Rapsodie israeliane. Il Jerusalem Film Festival 2015

Avishai Sivan, regia di Avishai Sivan (Israele/2015)

Avishai Sivan, regia di Avishai Sivan (Israele/2015)

Rapsodie israeliane: il Jerusalem Film Festival 2015 visto da un inviato speciale
a cura di Roberto Donati

Verso marzo ricevo un’email da un signore che si presenta come Uri Dromi, presidente del Jerusalem Press Club. È molto gentile e affabile, e insieme, grazie al cielo, per niente formale. Va subito al sodo. Mi chiede se sarò disponibile ad andare a coprire, invitato da loro, il Jerusalem Film Festival, che si terrà appunto a Gerusalemme in luglio, dal 9 al 19. Trasecolo. Perché io? L’imbarazzo dura dieci secondi, tuttavia. In fondo perché no?, mi dico infatti subito dopo.
Quindi rispondo che sì, ovviamente potrò.

Come si legge facilmente online, «Il Jerusalem Film Festival è un festival cinematografico internazionale che si tiene ogni anno a Gerusalemme, in Israele. Nacque da un’idea di Lia van Leer (già fondatrice della Jerusalem Cinematheque), che lo inaugurò il 17 maggio 1984. Alla rassegna partecipano lungometraggi e documentario provenienti da ogni parte del mondo. Nel 1989 la van Leer convinse il filantropo americano Jack Wolgin a organizzare una competizione cinematografica a suo nome per i migliori film israeliani. Ed è così che il Wolgin Prize è diventato negli anni il premio cinematografico più ambito d’Israele. Oltre al Wolgin Prize, il festival include i seguenti premi: Anat Pirchi Drama Award, Spirit of Freedom Awards, Forum for the Preservation of Audio-Visual Memory in Israel Award for the Creative use of Archival Footage, nonché la sezione FIPRESCI per i registi esordienti».

Nei mesi che precedono la partenza, l’organizzazione, affidata al solerte e prezioso Hagay Abramovitz, è semplicemente perfetta. Di volta in volta sappiamo, con tempismo e puntualità, gli impegni che per noi giornalisti saranno obbligatori, quelli facoltativi ma caldamente suggeriti, quelli soltanto facoltativi; ci fanno compilare un modulo con i nostri dati e le nostre preferenze di qualsiasi genere (dal cibo ai generi cinematografici); ci inviano in anteprima inviti per incontri, party, conferenze. Ci chiedono se vogliamo intervistare quell’autore o quell’altro. Piano piano il programma del festival, davvero vasto e sontuoso, ci e mi appare chiaro. Anni prima avevo avuto un’esperienza simile, almeno e solo in partenza, col Cairo Film Festival: apparentemente una ottima organizzazione, nella pratica un pessimo festival, futile, vago nelle intenzioni e malmesso. Temevo questo effetto qui, e invece… Del resto, il Jerusalem Film Festival è noto per essere, e ora lo posso dire con certezza: “è”, uno dei festival di cinema internazionale più prestigiosi di tutto il Medio Oriente. Ben presto vengono emessi i biglietti aerei, anche qui con ampia margine di scelta (di aeroporto, di compagnia, ecc.), e la proposta, il “semplice invito”, si trasforma in realtà.

Parto da Pisa. È il 9 luglio e farò scalo a Roma, diretto poi al Ben Gurion di Tel Aviv. Ci arrivo nel primo pomeriggio, con ritardo perché nel cambio degli aerei mi hanno perso la valigia. Si comincia male, penso. In realtà il giorno dopo me la recapiteranno in albergo, Eldan Hotel, un quattro stelle che tutto sommato non le vale ma nel cuore di Gerusalemme, appena fuori le mura del Jaffa Gate, in King David Street, a due passi dal celebre King David Hotel e dall’altrettanto famoso (non fosse che per la salita ascensionale alla torre panoramica) YMCA, nonché molto vicino, a piedi, ai luoghi del festival, ovvero la Cinematheque (splendido posto, moderno e dotato di ogni comfort: quattro sale, sale lettura, wi-fi libera, bar e ristorante, giardino e terrazza panoramcia sulle mura della Città Vecchia; location ideale per aperitivi, cocktail e serate di gala in seguito generosamente offerte dal festival) e la più dislocata, ma non troppo, e appartata sala Lev Smadar, una piccola saletta attorniata da un bar-bistrot che fa Gerusalemme di una volta. Molto accogliente e “particolare”, evocativa, ‘bogartiana’ si direbbe.

