Giocare a carte scoperte. Conversazione con Roberto Minervini

Roberto Minervini
Giocare a carte scoperte.
Conversazione con Roberto Minervini
a cura di Claudio Casazza

Roberto Minervini è italiano, il suo cinema no. È nato nelle Marche (Fermo, 1970) ma vive da anni nel sud degli Stati Uniti, in questi luoghi ha realizzato tutti i suoi film: nel 2011 la la sua opera prima The Passage, presentato al festival di Bruxelles, lo stupendo Low Tide, selezionato a Venezia 2012 nella sezione Orizzonti. Nel 2013 il suo terzo film, Stop the Pounding Heart , è invece agli Special Screenings di Cannes dove ottiene enorme risonanza, il film esce addirittura in qualche sala e vince molti premi in festival internazionali. Lousiana (The Other Side) è il suo ultimo lavoro presentato sempre a Cannes in Un certain regard.

Minervini è un filmmaker che si immerge nella realtà che racconta, la vive e poi la filma. La comunità che racconta in Louisiana l’ha penetrata da vicino. Ha conosciuto ed è diventato e amico dei suoi personaggi che poi ha deciso di filmare e “mettere in scena”, è stato accanto alla loro rabbia, ai loro amori e alle loro paure. Solo così riesce a filmare e così restituircele attraverso un cinema che parte documentario ma che si trasforma ben presto in ricostruzione e finzione.

 

 

Claudio Casazza: Dopo il suo passaggio a Cannes e l’arrivo nelle sale italiane, il tuo ultimo film, Lousiana (The Other Side), ha fatto molto discutere e diviso pubblico e critica. Cosa ne pensi del fatto che i tuoi film creino passioni così estreme e divisive?

Roberto Minervini: Sì è vero, è un film che ha diviso e credo sia necessario che questo film divida. Me l’aspettavo. Il film è nato per creare un certo dibattito e perciò mi aspettavo qualcosa del genere. La ricerca del consenso unanime non è un qualcosa che mi ero prefissato e in generale non mi interessa. Il post Cannes è andato bene. Mi sono catapultato in Italia, visto che il film è uscito in sala, e la risposta di critica e pubblico è stata molto positiva: il film ha creato un dibattito costruttivo e partecipato e proprio questo era ciò che volevo.

CC: Rispetto ai tuoi precedenti lavori, in Lousiana si nota una più intensa passione, un amore smodato per i tuoi personaggi. Quanto questo profondo legame ha condizionato e pilotato le tue scelte?

RM: Questo progetto va avanti da anni. Per fare film del genere bisogna giocare a carte scoperte, avere degli intenti comuni tra me e i personaggi del film. Abbiamo deciso insieme quali storie raccontare e vagliato l’opportunità di raccontare alcune storie piuttosto che altre; una volta deciso di raccontare una determinata storia, questa doveva essere senza autocensure. Lavorare senza alcun tipo di censura è stato il punto di partenza fondamentale dell’intero progetto. Quando si lavora senza senza censure si è vulnerabili, non si hanno paraventi e questo fatto ha unito me e i miei personaggi.
Le storie che ho scelto di raccontare sono quelle che mi stavano più a cuore, anche se in modo diverso. Questo amore parte da una paura, ed è proprio la paura ad essere la matrice, il motore dell’amore visto come necessità. È interessante pensare al film in questi termini: la cosa che ci ha uniti è proprio questo senso di vulnerabilità totale, questa voglia di raccontare storie intime e difficili attraverso il linguaggio filmico. Questo approccio, questo tipo di linguaggio, lo ritrovo anche nei miei film precedenti, anche se si è evoluto.

CC: Ci sono storie che non hai inserito nel montaggio finale? E quando hai preso questa decisione? Già durante le riprese oppure al montaggio?

