articolo pubblicato su Rapporto Confidenziale – numero10, dicembre 2008 (pag.18-19).
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L’UOMO LUPO CONTRO GOMORRA.
La croce dalle sette pietre di Marco Antonio Andolfi tra mito e realtà
di Roberto Rippa
Esistono film che tutti conoscono per la loro fama senza però averli mai visti. Cito, alla rinfusa, Bronenosets Potyomkin (La corrazzata Potemkin) di Eisenstein, che molti ritengono erroneamente sia un film noiosissimo a causa di una battuta pronunciata dal ragionier Ugo Fantozzi più di trent’anni fa; Singin’ in the Rain di cui tutti conoscono la famosa scena del ballo di Gene Kelly tra i lampioni ma che pochi riconoscono come un capolavoro di satira sul cinema nel momento del suo passaggio dal muto al sonoro; W la foca di Nando Cicero, scomparso causa sequestro nel 1982 e riapparso 22 anni dopo alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia nella retrospettiva Italian Kings of the B’s; Umberto D di De Sica, dalla famosa scena in cui Umberto Domenico Ferrari tende la mano per chiedere l’elemosina ritraendola subito per l’imbarazzo; L’uomo lupo contro la camorra di Marco Antonio Andolfi che la maggior parte delle persone conosce per il suo sottotitolo e non per il titolo, La croce dalle sette pietre, che cita, ormai fuori tempo massimo con una decina di anni di ritardo sul fenomeno, i titoli dell’era aurea del cinema giallo all’italiana come L’uccello dalle piume di cristallo e relative derivazioni alte e basse. A dimostrazione di questo, basta inserire il titolo – quello vero – in Google per ottenere 139000 risultati contro i 92000 del sottotitolo.
Non proprio un testa a testa ma nemmeno una disfatta per il secondo.
L’irreperibilità del film e la conseguente difficoltà (difficoltà, non impossibilità) nel vederlo rischiano poi di offuscare con il mito il giudizio. Per squarciare il velo e penetrare nel mito basta una prima – anche distratta – visione. Sin dai primi fotogrammi è impossibile non accorgersi di assistere a un indiscutibile capolavoro del cinema bis italiano. E questo per più di un motivo.
La storia innanzitutto, per quanto – come poi vedremo – sia secondaria rispetto alla messa in scena: Marco è stato concepito con il demone Aborym da una madre sua seguace.
La pesante eredità di tanta paternità è la trasformazione in un sanguinoso uomo lupo (1) allo scoccare di ogni mezzanotte. L’unico espediente in grado di preservarlo dalla malaugurata mutazione è un medaglione con sette pietre preziose da indossare – ça va sans dire – sul petto villoso, in bella mostra grazie alla camicia lasciata aperta. Quando Marco si reca a Napoli su invito di una misteriosa cugina, il medaglione gli viene rubato da una banda di delinquenti legati alla camorra.
A Marco non resterà che sfidare i criminali per poter recuperare l’unico strumento che gli permette di condurre un’esistenza, almeno notturna, normale.
Chiaro, puntuale, preciso. Non fa una grinza.
Marco Antonio Andolfi, napoletano trapiantato a Roma, attore, fondatore della compagnia teatrale Artisti riuniti e con trascorsi da sceneggiatore di fotoromanzi, decide di portare l’ardita storia sullo schermo previo ottenimento di un finanziamento pubblico pari a 150 milioni di Lire (2), una cifra non eccessiva nemmeno nel 1987, anno di produzione del film, che lo porta a risparmiare sull’attore protagonista assumendosi lui stesso la parte (nonché il ruolo del montatore e del responsabile degli effetti speciali) nascondendosi dietro lo pseudonimo Eddy Endolf.
Difficile risalire a dati precisi sul metraggio e la durata del film, essendo quella dedicata al film di Andolfi l’unica scheda contenuta nel sito ufficiale dell’Anica a essere inaccessibile, una maledizione che sembra voler trascendere il film stesso.
La copia da me visionata ha una durata di 82′ 25”, compreso il cartello iniziale della casa di produzione.
Il film parte con l’incontro con una presunta cugina che, anticipando Lynch di molti anni, Andolfi fa sparire immediatamente facendola sostituire da un’altra attrice, senza che la sostituzione venga spiegata in maniera particolarmente congrua (3).
Il furto del monile – Andolfi dice di essersi ispirato a un fatto accadutogli realmente – è immediatamente susseguente all’incontro.
