Il Transbordeur, rispetto a casa mia, che si trova in una periferia centro del mondo, decolla all’altro capo della città, nei pressi di un parco enorme, londinese, imperiale, ma allo stesso tempo spoglio: ampi margini, stradoni di terra battuta, l’erba d’un verde filtrato d’una tristezza tecnica, quanto di più lontano dall’eroico, un marginale privo di sensualità.
Appoggiato a una stradella attrezzata a pista ciclabile, a corridoio metropolitano, c’è un museo, fuori una sciocchezza di Yoko Ono, dentro una personale di Jan Fabre, che resiste militarmente: la testa di Fabre, in una sala squadrata, o ovunque, a un angolo taglia, orizzontalmente, il braccio di Marina Abramovic, il loro vuoto si costituisce d’una consapevolezza che mi sfugge, ma che ammiro: questione ontologica, statuto d’essere ansimante.
Arrivo, un po’ scocciato, senza un motivo preciso, fa freddo fuori, una fila esteticamente interminabile, che termina lesta. Facce note al microcosmo, perlopiù.
Mettendo piede dentro al locale decido di restare quanto più nudo possibile, lascio quello che posso al guardaroba, voglio penetrare certo esibizionismo, mi dico, a posteriori, per dormire.
Il concerto è aperto dai La Tendre Emeute. Un buon gruppo, male assortito, alla francese. Alcuni hanno i capelli lunghi e sembrano dei fan degli orrendi Airbourne, altro membro alterna un vestito da sposa a una camicia di forza a pois: un paio di pezzi ballabili, una dolce techno, con qualcosa che mi riporta alla mente gli Smegma Bovary, poi, un pezzo inspiegabilmente pseudo maghrebino, cantato dal batterista, un giovanotto del Bronx dei tardi ’80, probabilmente cresciuto in una strada secondaria di una Nancy qualunque. Finiscono, un bacio tra la sposa e uno dei La Femme.
I La Femme si muovono come in un circo laido, un calderone licenzioso ribollito, che si protende agli sguardi avidi di chi osserva nel mostrare una leggera lussuria mediante un battito intenso – queste batterie mai esacerbate – la loro presenza ricamata accarezza, monta e ridiscende, chi sta sotto il palco e poi, ancora, risale: donano una sensazione bizzarra, come di rientrare a casa, all’alba di un sabato qualunque, e prendere in mano la situazione.
Accompagnato al loro cospetto, solo per un pezzo, a dare il senso dell’incertezza, fa il suo ingresso una camicetta scollata, un inglesina alla François Truffaut, una Jane Birkin. Cose.
Resta una sensazione fumosa e positiva di ricerca d’un sospiro sconcio, volgare e kitch, di quelli che lasciano sul collo una traccia di saliva.
In scena ci sono due soli, gli uomini e la donna, s’alzano, s’incoronano l’un l’altro, eccitano la lingua dei capelli rosa, che ho baciato dopo il concerto. Infilano tutti i pezzi del nuovo disco e lasciano spazio ai successoni del disco avanti. Incitano il pubblico alla separazione in due mari rossi, riuniti in un collettivo transgenitale, per far marciare un’onda di corpi: notti attiche di cui non resterà nulla.
Bisogna scegliere una linea per raccontare un concerto o concedersi un caos di verità mischiate? La risposta sarà come cercare di soffiare via, sulle linee acide della sigaretta che una danese m’allunga, col racconto noioso e astratto delle sue avventure, questa figurina di cantante, una volta attraente, ora pretenzioso, con ‘sti capelli punk: dio per un paio d’ore, la bestemmia più scintillante, lacca-schiuma-vestiti vistosi-carne-sudore-contrazione eretta in uno spasmo che raggiunge la durezza del marmo, avremo sempre David Bowie.
Un concerto confuso, che ha cercato di alzarsi e respirare. Bello e dimenticabile.