RM: Ci sono molte storie che non sono entrate nel montaggio finale. Ad esempio quella della spogliarellista incinta che si vede brevemente nel film, è una storia che ho seguito per molto tempo, una storia di madre single, ho seguito lei e la bambina fino all’età di otto mesi: è una storia molto violenta. Poi ci sono altre storie abbandonate, storie morte che ho deciso di non proseguire a raccontare, anche di comune accordo con i personaggi.
Ho deciso al montaggio cosa inserire nel film, la scrittura avviene solo a posteriori, la decisione è venuta dopo, dovevo fare delle scelte e ho deciso di non raccontare alcune storie. Ma forse sapevo già all’inizio che raccogliere 150 ore di girato per poi ridurre in una storia di un’ora e mezzo sarebbe stato molto difficile. Mi sarebbe piaciuto fare tanti film, una specie di mio decalogo e raccontare tutte le storie.
In verità c’è chi vorrebbe vederle in un montaggio, la Rai ad esempio, mi ha chiesto di raccontare delle sotto storie. Ho molto materiale che non è entrato neanche nel film, ad esempio il movimento Open Carry sull’uso smodato delle armi, anche quando si va al supermercato. Li ho seguiti per mesi, sono andato anche alla campagna elettorale di un loro candidato Presidente. Si parlava con la Rai di un lavoro su questa storia, vediamo però cosa succede…

CC: Facciamo un passo indietro. Come lavori con i tuoi personaggi?

RM: Io lavoro con queste comunità da ormai sette anni, tutti i miei film sono tra loro collegati e ci sono personaggi in comune che si ripetono, ad esempio Lisa, la protagonista di Lousiana, era già presente all’interno di Stop the Pounding Heart, che a sua volta aveva al suo interno personaggi di Low Tide. Lavoro così, con la conoscenza, attraverso circoli e amicizie e la frequentazione continua di queste comunità che altrimenti sarebbero inaccessibili. Ci lavoro, anzi vivo e convivo con queste persone e il girato è la diretta conseguenza di questo rapporto che si viene a creare. Devo dire che anche durante le riprese si gira poco, più che altro si vive insieme. Io giro per circa il 20% del tempo che passo con queste persone, per il resto vivo con loro.

 

Louisiana (The Other Side) - Roberto Minervini, 2015

Louisiana (The Other Side) – Roberto Minervini, 2015

 

CC: È molto interessante in Lousiana come le due storie si interrompano improvvisamente. Come sei giunto a questa scelta di discontinuità con i tuoi film precedenti?

RM: Nella prima parte, quella di Mark e Lisa, c’è da sapere che Mark è emerso durante le riprese e durante ho deciso di seguire con maggiore attenzione proprio lui, la mamma e la sua famiglia. Tutto questo non era previsto. Parlando con loro ho compreso che questa rabbia verso le istituzioni meritava un discorso politico più ampio. Io ero in contatto che le organizzazioni paramilitari governative, conoscevo i membri e avevo già intenzione di lavorare con loro, di seguirli nelle loro manifestazioni davanti alla Casa Bianca, nelle loro azioni di difesa del territorio, nelle manifestazioni armate, negli scontri con la polizia. Avevo seguito queste vicende e conoscevo i personaggi. Quindi ho deciso di seguirli quando il discorso meritava di essere spostato sulla politica, volevo che le due parti andassero in cortocircuito narrativo e che le due parti dialogassero dal punto di vista concettuale. È stata una scelta che è avvenuta durante le riprese.
Per quanto riguarda i paramilitari comprendo che molti non li vedano di buon occhio, però al tempo stesso li capisco. Il fatto stesso che degli individui siano portati a vivere nella paura, che pensino a fare esercitazioni nelle boscaglie per prepararsi a una guerra civile, è una cosa che fa molta tristezza. È molto triste conoscere persone che aspettano una legge marziale e devono essere pronti per difendere la propria famiglia.

CC: Si può dire che hai raccontato due diverse storie di addiction, di dipendenza?