Con un taxi prenotato dal Press Club andiamo verso Gerusalemme. Dico andiamo perché con me, subito, c’è Claudio Santamaria, l’attore italiano. Simpatico, alla mano, piacione come te lo aspetteresti. Parliamo del più e del meno, di come questo festival ha trattato tu giornalista, benissimo, e lui attore, stra-benissimo. Per loro è prevista pure un’escursione a Masada, la fortezza-baluardo simbolico di libertà e resistenza, e sul Mar Morto – che tu farai comunque, ma organizzandotela da solo. Claudio è alloggiato in un altro hotel, poco distante, sempre centrale. Il festival, il Press Club, ha davvero pensato a tutto. Addirittura, una volta arrivato a destinazione, a una SIM apposita israeliana per tenerci in stretto contatto, con le persone del festival e fra giornalisti. Scelta, questa, inedita per me (ma anche per tutti gli altri giornalisti e critici cinematografici ben più adusi di me a essere invitati ai festival di mezzo mondo) e che si è rivelata preziosa e utilissima. Ma ben presto scoprirò e scopriremo che Hagay, il buon Hagay, ha pensato davvero a tutto – e non è soltanto un modo, eufemistico, di dire. Sarà così.

Ristoratomi dal viaggio, scendo nella hall dell’albergo e faccio la conoscenza degli altri colleghi giornalisti invitati come me: Ernesto dal Messico, Melis dalla Turchia, il tedesco-francese Wolfgang, Pavlina dalla Bulgaria, Gonzalo da Madrid, Carmen dalla Nuova Zelanda… Siamo tanti, più di 20, 25 circa ma forse qualcuno non è venuto e non verrà mai, e molti di loro si conoscono già attraverso altri festival, o altre giurie; io ne conosco solo alcuni, ma pochi, tuttavia l’atmosfera è immediatamente rilassata e piacevole. Si parla di cinema ma non solo. Ci si presenta, si fa conoscenza.

 

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Il primo impegno per noi obbligatorio è la cerimonia di apertura, il cocktail di benvenuto e la proiezione, all’aperto (nella Sultan’s Pool, un’arena moderna ma altrettanto magnifica, sotto la Cinematheque e verso le mura antiche), di Mia madre (2015) di Nanni Moretti, alla presenza dell’attore John Turturro. L’atmosfera, al solito, è delle migliori: informale, semplice, gradevole. Il venticello e l’aria tersa che regalano a Gerusalemme, lo scoprirai soltanto durante, notti fresche e piacevoli allietano ulteriormente la serata. Il cocktail è nel giardino della Cinematheque, animato da buffet, intermezzi cantati, “good people”. Fai la conoscenza, fra gli altri, di Emanuele Nespeca, produttore italiano di Solaria Film, che il giorno dopo avrà un importante pitch al Jerusalem Film Lab (notevole invenzione all’interno del festival, dedicata allo sviluppo dei progetti) insieme al regista, Adriano Valerio, brillante milanese di stanza a Parigi, del futuro lungometraggio. Ceni con lui, a seguire la proiezione, e ti spiega un po’ come funziona, dal punto di vista “interno”, la dinamica dei festival e dei Film Lab. Il giorno dopo, del resto, è impegno imperativo, seguirai un bel po’ dei pitch in questione, tutti molto stimolanti e interessanti, oltre che “densamente popolati” e attesi nel loro spazio dedicato.

Il giorno dopo, 10 luglio, è prevista una piccola conferenza introduttiva sul Film Lab tenuta da Renen Schorr, regista, docente e talent-scout di fama internazionale. Ci vengono esposte le ragioni, le metodologie e i requisiti del “laboratorio” e la grande valenza economica, a livello internazionale, dei progetti selezionati. Spendibilità è la parola chiave, tutto però condotto senza pompa magna ma, anzi, in silenzio e discrezione. Discrezione sarà un’altra parola chiave, durante il nostro soggiorno a Gerusalemme. Il festival è discreto, sobrio, non ha bisogno di lustrini od orpelli per richiamare attenzione locale (il pubblico tradizionale sarà sempre molto presente durante proiezioni e conferenze aperte a tutti) e attenzione dei media internazionali. Siamo qui anche per questo, in fondo.

