«Ho iniziato la mia carriera come regista di B-movies. Questo tipo di film è sostanzialmente votato all’intrattenimento. Perciò le sceneggiature che ricevevo dallo studio non avevano assolutamente nulla di artistico con cui cominciare, e non c’era alcuna speranza di ricavarne un film “artistico”. L’unica cosa che potevo sperare di fare erano film che fossero piacevolmente divertenti.»
«Tempo fa dissi che non esiste una “grammatica del cinema”. In sostanza, c’è il campo lungo, il primo piano […], e così via. Queste sono le regole base del cinema, immagino lo sappiano tutti. Dissi che non esiste una “grammatica del cinema” perché credo che non esistano uno spazio e un tempo fissi in un film. […] Nei miei film, gli spazi e i luoghi cambiano. Ad esempio, in un’inquadratura ci sono due personaggi, e nel controcampo di uno dei due, quest’ultimo si trova in un luogo totalmente differente. Il film, tuttavia, non perde di senso. Inoltre, attraverso il montaggio il regista può modificare il tempo a suo piacimento. […]. Penso che questo sia il punto di forza del cinema d’intrattenimento. Si può fare tutto, nella misura in cui ciò renda il film interessante. Questa è la mia teoria della “grammatica del cinema”.»
Seijun Suzuki, all’anagrafe Seitarō Suzuki, è senza dubbio una figura affascinante e sui generis nel panorama del cinema d’autore internazionale. Per gran parte della sua carriera è stato regista di yakuza movies per la Nikkatsu, una delle case di produzione giapponesi specializzate nel genere. Con una media di tre o quattro film all’anno, Suzuki affermava che il cinema per lui fosse un semplice mezzo di sostentamento, e di essere privo di qualsiasi ambizione artistica. Eppure nei suoi film hanno fatto comparsa elementi sempre più “sovversivi” delle logiche del cinema di genere, sino ad arrivare a La farfalla sul mirino. Quest’ultimo fu un clamoroso insuccesso commerciale e di critica, che gli costò il licenziamento dalla Nikkatsu nel 1967, nonché un lungo periodo di inattività sulla scena cinematografica: nessun’altra casa di produzione era più disposta ad assumerlo, data la sua fama di regista eccentrico e fuori dagli schemi. Solo negli anni ’80 Suzuki cattura l’attenzione della critica internazionale, e i suoi film divengono oggetti di culto per registi acclamati come Quentin Tarantino e Jim Jarmusch. La nostra attenzione si concentrerà su La farfalla sul mirino, film che ha indubbiamente segnato una svolta nella carriera del regista, e che può essere in una certa misura considerato una summa della sua poetica.
Ne La farfalla sul mirino, Suzuki opera una reductio ad absurdum del film come veicolo di significato, sì da portare lo spettatore a riflettere sulla natura dell’oggetto-cinema in quanto tale. La (non)-narrazione del film ruota intorno al personaggio di Gorō Hanada, killer professionista assoldato da membri della yakuza per portare a termine una serie di omicidi. Sin dalla prima scena si profila l’esistenza di una precisa gerarchia nella schiera dei sicari. Hanada si trova in terza posizione, e la “classifica” è guidata da un misterioso “Number One” la cui identità è sconosciuta. Nel corso di una delle sue missioni, Hanada incontra la misteriosa Misako, femme fatale che in seguito torna da lui per chiedergli di uccidere un uomo. Sfortunatamente, nel momento in cui Hanada sta per premere il grilletto, una farfalla si posa sul mirino, e il colpo non va a segno. L’ossessione di Hanada per la bellissima Misako nel frattempo è cresciuta, sino a diventare quasi insostenibile, precipitando il protagonista in uno stato di costante estenuazione psico-fisica. Ciononostante, eliminata una folta schiera di avversari, Hananda arriva infine a confrontarsi con il misterioso Number One.
La trama de La farfalla sul mirino è in apparenza quella di un comune gangster movie, ma il genio registico di Suzuki riesce a costruire su questa base un oggetto cinematografico senza precedenti. L’integrità narrativa e stilistica del film di genere è infatti minuziosamente decostruita grazie a una serie di elementi della messa in scena e a precise scelte registiche che ne sovvertono le fondamenta. La pellicola diviene dunque portatrice di (non)-significati inediti, operando un sistematico spaesamento dello spettatore. Questo processo di decostruzione è evidente sin dall’inizio, nella scena in cui Hanada incontra i boss che gli assegnano la prima missione. Qui veniamo a conoscenza di una sua caratteristica alquanto bizzarra: l’odore del riso bollito è fonte di un piacere viscerale per il protagonista, che viene ritratto più volte in totale assuefazione di fronte a un bollitore. Con l’aggiunta di un tratto comico, Suzuki incrina sin da subito lo stereotipo del gangster. Come già anticipato, anche la messa in scena gioca un ruolo fondamentale nel processo di reductio ad absurdum operato dal cineasta giapponese. Una delle uccisioni portate a termine dal protagonista avviene in modo del tutto surreale: il proiettile colpisce il bersaglio, un oculista, attraverso lo scolo del lavandino in cui quest’ultimo si sta lavando le mani dopo aver operato un paziente. Ugualmente inverosimile è la scena in cui Hanada elimina alcuni dei sicari dell’organizzazione che aveva tramato contro di lui con l’appoggio della moglie. Il protagonista riesce senza problemi a percorrere svariati metri strisciando sotto una macchina, che fa avanzare tirando con una sola mano una fune cui la vettura è legata.