Il regista non perde alcun tempo nell’inserire nella storia i delinquenti legati alla camorra che, come dice Gianluca Nicoletti nell’introduzione all’intervista a Andolfi andata in onda su Radio24 il 29 maggio 2008 (4), trasforma il film in una sorta di prefazione a Gomorra di Garrone, arrivando a definirlo “un film intrecciato con un senso profondo della protesta civile, esempio di fantastico che si intreccia con il quotidiano”.
Sempre a Nicoletti, il regista spiega la trasformazione del protagonista in uomo lupo attraverso la sola aggiunta di pelo sulla metà superiore del viso, sulle mani e sui piedi, dicendo di essersi ispirato alle maschere della mitologia greca e all’iconografia dei Testi sacri.
E l’effetto è molto efficace per sottolineare, attraverso la trasformazione solo parziale, il fatto che in ogni uomo si nasconde un lupo.
Sollecitato da Nicoletti proprio sugli effetti speciali, Andolfi si schermisce condividendone la paternità con non meglio specificati “altri”.
La rozza messa in scena altro non sembra che un richiamo visivo allo squallore della situazione.
Il genio di Andolfi si manifesta innanzitutto nel non sostenere convenzionalmente il film con una sceneggiatura coerente bensì infarcendolo con frasi sconnesse e dialoghi privi di senso costruendo un capolavoro di destrutturazione che fa sì che ogni dialogo possa essere spostato in un qualsiasi altro punto del film senza che l’effetto cambi.
Il secondo esempio del suo genio consiste nell’utilizzare sì i tòpoi del cinema di genere, ma spogliandoli di ogni efficacia, come a volerne mettere a nudo l’insincerità.
Un esempio tra i tanti, le scene di azione, in cui – si potrebbe superficialmente ritenere per errori di montaggio – gli attori appaiono spesso fermi in attesa del via da parte del regista in una sorta di – basterebbe l’apparizione di un microfono nell’inquadratura – tentazione metacinematografica.
Il tutto altro non fa che ampliare il senso di straniamento della vicenda che appare per questo sospesa nello spazio e nel tempo.
I personaggi sono totalmente intercambiabili, del resto alcuni appaiono e scompaiono senza senso apparente, cosa che contribuisce a mantenere l’attenzione sulla vicenda nella sua essenza senza ammenicoli o malizie cinematografiche di sorta che in una storia come questa apparirebbero come meri, inutili, orpelli.
La sceneggiatura metterà a dura prova la resistenza di Marco il quale, dopo numerose vicissitudini e l’incapacità di mantenere un equilibrio tra i suoi due aspetti estremi, troverà la tanto agognata serenità accanto alla sua Maria, che pazientemente lo ha aspettato e addirittura aiutato.
Li vedremo camminare in piazza San Pietro in una scena in cui il volto di Gesù si sovrapporrà per alcuni secondi all’immagine della cupola, come una sorta di benedizione per un viaggio all’inferno e ritorno condotto con mirabile coerenza umana.
E questa è una chiave di lettura.
Ce n’è un’altra.
Nel 1987 c’è una decisa aria di smobilitazione nel cinema di genere italiano: il grande Lucio Fulci gira in Serbia Aenigma, una delle sue opere meno riuscite; Sergio Martino si dedica alla regia dei film per la televisione Provare per credere (con il Guido Angeli allora testimone pubblicitario di Aiazzone) e Un’australiana a Roma (con Nicole Kidman e Massimo Ciavarro!); Joe D’Amato-Aristide Massaccesi abbandona i toni forti del suo cinema per approdare alla commedia giovanilistica, con un pizzico di voyeurismo fuori tempo massimo con Delizia, protagonista la televisiva Tinì Cansino; Edwige Fenech conduce Domenica In e i registi attivi in più generi come Mario Bianchi hanno fatto già da tempo il salto nel porno per motivi alimentari.
La televisione, che della morte dell’industria del cinema di genere italiano è la principale imputata, ha come programma di punta per il pubblico più giovane I ragazzi della terza C.
È in questo clima che Andolfi gira un film la cui atmosfera generale è da porno primi anni ‘80, con una sceneggiatura che non sta in piedi nemmeno per un minuto e interpreti che sembrano non sapere cosa fare, primo tra tutti Gordon Mitchell, l’eroe di tanti peplum e presenza di molti western all’italiana, che in quegli anni si divide tra i set del regista re del porno francese Jean-Marie Pallardy (Overdose, 1987), quello di Le miniere del Kilimangiaro di Mino Guerrini (1986) e di Delirio di sangue (1988) di Enzo Milioni a dimostrazione dell’entità del costo degli affitti a Marina Del Rey, in California.
