Il film, girato nel 2013 a Kiev, usa solo il linguaggio dei segni ucraino. Niente voice over, niente traduzione, niente sottotitoli, niente musica. Niente aiutini, insomma; solo i rumori di sottofondo. Tutta la nostra attenzione è concentrata sui movimenti degli attori, sul loro corpo, ma mai sul loro viso. I movimenti sono credibili, forti, forse un po’ esagerati, visto che – in modo più o meno violento – si tengono sempre le mani addosso.
Entriamo in un collegio per sordomuti assieme a un giovane di circa sedici anni che stringe tra le mani il proprio bagaglio, un paio di borsoni di plastica. Dietro a un vetro vediamo la festa del primo giorno di scuola. Entriamo in classe assieme al protagonista, una classe di studenti vivaci e indisciplinati; per farci capire che pure i sordomuti possono fare casino in classe ed essere dei teppisti. Il collegio si rivelerà essere un microcosmo del tutto autosufficiente basato su principi gerarchici e sulla regola molto semplice ed efficace del più forte che vince sul più debole. I più piccoli taccheggiano sui treni, i più grandi rubano e fanno i papponi; mentre il passatempo di tutti quanti è menarsi o, al limite, bere. Ma non c’è da preoccuparsi per il nostro giovanottone: riuscirà comunque a inserirsi presto nella gang del convitto e a fare in fretta carriera.
Noi rimaniamo sempre a una distanza di sicurezza dagli eventi. Non ci sentiamo vicini ai protagonisti, vediamo solo i fatti accadere, come in un documentario lento e talvolta ripetitivo. La mancanza del linguaggio verbale nel film passa presto in secondo piano; la storia è così semplice nella sua brutalità e disperazione, che la mancanza di dialoghi più che un omaggio al film muto (come sostiene il regista Myroslav Slaboshpytskiy) sembra l’unico espediente in grado di non farci soccombere al film.
Nel film non c’è l’amore che mi avevano promesso i recensori a cui avevo dato ascolto prima di andarlo a vedere, e che evidentemente sono stati depistati dal trailer che dice ‘for love and hatred, you don’t need translation’. Il nostro eroe-giovanottone decide semplicemente che una ragazza che accompagna a battere gli appartiene; quando fanno sesso lui la paga come fa qualsiasi altro cliente, con l’unica differenza che lei apprezza gli amplessi. Poi lui si prende una tranvata per lei, è vero, ma ci sono altri termini più adatti a descrivere quella cosa che prova il protagonista: fissazione, ossessione, possessione, attaccamento. Ma quella cosa lì, non è amore. E lei non lo ricambia, manco per un secondo. Un paio di volte gli sorride, d’accordo. Ma lui la pagava, anche molto bene, se è per quello.
Non è l’arte per l’arte, ma il dolore per il dolore. Vediamo per tutto il tempo dei corvi che si muovono in stormi, muti senza nemmeno gracchiare, su un paesaggio bianco grigio gelido esanime. Niente amore, niente allegria o passione o umanità o ironia, solo violenza e sopraffazione. Non so, se ve la sentite, ma non sono sicura che ne valga la pena. •
Cristina Beretta
Plemya (The Tribe)
Regia, sceneggiatura: Myroslav Slaboshpytskiy
Fotografia, montaggio: Valentyn Vasyanovych
Costumi: Alena Gres
Suono: Sergey Stepanskiy, Maksym Ponomarchuk
Production Design: Vlad Odudenko
Produttori: Miroslav Slaboshpitsky, Valentyn Vasyanovych
Interpreti: Grigoriy Fesenko (Sergei), Yana Novikova (Anna), Rosa Babiy, Alexander Dsiadevich, Yaroslav Biletskiy, Ivan Tishko, Alexander Osadchiy, Alexander Sidelnikov, Alexander Panivan
Produzione: Garmata Film Production con il supporto di: Ukrainian State Film Agency, Rinat Akhmetov’s Foundation “Development of Ukraine” (with the support of), The Hubert Bals Fund of the Rotterdam Festival
Distribuzione italiana: UFO Distribution
Souno: DTS
Rapporto: 2.35 : 1
Camera: Arri Alexa
Formato di proiezione: DCP
Paese: Ucraina, Paesi Bassi
Anno: 2014
Durata: 126′