La reductio ad absurdum non avviene solamente per mezzo di buffe trovate di messa in scena. Movimenti di macchina e montaggio sono strumenti privilegiati di cui Suzuki si serve per sovvertire le logiche di significatività del linguaggio cinematografico. Si prenda ad esempio la scena in cui Hanada uccide un gioielliere e i suoi collaboratori nell’ufficio dove questi ultimi stanno esaminando alcune pietre preziose. La scena, girata con macchina a mano, si apre con un’inquadratura in soggettiva, dove si vede il braccio di Hanada spalancare la porta. La macchina da presa fa irruzione e avanza nell’ufficio, inquadrando con rapidi movimenti laterali e verticali le uccisioni in sequenza dal punto di vista del protagonista, poi i cadaveri stesi a terra. La ripresa continua con un movimento verso l’alto, si sente qualcuno aprire la porta al piano di sopra: una rapida panoramica verso destra mostra il protagonista nell’atto di fuggire attraverso la finestra. Nessuno stacco tuttavia interviene a segnalare il cambiamento del punto di vista nell’inquadratura. Si trattava dunque di una ripresa in soggettiva, oppure la cinepresa ha assunto un punto di vista autonomo, come in quello straordinario movimento di macchina in Sei donne per l’assassino (Mario Bava, 1964), in cui, durante una lenta carrellata attraverso una stanza, essa arrivava a urtare un manichino? Il regista sembra ingannare volutamente lo spettatore, attraverso un utilizzo tanto insolito quanto raffinato degli strumenti registici a sua disposizione.
Un passaggio del film in particolare, che descriveremo analiticamente, offre un chiaro esempio di come le scelte registiche di Suzuki siano intenzionalmente volte a destabilizzare la linearità e la verosimiglianza della narrazione filmica.
Misako offre un passaggio a Hanada, la cui auto è in panne, dopo che quest’ultimo ha portato a termine la sua prima missione. I due hanno una laconica conversazione sulla decappottabile di Misako, sono bagnati fradici, sotto una pioggia scrosciante. La macchina da presa inquadra in alternanza Hanada di spalle e Misako di profilo. Hanada lascia cadere un accendino sul sedile.
- La macchina da presa inquadra ancora Hanada di spalle, poi fa un rapido zoom sul cadavere di un piccolo uccello, appeso allo specchietto retrovisore, con uno spillo infilzato nella gola.
- Stacco. Primissimo piano di Hanada, il suo volto illuminato da una luce laterale. Non sappiamo dove si trovi, sembra guardare qualcosa alla sua sinistra in una stanza in penombra, accenna un sorriso, poi il suo sguardo si perde. Il rumore della pioggia è ancora fortissimo, in continuità con l’inquadratura precedente.
- Stacco. L’inquadratura è ora occupata interamente da acqua che scroscia in primo piano. S’intravede un’ombra fuori fuoco al di là del velo d’acqua. Si sente ancora il rumore della pioggia, con la stessa intensità. Improvvisamente una mano solleva la manichetta della doccia: è la moglie di Hanada. La macchina da presa segue il movimento della sua mano, sensuale, mentre si risciacqua a partire dai piedi, sino a svelare la sua intera figura. Non appena la mano solleva la manichetta della doccia, il rumore della pioggia si affievolisce fino a scomparire.
- Stacco. Inquadratura di Misako in primissimo piano, di profilo, ancora sotto la pioggia.
- Stacco. Hanada è a casa sua: sta annusando il riso che bolle in cucina. Il rumore della pioggia è del tutto assente, l’illuminazione è diffusa, come a suggerire che il protagonista si trovi in una stanza differente rispetto all’inquadratura precedente. Nella parte sinistra dell’inquadratura si intravede la moglie uscire dal bagno e asciugarsi i capelli.
- Stacco. Primo piano di Misako. Non è più sotto la pioggia, ma il rumore di quest’ultima torna in sottofondo.
- Stacco. La moglie di Hanada sale le scale per recarsi in camera.
- Stacco. Primissimo piano frontale di Misako, rapidissimo, ancora con la pioggia in sottofondo.
- Stacco. Primissimo piano di Hanada, con un brusco movimento il protagonista si gira e segue la moglie in camera da letto.