Uri Dromi si presenta come una perfetta “guida”, e non solo una delle anime del Press Club, che ha sede prestigiosa nel primo quartiere ebraico sorto fuori dalle mure, lo Yemen Moshe o “quartiere Montefiori”, dal nome del suo ideatore Moshe Montefiori. Ci illustra il passato, il presente e, fin dove lo può intuire, il futuro di questa città, di alcuni suoi quartieri, di alcune sue segrete bellezze, certamente della Cinematheque con e per cui si trova a collaborare. E’ un uomo umile, solare, di una bellezza antica e quasi scomparsa; ha svolto moltissimi lavori, ha fatto la guerra, ma è rimasto saldo e ancorato alla realtà, alla sua realtà, anche familiare. È, a suo modo, un monolite kubrickiano.

Nei vari giorni, proiezioni, incontri, cocktail, o pranzi o cene, si susseguono senza sosta. Vediamo soprattutto film della competizione israeliana, almeno personalmente sono curioso di scoprire una cinematografia altrimenti poco conosciuta se non inedita, almeno nelle sue uscite più recenti. Vediamo film mediocri (JeruZalem, un horror ambientato nella Città Vecchia che pesca a piene mani da tutti i film con gli zombi, da Hostel, da tanto altro ancora; ha un’idea valida nella prima mezz’ora ma poi si perde inesorabilmente ma continua a compiacersi di luoghi comuni, recitazioni pedestri, trovate trite e ritrite tirate con la corda fino allo spasimo), film medi (AKA Nadia, storia d’amore e thriller insieme sulla difficile convivenza, storica ma anche se non soprattutto sentimentale, che regna in questo Paese), film buoni e ottimi (Tikkun, che non a caso si aggiudicherà alla fine i premi più sontuosi), film classici restaurati e riscoperti (uno su tutti: Three Days and A Child, di Uri Zohar, un tempo famoso commediante, una sorta di Woody Allen locale, e oggi rabbino ultra-ortodosso che ha lasciato il cinema e il mondo dello spettacolo e dei lustrini. Il film, nello stile post-Nouvelle Vague degli anni Sessanta, non a caso è del 1967, è una ricognizione ondivaga, qua comica là più tragica, di una condizione esistenziale di nuovo costantemente scissa, separata, diaframmatica. Un uomo, ancora innamorato di una donna che lo ha lasciato e si è risposata con prole, accetta di condividere tre giorni proprio col bambino dell’amata, credendo così di poterla riconquistare. La commedia leggera della prima parte lascia, piano piano ma inesorabilmente, spazio al dramma interiore, sentimentale di un uomo e di un’intera nazione. Davvero notevole e, a tratti, in anticipo sul Kikujiro di Kitano).

Ma il Jerusalem Film Festival non è solo un’occasione per scoprire film e autori altrimenti inaccessibili; è anche un modo per recuperare film passati o premiati in altri festival (giustamente da qualche collega è stato chiamato “il festival dei festival”), oppure film di “maestri” del cinema (sezione ‘Masters’: Terrence Malick, Apichatpong Weerasathakul, Hou Hsiao-hsien, Philippe Garrel, ecc.), oppure film di provenienze lontane. Dietro tanta dispersione e tanta analisi di fonti, c’è però, ne siamo certi, una sintesi chiarissima: fare del Jerusalem Film Festival un riflesso, uno specchio della città, e forse di Israele tutta. Così come nella città, e soprattutto nella Città Vecchia, convivono, più o meno pacificamente, culture, religioni, arti e istanze tanto diverse quanto problematiche, allo stesso modo il festival si è premurato di accogliere spicchi e lampi di cinema vario e contrastante, laddove il conflitto e la contraddizione producano però linfa vitale, terreno fertile, vita. Vita artistica e vita umana. Questo il segreto sottinteso del festival, della sua longevità, della sua intima ma profonda bellezza – che molti altri festival di cinema nel mondo, anche forse più blasonati, hanno perso, smarrito, reso più opaco, o a volte mai nemmeno avuto.