RM: È esattamente così! Nella prima parliamo di addiction da droga. Dipendenza da metanfetamina, che è una droga politica, il cui proliferare è stato favorito dalle scelte dell’amministrazione Reagan che, anziché fare la lotta alla metanfatemina, ha solo bandito l’efedrina che veniva dal Messico per favorire l’uso della psedoefedrina che è un farmaco e perciò ha di fatto legalizzato la produzione metanfetamina a vantaggio delle industrie farmaceutiche e così, come spesso accade in America, questa proliferazione in zone depresse ne ha aumentato il consumo. Oggi invece il governo federale ne fa una battaglia di legalità, andando di fatto a perseguire i più poveri.
La stessa cosa è accaduta con le cellule paramilitari che sono state utilizzate dal governo per azioni al limite della legalità, soprattutto alla frontiera con il Messico. La rete paramilitare è talmente estesa che ora il governo sta cercando di porre rimedi, esattamente come con la metanfetamina. Sono due addiction di fronte alle quali il governo centrale ha sempre chiuso un occhio.
Un’altra cosa importante è che tutti i personaggi che ho incontrato in queste zone sono quasi tutti veterani di guerra, persino la spogliarellista ha fatto la guerra del golfo, tutti veterani di guerra abbandonati al loro destino perché quando entrano in dipendenza da droga perdono l’assistenza che avevano in quanto veterani di guerra.
La domanda che mi sono posto è: cosa sta succedendo in America, un paese in cui nascono le teorie della cospirazione, un paese dove esistono cellule paramilitari che temono la guerra civile? La mia personale risposta è che l’America è un paese impazzito.
Nel midwest e nel sud c’è questo cortocircuito e tra l’altro sono proprio questi gli Stati in cui, da sempre, si decidono le Presidenziali. È la zona dove ho scelto di vivere e dove tocco con mano questo cortocircuito tra opinione pubblica e istituzioni. Credo che la responsabilità sia del governo centrale più che di quello locale, tutto parte dalla riforma sicurezza nazionale di Bush nel 2002, dall’abuso di potere delle forze delle ordine, dall’utilizzo di milizie al limite della legalità. Per questo dal Texas mi sono spostato alla Lousiana del nord e voglio continuare il percorso, ad esempio in zone assurde come il Nebraska dove grazie al fracking si creano sacche di ricchezza e di povertà, sacche di violenza estrema quasi usa e getta, che nascono e spariscono in base alle decisioni del governo centrale.

CC: C’è una costante in tutti i tuoi film: i tuoi personaggi sono spesso immersi nella natura e ci danno l’impressione che siano proprio gli alberi e l’ossigeno la loro ultima fonte di sostentamento.

RM: È vero, c’è un’appartenenza a un territorio, quasi un senso di protezione all’interno della natura, anche geograficamente. Sono zone inaccessibili, zone in stretto contatto con la natura all’interno delle quali barricarsi. Sono persone che vivono all’aria aperta, anche Mark, che è un tossicodipendente, è un pescatore, un cacciatore. Credo sia il luogo che crea queste persone, crescono in simbiosi con esso e poi quando il luogo è inquinato, ad esempio a causa della scomparsa dell’agricoltura, cambiano anche loro. Ci sono cose nei miei film che fanno capire questo: in Stop the Pounding Heart c’è lo steccato che è un segno di protezione e pure di separazione netto, usato per barricarsi, in Lousiana invece lo ritrovo con le armi e la droga che dettano i limiti di protezione del territorio, per barricarsi appunto.

CC: Ripensando ai tuoi film mi viene da fare dei parallelismi: in Low Tide fai un discorso sociopolitco indiretto, non c’è uno steccato se non il rapporto del ragazzino con la madre, mentre in Stop the Pounding Heart c’è un discorso sul male all’interno della comunità un po’ più articolato e in questo ultimo film c’è l’esplosione quasi incontrollata del male. Mi chiedo se sia veramente necessario barricarsi per proteggersi da questo male.

