nel vuoto per riempire un vuoto, succubi della gravità per avere ambizioni di levità, amare la vita e per questo decidere di reciderla per troppo degrado. Il volo dura sette piani, la massa è tanta, il tonfo è un mix di scricchiolii e squassamenti, come se a schiantarsi al suolo fosse stato un sacco di pomodori maturi…tutto poi è silenzio. Il silenzio che corona la morte. Lo stesso silenzio che è all’opposto della vita, che si compone invece di mille e più rumori, a partire da quelli corporei..il battito cardiaco, il respiro…tutto giace a terra, ammantato di mistero…poi un piede si muove. La vecchia ha una pellaccia che dire dura non basta, si rialza in piedi, controlla di avere tutto in ordine, raccoglie la ruota del carrellino. E ricomincia suo malgrado a salire tutti i piani, fra mille rumoretti di ossa e cigolii di rotule. Ed ecco che Pálfi, con volo fantastico, ha il pretesto per farci visitare i vari inquilini del palazzo, di cui ci fa entrare nelle case. Il maestro yoga un po’ venditore di pentole e un po’ venditore di sogni, di grazia ed esotismo che viene scavalcato dall’allievo, il padre che in casa ammanta di violenza ogni gesto causando incubi nel figlio, la coppia rupofobica che per fare sesso si avvolge completamente nel domopak, la clinica ostetrica che a pagamento aiuta la madre ad avere una maternità infinita, reinserendo il figlio da dove aveva visto la luce…le dentiere saltano, la buona e brava borghesia triestina è a dir poco scossa… le prime chiome cementate di cieloalto se ne vanno brancolando nel buio, io le guardo e capisco che si, ho fatto bene a far cominciare il TFF così, che il cinema una volta tanto sia una pietra dello scandalo, sia osceno, un pugno in faccia che non si digerisce, che torni a sconvolgere…
Pálfi esagera, il grottesco è portato alle estreme conseguenze ma nulla è mai scontato, nulla è mai gratuito. Dopo Taxidermia il giovane regista torna con un film che lascia il segno, in 7 piani e 7 appartamenti riesce a condensare ipocrisie e crisi dell’uomo moderno ma anche paure ataviche, dalla voglia di maternità fine a se stessa (rinunciando però al figlio vero e proprio ed alle responsabilità che ne conseguirebbero…) alla ricerca di una realtà virtuale che esplode appena diventa reale…ogni comportamento contemporaneo viene messo alla berlina e il continuo brusio di dissenso in sala mi fa capire che ha colto completamente il segno. Sono orgoglioso, ho scelto proprio un bel film per cominciare il festival. Che chiaramente è cominciato invece con tutt’altra visione, ovvero con il film di apertura Due donne di Vera Glagoleva, drammucolo borghese ottocentesco con super marchetta di Ralph Fiennes, trasposizione cinematografica di un dramma di Turgenev… questi sono i film che devono piacere a Putin: dispendiosi, grandiosi, lontanissimi dalla realtà odierna e da cui trasuda in toto la magniloquenza della grande madre Russia! Non mi resta che gettarmi di nuovo in strada, perso fra punti interrogativi e baluginii di grappa, facendomi sorprendere e cullare da grida divertite ed energiche di giovani monelli triestini.