Per quanto riguarda la fertile ricchezza, ma anche la sottile inquietudine, che la città di Gerusalemme, vecchia e moderna insieme, riescono a trasmetterti, ne ho già scritto su Facebook e mi ripeto, riportando un aneddoto occorsomi il quarto giorno del mio soggiornare là. Ecco quanto:

Lo aspettavo. Nessuna fretta né garanzie assolute, ma lo aspettavo. Lo aspetto sempre, senza sperarlo o senza cercarlo apposta, altrimenti non vale. Se viaggi da solo e sei disponibile all’imprevedibile, prima o poi arriva quel giorno in cui il tuo programma, per quanto lucido e pianificato, prende una piega inaspettata che lo trasforma in qualcosa di altro, di unico, nel bene o nel male. Scatta quel ”clic”, spesso inafferrabile e surreale perché attinente alla sfera umana, per cui quel viaggio avrà per te un valore aggiunto e indipendente dalla meta scelta o dal viaggio stesso. Per quel che mi riguarda, ormai lo chiamo ”il momento Donati”. L’anno scorso, a Siracusa, mi successe incontrando, per puro caso, un veterano della guerra del Vietnam. A me, così appassionato di quel periodo storico, di quella America lì, splendida perché fragile, e di tutto quel cinema che la racconta e critica ora con ferocia ora con commossa compassione, sembrò un autentico miracolo. Oggi è stato quel giorno e, sempre per puro caso, è andata di nuovo così. Epifanie. Ti svegli molto presto e a colazione, in hotel, ti ritrovi un intero commando di militari. Hanno la bandiera israeliana sulla divisa ma sono di diverse nazionalità, se non hai capito male. Tengono il fucile sui tavolini. A un tratto uno di loro, dallo sguardo buono, forse perché il tuo, di sguardo, ci si è soffermato qualche secondo di troppo, ti guarda e ammicca al fucile. “Wanna touch?”. Ci metti qualche secondo a capire che lo sta dicendo davvero, e per giunta proprio a te. Boh, che ti devo dire, let’s touch, sempre meglio una storia in più da raccontare che una in meno. Lo pensi ma non lo dici; e sfiori l’arma, con lui che ti sorride. Poi ti incammini fuori e attraversi la Città Vecchia di Gerusalemme che non sono ancora le 7.30 e in giro non c’è un’anima, nemmeno nei mercati centrali musulmani che invece anche di notte, di solito, sono frequentatissimi e schiamazzanti. Le pietre giallognole del Muro Occidentale sembrano parlarti, nel silenzio. Oltrepassi tutto, comunque, e sali su al Monte degli Ulivi. Passa qualche macchina, c’è un barbone che ha passato la notte accanto alla Tomba di Maria, un gatto sonnolento ti si struscia alle gambe. Tu entri nell’Orto del Getsemani, hanno appena aperto il cancello e sei solo. Ti sembra di sentire Zeffirelli incitare il ”Ciak! Motore! Azione!”, ma per fortuna è solo un tuo incubo infantile che per un attimo si riaffaccia sgradito. Prosegui ancora verso l’alto, dove è tutta una serie di chiese, chiesette, cappelle, spesso russo-ortodosse. Non ne trovi una in particolare, che la guida ti segnala come la più bella ma pure la più impervia da scovare. E qui ti soccorre per ben due volte, prima segnalandotela poi, quando hai capito che in pantaloncini corti non ti faranno mai entrare, coprendoti con il suo velo per il capo, quello che poco dopo, quando comincerà a parlarti senza sosta invitandoti nel frattempo a casa sua per mangiare e bere, si rivelerà essere un Ambasciatore di Pace famoso nel mondo, con dozzine di articoli, vari documentari, interviste, fotografie con tutti i capi religiosi e politici, e tanto altro. Tu ascolti e basta, per qualche ora: per esempio che nel passaporto lo danno nato a Israele nel 1942 quando lo Stato di Israele invece non era ancora nato, o che lo danno come cittadino giordano ma che la Giordania lo ha disconosciuto. Allora chi è, un semplice apolide o un fantasma? Si chiama Ibrahim, tu fino all’ultimo non riuscirai a fidarti completamente e pensi che prima o poi esigerà la sua tassa mediorientale; invece quello ti regala il suo velo. Allora torni giù, trovi due rabbini di stanza a New York ma in visita qui che ti illustrano la Tomba dei Profeti, scendi ancora e scivoli via, leggero e bellissimo, di fronte alla folla che adesso occupa fino a metà la strada davanti all’Orto del Getsemani. Torni in hotel e sei quello di prima, non credi in niente e non ti sei messo a professare alcuna religione; solo che adesso ti senti un Tutankhamon dei viaggi. Ma soprattutto sai che potrai portare con te fino alla fine dei tuoi giorni l’ultimo sublime consiglio di Ibrahim, un messaggio di pace e di speranza come pochi: Don’t trust anybody, my friend. They are all thieves. Il surreale, si diceva. •

Roberto Donati

 

 

Sitografia di riferimento:
Jerusalm Press Club
Jerusalem Film Festival
JPC’s Special Program (Flickr)

 



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