RM: Bella domanda. Quando sono in America spengo la geo-localizzazione del mio iPhone, lo faccio io e lo fanno molti miei amici che, pur non abbracciando le teorie della cospirazione, intendiamo comunque limitare il tracking da parte di governo e derivati. Credo che anche questo possa essere considerato un barricarsi.
Vivo in un quartiere semicentrale di Houston, abbastanza bello e se vieni a casa mia trovi telecamere dentro e fuori, cartelli di circuito chiuso, cartelli metallici con scritte di pericolo e la pistola come simbolo, come a dire «se entri ti ammazzo». Ho sulla porta adesivi che dicono «io non chiamo il 911, sono il 911!», «membro della National Rifle Association», ho una pistola e prima di andare a dormire esco per farmi vedere, marchio il territorio, e attraverso questo gesto dico che «se venite qua e toccate la mia famiglia io vi ammazzo». Visto che sono già entrati a casa mia sono costretto a fare così a difesa della mia famiglia, dei miei due bimbi. La pistola non è vera, è comprata su eBay, non sembro della RFA e i simboli non sono veri ma sento la necessità di fare così. Lo so che è al limite della malattia mentale e mi sta portando all’esaurimento nervoso, ma ormai fa parte della mio modo di vivere. Devo dire che ora questo comportamento mi sta spingendo a fare delle riflessioni, se tutto ciò è diventato la normalità è qualcosa di agghiacciante.
E possiamo dire che l’aumento del male nei miei film rispecchia un po’ il mio stato d’animo e la mia conoscenza del territorio.

 

Stop the Pounding Heart - Roberto Minervini, 2013

Stop the Pounding Heart – Roberto Minervini, 2013

 

CC: Mi interessa capire la costruzione del film e l’approccio quasi di finzione che hanno i tuoi film…

RM: Per quanto riguarda l’approccio, io non ho mai fatto un lavoro etnografico, ho una formazione da fotoreporter di guerra. Per me è essenziale trovare un linguaggio per raccontare delle storie, quindi non mi preoccupo necessariamente della forma documentaristica, è uno standard che non esiste. A me piace combinare le due forme, per arrivare da un materiale di osservazione A a un materiale di osservazione B utilizzo spesso un veicolo, un link che molto spesso è di finzione o di rimessa in scena: in Lousiana la nonna che balla, le camminate, i percorsi in macchina sono delle rimesse in scena che corrispondono comunque al vero. Poi i miei film derivano da un’osservazione estesa che mi è possibile grazie al passaggio dalla pellicola al digitale, che nel mio caso è avvenuto con Stop the Pounding Heart. Questo passaggio mi ha permesso di girare molto di più e di rendere anche più agevole il lavoro di contatto con la realtà, grazie al quale posso affrontare temi più complessi che in Low Tide.
Secondo me è tutto frutto del mio percorso, c’è una mia crescita, anche il mio occhio è cambiato, riesco a pensare in termini di montaggio. Poi certamente, coprire degli angoli, l’utilizzo del ritmo e dei silenzi sono tutte cose che vengono da una sensibilità che appartiene più al cinema di finzione.

CC: È interessante il discorso sul passaggio dalla pellicola al digitale… il tuo è un approccio indubbiamente favorevole all’affermarsi del digitale… con quale strumentazione lavori abitualmente? Non nutri nessun rimpianto per la pellicola?

RM: Gli ultimi due film (Stop the Pounding Heart e Louisiana) li ho girati in digitale 5K con una Red Epic X. A differenza della celeberrima, quanto – a mio parere – infame, Arri Alexa, la Red Epic restituisce un’immagine più sporca, più retrò, in quanto più saturata e vivida e meno definita, in termini di latitudine e di “profondità” dei colori. Pertanto, nonostante senta anch’io un forte rimpianto per la pellicola, il fatto di lavorare con la Epic mi soddisfa abbastanza. Al contrario, l’immagine Alexa (che è l’immagine digitale per antonomasia) mi angoscia profondamente e induce in me una fortissima nostalgia sia del 35mm, sia del Super 16mm.