Nella brusca transizione da (1) a (2), la continuità sonora della pioggia in sottofondo suggerisce allo spettatore che il protagonista e sua moglie si trovino in luoghi differenti. Il rumore si interrompe infatti quando la macchina da presa svela il corpo della moglie di Hanada mentre si fa la doccia (3). Il primissimo piano di Misako sotto la pioggia (4) pare invece in continuità con l’inquadratura (2), data ancora una volta la continuità sonora che le accomuna. Lo spettatore è dunque portato a pensare che Misako e Hanada si trovino nello stesso luogo. Ma la successiva inquadratura di Hanada (5) contraddice le aspettative. Non è chiaro dunque se le inquadrature di Misako rappresentino i pensieri ossessivi del protagonista, rimasto folgorato dalla bellezza della donna, oppure un momento in cui i due si trovavano insieme in un luogo imprecisato, dopo il viaggio in auto, presentati in flashback. I piani spaziali e temporali si sovrappongono. Il regista si rifiuta di presentare lo svolgersi dell’azione in modo lineare, utilizzando un linguaggio più convenzionale. L’ipotetico utilizzo della dissolvenza, ad esempio, potrebbe suggerire che le inquadrature di Misako siano semplicemente proiezioni mentali del protagonista.
Suzuki pare dunque operare un disvelamento della finzione cinematografica, attraverso la quale una serie di eventi che si svolgono davanti alla macchina da presa sono minuziosamente scomposti e ricomposti attraverso il montaggio per creare un’illusione di realtà. Ne La farfalla sul mirino, il cineasta giapponese sembra intendere il cinema come mera illusione ottica, buffo gioco di immagini sconnesse che confonde lo spettatore. Emblematica è in questo senso la scena in cui Hanada torna a casa di Misako dopo aver ucciso la moglie. Egli si trova davanti Misako, con l’ombra della bobina di un proiettore cinematografico in funzione che si profila sul suo corpo, coprendo le sue parti intime. Misako a sua volta proietta un’ombra su un telo che si trova dietro di lei. Lo spettatore è dunque certo che Misako si trovi nella stanza. Hanada corre verso di lei, ma si ritrova ad abbracciare il telo, mentre sul muro davanti a lui un filmato mostra la donna mentre viene sottoposta a torture. Hanada si preme contro il muro disperato, come a voler abbracciare la proiezione di Misako, che a un tratto sembra rispondere ai singhiozzi disperati di Hanada, sospirando «ti amo» prima di cadere svenuta. Ancora una volta, il regista inganna volutamente lo spettatore, confondendo il supposto piano del reale con quello dell’immaginazione del protagonista, che divengono a tutti gli effetti indistinguibili.
L’utilizzo non convenzionale della messa in scena e del montaggio produce dunque un continuo sfasamento di piani, che disvela la natura fittizia e illusoria di ciò che si presenta allo spettatore nell’esperienza cinematografica. Questo processo non a caso si accompagna al progressivo crollo psicologico del protagonista. Questo giunge al culmine nel momento del confronto finale con il famigerato Number One, il quale invece di ingaggiare Hanada in un duello tra uomini d’onore, come ci si potrebbe aspettare, o semplicemente assassinandolo alle spalle, lo coinvolge in una specie di sfida di resistenza psicologica totalmente insensata. Quest’ultima porta entrambi allo sfinimento, e termina in un incontro all’interno di un’arena di pugilato, da cui il protagonista esce vittorioso, perdendo però del tutto la lucidità mentale e uccidendo l’amata Misako. La follia del protagonista pare dunque una metafora del cinema stesso, medium capace di creare un’illusione di realtà che può suscitare reazioni emotive dirompenti nello spettatore.
In conclusione di questo breve scritto, e alla luce dell’analisi critica di alcuni passaggi chiave, è certamente difficile classificare un film come La farfalla sul mirino. Beffarda creazione di un regista poco incline a identificarsi con le ristrette logiche di produzione serializzata, o profonda riflessione sulla natura del linguaggio cinematografico come veicolo di significato? Il cineasta giapponese, intervistato, certamente negherebbe umilmente qualsiasi velleità artistica o di riflessione meta-cinematografica, presentandosi come un semplice artigiano, per cui il cinema altro non è che un mezzo di sostentamento. Noi crediamo invece che la grandezza di Seijun Suzuki risieda nell’estrema precisione e raffinatezza stilistica con cui egli sovverte dall’interno le regole base del medium cinematografico, trasformando consapevolmente uno yakuza movie in puro nonsense, e portandoci a riflettere sulla natura stessa della finzione cinematografica. •
Lorenzo Livraghi
殺しの烙印 / Koroshi no rakuin / Branded to Kill / La farfalla sul mirino
Regia: Seijun Suzuki • Sceneggiatura: Hachiro Guryu • Fotografia: Kazue Nagatsuka • Montaggio: Akira Suzuki • Musiche: Naozumi Yamamoto • Direzione artistica: Motozō Kawahara • Produzione: Kaneo Iwai • Interpreti principali: Jō Shishido, Kōji Nanbara, Isao Tamagawa, Annu Mari, Mariko Ogawa, Hiroshi Minawa • Produzione: Nikkatsu • Rapporto: 2.35:1 • Colore: bianco e nero • Paese: Giappone • Anno: 1967 • Durata: 98′