E dopo la soave vocetta dei bimbi continuo la camminata, per imbattermi invece nel sandwich club, baretto meraviglioso dove le età con cui relazionarsi sono alquanto più stagionate…ecco cosa possono causare anni ed anni di grappa e tocai, sorry, friulano. Un anziano signore monologa sbiascicante, io lo ascolto divertito, si avvicina, non vede l’ora di dire la sua opinione, straborda… eccolo
Quali perle posso trovare in sala che abbiano la stessa carica di nonsense? Quali film mi possono far ridere come questa realtà sgangherata? Non saprei… ora, a diversi giorni di distanza, tento di fare uno sforzo mnemonico…
Eesti Reklaam Film
Cercate di capirmi, è la notte del 5 febbraio, qui tenta di nevicare ma alla faccia del meteo e della protezione civile pare riesca solamente a piovere…questo continuo scrosciare mi fa tornare in mente un film completamente acquatico, Simindis kundzuli – Corn Island del georgiano George Ovashvili. La natura dà, la natura toglie. In uno sprazzo di allegro altruismo decide di far nascere un’isoletta al centro di un fiume che è il confine naturale fra Abkhazia e Georgia. Così, un gesto spassionato, gratuito, magnanimo. Che sa cogliere al volo un anziano signore che un giorno sbarca sull’isola, ne saggia il terreno, capisce che sarà il proprio eden privato. Così comincia a manipolare quella natura che con lui è stata così generosa: costruisce una casetta, ara la terra, pianta nel terreno il grano. Si prepara in pratica la propria fuga dal mondo, il proprio habitat tanto sognato…sicuro che la felicità sia sinonimo di isolamento. Ma il mondo esterno minaccia, si avvicina, contrasta la pace di questo microcosmo. Rumori di spari si sovrappongono al quieto scrosciare di acque del fiume, inquietanti presenze umane di verde vestite cominciano a farsi sempre più presenti. Fino ad arrivare ad un punto di rottura. Non è possibile (come in fondo non lo è mai stato) fuggire il mondo per crearsi una nicchia di gioia…questo prima o poi riuscirà a snidarvi, sotto forma di soldati oppure di notizia radio di catastrofi imminenti oppure di bolletta del gas, poco importa: riusciranno sempre a stanarvi e a distruggere quell’ecosistema privato che vi eravate creati con tanto amore. La natura allora si ricrede, sgomenta di come questi uomini riescano sempre a distruggere quello che viene loro creato…tiene il broncio per un po’ e in un attimo di monelleria fa totalmente scomparire l’isoletta, un po’ di pioggia e puff, fuori dai coglioni il grano, il vecchio, la nipote con le prime fregole e i buffoni che giocano alla guerra. Infine si ricrede, decide di ridare un dono a questi bipedi ignoranti e boriosi, un’altra isoletta come specchio per le allodole di un altro disperso personaggio, ricettacolo dei sogni infiniti di fuga dalla società che non hanno mai abbandonato la mente dell’uomo. Fuori ancora piove, apro la finestra ed un bel vento mi scompiglia la frangetta. Pare proprio la pioggia del film georgiano: infinita, gelida, martellante. Parallelismo inquietante. Il giorno dopo la neurologia mi aspetta, poso il culo sul sedile, accendo il motore per recarmi al lavoro, piove ancora ininterrottamente…comincio a pensare che forse qualcosa non va…lo capisco meglio quando a Cesena comincio a non vedere più la strada, mentre a lato scorgo l’ultima parte del muso di una macchina comparire dall’acqua tumultuosa, mentre il resto è sotto, nel fosso, fra il fango e i ratti che non sanno più nemmeno loro dove portare il culo per stare un po’ asciutti. E ad un certo punto la campagna si apre ma non si vede più, pare di stare in mezzo al mare e ci sono anche le onde…arrivo non so come al lavoro, dopo 3 ore buone di viaggio allucinante. Visione molto bella, quella di Corn Island, che giustamente si aggiudica il premio come miglior lungometraggio di questa 26a edizione del Trieste Film Festival.
Risttuules – In the Crosswind, Martti Helde