CC: Dicevi che in passato hai fatto anche il fotoreporter di guerra, ci puoi spiegare dove e per quanto tempo e se questo ha poi influenzato il tuo modo di vedere il mondo che ti circonda?

RM: Ho studiato da fotoreporter di guerra, mi sono formato sotto la guida di David Turnley. Purtroppo però, ho dovuto abbandonare il mio sogno, perché non sono riuscito a combinare lo stile di vita da fotoreporter con quello della vita di coppia. Detto questo, non c’è dubbio che la mia formazione da fotoreporter influenzi il mio modo di vedere – e ritrarre – la realtà. Il mio rapporto con luoghi e persone è dettato da un senso di urgenza e immediatezza, di irripetibilità del momento, che mi permette di andare oltre i miei pregiudizi (e quindi le mie paure), e di immergermi fino in fondo in tale rapporto, mettendomi a nudo (e quindi a rischio). Nella vita, un po’ come in guerra, bisogna giocare a carte scoperte.

CC: L’essere coinvolto in prima persona dalle storie e dalle persone ritratte nei tuoi film è una condizione indispensabile al tuo approccio al cinema. Volevo chiederti se ritieni che questo sia inevitabilmente necessario e, pure, quale debba essere, a tuo avviso, la giusta distanza da tenere?

RM: Ritengo sia impossibile fare cinema senza coinvolgimento (con l’idea, i motivi, il messaggio, i personaggi, gli interpreti…). Al tempo stesso è però impossibile fare cinema senza mantenere le distanze da tutto ciò che ho citato prima. Pertanto, fare cinema diventa un tiro alla fune tra coinvolgimento e distanza. Quando ci si sbilancia troppo da una parte o dall’altra si finisce per fare un cinema zoppo, che cammina su una sola gamba. Il coinvolgimento totale genera lavori troppo personali, al limite del narcisismo e dell’esibizionismo. Il distacco totale genera, invece, lavori rarefatti, esercizi di stile “usa e getta”, vale a dire, la maggior parte della produzione cinematografica di oggi. L’essenza del mio lavoro, in qualità di autore, sta proprio nella ricerca di quell’equilibrio tra coinvolgimento e distanza. Una ricerca senza fine, probabilmente.

CC: Parliamo delle tue influenze cinematografiche. Vai cinema e cosa ti piace vedere? Se penso al tuo cinema mi vengono alla mente, molto banalmente, i fratelli Dardenne, anche per quel discorso di cinema molto vicino alla realtà. In Italia abbiamo diversi cineasti che gravitano attorno a un’idea di cinema assai prossima alla tua tua, penso a Gianfranco Rosi, Michelangelo Frammartino e Pietro Marcello, ad esempio. Cosa pensi del loro cinema?

RM: Sul cinema contemporaneo mi trovo in difficoltà sia perché ne vedo poco, perché la mia ricerca cinematografica è a ritroso, guarda al passato piuttosto che al presente, sia perché non sono cineasta di formazione e non appartengo a nessuna scuola, né italiana né straniera. Ciò nonostante, sicuramente apprezzo il lavoro di autori del reale come Gianfranco Rosi e Pietro Marcello, che conosco personalmente e stimo enormemente e che – come me – fanno un cinema poco classificabile e molto personale.

CC: Ti capiterà nel futuro di raccontare l’Italia?

RM: Penso di sì, prima o poi capiterà, ma al momento ho da pensare alla famiglia, devo capire se restare in America o andare da un’altra parte. Forse mi prendo una pausa di riflessione e faccio un film completamente diverso, probabilmente una biografia musicale. È comunque un momento delicato. Non sono i film che mi rimangono dentro ma sono io che rimango dentro a questi film, li vivo.

 



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