Altro film papabile sarebbe stato l’estone Risttuules – In the Crosswind struggente storia sulla deportazione degli estoni in campi di lavoro in Siberia perpetrata e voluta da Stalin. Erna e Eldur si amano, la vita ha dato loro una stupenda bambina, sono felici. Poi tutto va a rotoli. Erna ricorda i fatti terribili della deportazione, congelando il tempo. Poiché la tristezza era così enorme da annullare tutto, la vita così insignificante da azzerare ogni concezione di tempo, scandito solamente dalle angherie, dalle privazioni, dai soprusi. Il giovanissimo regista Martti Helde, classe ’87, conduce una ricerca formale sbalorditiva per questo film, fotografia di un bianco e nero elegantissimo e riprese fatte soltanto da vari tableaux vivants dove la macchina si muove lentamente, come entrando in un quadro. Se il manierismo viene forse sfiorato, il regista riesce comunque a congelare il tempo, facendo vibrare a lungo dentro di noi lo sgomento, riuscendo a fissare immagini di grande bellezza e struggente drammaticità dentro la nostra testa, sicuro che prima o poi riescano ad esplodere. Film molto complesso, dalla scelta stilistica estrema, riesce a funzionare anche per la durata, 83′ che fanno entrare direttamente in un incubo, ma con la leggiadria di un sogno. Ora è il 9 febbraio, un perfetto lunedì del cazzo: si lavora, domande di rito sul weekend, sorrisi, spallucce, considerazioni, strette di mano… un lunedì, insomma. Unico picco la lettura di un’intervista di Thomas Bernhard con alcuni passi folgoranti «esistono soltanto cose scontate, ma poi le si ignora il più possibile perché si vuol credere che debba esistere sempre qualcosa di speciale. Non c’è niente di speciale, niente che sia fuori dal comune…». E così via. Beh si, ho anche comprato la carta igienica. Avrei voluto pagarla con il bancomat, ma 2,79 non erano abbastanza: «Almeno dieci euro, vede? C’è scritto anche nel cartello». E così mi sono dovuto sorbire anche il detersivo, il dentifricio, i pisellini….nella trappola capitalistica…caduto come un barbagianni dentro alla rete….al rientro in cassa mi ha chiesto se faccio i punti, alla mia domanda: «di sutura?», attimo di spaesamento….tutto questo per della carta da culo! Nel vagare dei ricordi triestini affiorano almeno due documentari, per motivazioni diverse ed a tratti opposte: The Gold Spinners di Kiur Aarma e Hardi Volmer e Something Better to Come di Hanna Polak. Il primo è una coproduzione estone/russa (e dopo ai fatti narrati da In the Crosswind un brivido mi passa per la schiena…) su una parentesi del comunismo dai tratti quasi comici. La Grande Madre Russia produce beni, la GMR pensa ad ogni vostro bisogno, compagni!urliamo al mondo la gioia del nuovo corso, gridiamo la felicità di essere comunisti! Ma come dirlo? Come trasformare le frustrazioni per la mancanza di beni in felicità di plastica, posticcia? Non ci sono problemi, ci pensa lo studio cinematografico Eesti Reklaamfilm! Su con la vita compagni, cos’è quel broncio? Non vedete come può essere colorata e bella la vostra giornata? E’ troppo freddo in casa? Ci sono i nuovi scaldotti per le orecchie, in svariati colori! La domenica è troppo grigia? Non più grazie alla nuova Lada Sport 2000, da oggi con spoilerino! Vendere sogni era dunque possibile, anche in Unione Sovietica. Ecco qua la storia strampalata e fuori dai gangheri dell’unico studio cinematografico che produceva pubblicità su prodotti che nemmeno esistevano! Ma questa è avanguardia! È un’anticipazione di tutta la politica italiana da Berlusconi in poi! Sono commosso, non mi sono mai sentito così vicino al popolo russo. E mentre l’uguaglianza dei salari e delle condizioni veniva squadernata e sparpagliata ai quattro venti, il deus ex machina della Eesti Reklaamfilm, Peedu Ojamaa, accumulava miliardi su miliardi! Formaggini che diventano dei dischi da hockey, motori che vengono pubblicizzati solo sotto forma di animazione (perché il motore vero non c’era), pubblicità al limite del DADA, bizzarrie visive, coriandoli, tric e trac e farandole: tutto questo era la pubblicità in Unione Sovietica, un grande paravento colorato e attraente dietro a cui stavano immagini ben più grigie…le file per un tozzo di pane, le repressioni, le facce smunte e magre senza un’ombra di sorriso. Un film divertentissimo che ci fa conoscere un aspetto dell’URSS nuovo, colmo di brillantini e paillettes, con immagini di repertorio molto belle ed un bel ritmo nella narrazione…samba? Molto interessante vedere anche come in quegli anni proprio la pubblicità diventava campo di ricerca cinematografico…mentre in Italia spopolava il folgorante Carosello, la Eesti Film si lanciava nel vuoto (di prodotti?) senza paracadute, con idee geniali per quanto balzane. Un plauso ad Hardi Volmer, corporatura e faccia da fumetto, sembra appena uscito dal set di un film di Kaurismäki: anche lui fece parte della Eesti Reklaamfilm, sua la pubblicità sulla moto che in realtà non esisteva, con il prode Hardi che cavalca un’animazione…grande merito di avermi dato anche una salvifica sigaretta prima della visione!
Se non posso far altro che sorridere al pensiero di questo curioso film, al contrario non posso far altro che inorridire al pensiero di Something Better to Come di Hanna Polak. In Russia, con l’avanzare del benessere sono avanzati anche i consumi, con l’avanzare dei consumi sono avanzati anche i prodotti, con l’avanzare dei prodotti sono avanzati anche i rifiuti, con l’avanzare dei rifiuti sono avanzate anche le discariche, con l’avanzare delle discariche sono avanzati anche gli avanzi, con l’avanzare degli avanzi sono avanzati gli avanzi. Avanzi di società. Avanzi indigesti. Avanzi che puzzano. Avanzi da inceneritore. Questi avanzi hanno un nome, ormai hanno solo quello. Prima chi aveva una casa chi anche una casa con giardino, chi aveva un lavoro e chi magari anche un motorino o una bici. Ora hanno solo il proprio nome e il proprio sgraziato corpo, sballottato fra un rifiuto e l’altro in questa immensa discarica alle periferie di Mosca, che è ormai casa di centinaia e centinaia di persone. Questo è ciò che viene raccontato da Hanna Polak, la vita in questa discarica, seguendo per svariati anni (dall’adolescenza al divenire donna) la storia giorno per giorno di Jula, ragazzina la cui madre ha perso tutto con l’avvento del capitalismo. Alto sforzo produttivo (che di solito vuol dire tanti soldi), coproduzione fra diversi paesi, il film sembra uno studio da vero entomologo. Proprio come uno scienziato coi fidi insettini la regista osserva, studia, cataloga…e mentre la vita di questi relitti continua fra uno stento e l’altro e sul video passano immagini strazianti io mi chiedo che cosa possa portare una simile visione nello spettatore…sono convinto che nessuno, NESSUNO, sia uscito dalla sala pronto per andare ad aiutare, pronto per spedire anche solo un cioccolatino di ringraziamento a Jula, con bigliettino allegato: «Grazie Jula, ci hai fatto emozionare molto. Grazie a disgraziati come te noi cinefili avremo sempre storie struggenti da applaudire fingendo di esserne sconvolti»… poiché sconvolti magari si rimane davvero, ma questo stato d’animo non comporta nulla di effettivo…mi ricorda un po’ un corto della superba coppia Rezza/Mastrella, dove del povero Fiorenzo, malato terminale, si parlava solo fra amici in un continuo cinguettare di pettegolezzi… perché quando uno è malato quel che si può fare è dirsi ‘poverino, è malato…’, mai fare qualcosa di concreto. Del resto anche Hanna Polak deve essere stata davvero sconvolta da questi giovani monelli puzzolenti e caracollanti in mezzo alla merda e all’immondizia…si, perché per un progetto così lungo le difficoltà produttive saranno state immani…povera, chissà quanto Chanel n°5 ci sarà voluto per coprire il puzzo di discarica alle prime dei film e nei vari festival nel mondo…della serie finché c’è disgrazia c’è speranza: per i cineasti la speranza di avere qualcosa da immortalare, per i cinefili di avere ancora qualche emozione d’accatto. Come volevasi dimostrare il film ha vinto nella sezione documentari! Scrivo a memoria ricordando nitidamente il fastidio provocatomi dalla visione e ricordando ancora meglio il fastidio del giorno dopo la prima di Sanremo…’Hai visto Albano e Romina? Non c’è niente da dire, sono una gran bella coppia…io mi sono emozionata’. Fatico a pensare ad Albano come a qualcuno che possa fare emozionare, un nanetto spocchioso e senza collo…che un ceffo del genere faccia sfregolare casalinghe e impiegate è comunque un buon auspicio per tutti coloro che cercano il successo, che cercano di essere la nuova faccia giusta. Mi imbatto in una fila incredibilmente odorosa e sbrilluccicante, facce bellocce, strass, brand urlati in scritte come slogan…c’è un casting! Non credo alla mia fortuna sfacciata, mi scompiglio i capelli in stile misonoappenaalzatosonosconvoltoperchélemienottisonoinsonnifraalcoolcocainadonneuominibarboncini, controllo l’alito, mi infilo. Percepisco subito la sacralità del momento, c’è tensione quasi religiosa, poiché oggi uno di questi destini potrebbe cambiare! Si avvicina una ragazza con fare da Gestapo ‘Rauss, fuori, tornare alle due’. Ma come? i miei sogni infranti in meno di tre secondi… All’uscita trovo invece chi la speranza non l’ha persa…futuri radiosi, capelli impomatati, orologio D&G
E se davvero i limiti del proprio linguaggio sono i limiti del proprio mondo qui gli orizzonti sono davvero colpiti da miopia, distacco della retina, maculopatia. Non mi resta che fiondarmi in un buffet, a volte una birra riesce a lavare il cranio meglio che una seduta di analisi.
Con feroce passione,
Francesco Selvi