Anche le presenze femminili appaiono spaesate, come fossero state trascinate sul set mentre passavano per strada.
Annie Belle (nella vita Brilland), bellissima protagonista, tra i molti altri, di Laure di Assonitis (1976), de La fine dell’innocenza di Dallamano e di Velluto nero di Rondi, passando per più generi tra cui la sceneggiata napoletana, si appresta in quegli anni a lasciare sconsolata l’Italia per fare ritorno in Francia in seguito ad alcuni problemi personali.
Intervistata per il volume 99 donne curato da Nocturno cinema (5), afferma di non ricordare nemmeno questo film, a ulteriore dimostrazione di quanto la sua lavorazione sia durata.
Zaira Zoccheddu, che appare fugacemente nei pochissimi panni della veggente Madame Amnesia (sic), nel maggio del 1981 è immortalata sulle pagine di Playboy italiano nella rubrica Italia nuda, dove veniva presentata come una parrucchiera in servizio presso il salone Castore e Polluce di Roma che dichiarava di “volere l’amore ma, prima, di voler diventare un’attrice famosa”. L’aspirante famosa nel 1987 ha già partecipato a, tra gli altri, L’italia in pigiama (1977, di Guido Guerrasio), dove è la figlia incestuosa di Tano Cimarosa, I porno amori di Eva (1979, di Giorgio Mille), Femmine infernali (1980) e Orinoco, prigioniere del sesso (1981, entrambi di Edoardo Mulargia) e addirittura al porno Gocce d’amore (1981) di Giovanni Leacche, dove pare si spinga oltre il limite del soft.
Insomma, il film si porta dietro quell’aura funebre legata all’ormai evidente morte di un cinema che non è più riuscito a tornare. Ma qui, a dispetto delle opere di genere italiane, una vera a propria industria capace di produrre a ritmo vertiginoso e di esportare le sue opere in mezzo mondo, non c’è né il mestiere (Andolfi non sa girare), né una sceneggiatura (la storia non sta in piedi nemmeno un secondo), né un gusto per l’eccesso (la messa in scena è piuttosto convenzionale e appare scatenata solo nei flashback). La croce dalle sette pietre è un totale disastro che può essere giudicato in due modi almeno: con gli occhi della nostalgia per un cinema ruspante, fatto di pochi soldi e qualche idea, perdonandogli quasi tutto, o con quelli dell’ammirazione per il coraggio di raccontare, nel 1987, di un lupo mannaro, con le terga costantemente e generosamente esposte, che sfida la camorra.
Questa sì, un’idea sublime.
Questo senza ricordare che An American Werewolf in London (Un lupo mannaro americano a Londra), piccolo gioiello di John Landis, dista soli sei anni da questo (6). Che a Andolfi sia venuto in mente di fare un’operazione simile? E le musiche di Rustichelli sono originali o sono riciclate da altra fonte, come è lecito supporre?
Qui il cinema di genere italiano lo si ama. Si amano Umberto Lenzi, Fernando Di Leo, Lucio Fulci, Stelvio Massi, Marino Girolami, Sergio Martino, Enzo G. Castellari, Nando Cicero e il suo cinema estremo, ma Andolfi è un’altra cosa.
Distantissimo dai nomi citati ma anche dai vari Andrea Bianchi, Mario Gariazzo, Bruno Mattei. Più vicino al gusto estetico di Raniero Di Giovanbattista (alias Jonas Reiner), Salvatore Bugnatelli, Alberto Bevilacqua e Gianni Manera che a uno qualsiasi tra i nomi citati prima.
E poco importa per le inesattezze, siamo generosi, tecniche, per la sceneggiatura colabrodo, per gli interpreti che non sanno cosa fare, per gli effetti sonori che sembrano registrati da “L’allegro chirurgo”, per gli ambienti improbabili, per Gordon Mitchell che invoca Aborym con una gestualità da piazzista televisivo e un vistoso fuori sincrono a dimostrare che anche il doppiaggio segue il tono generale del film.
Pazienza per Aborym stesso, che sembra la sintesi tra un Gremlin e l’Orsacchiotto nasone, per i costumi (con Madame Amnesia che appare in guepière rossa e nera trasparente e reggicalze bianco perché forse alla Upim il coordinato non era in saldo), per i dialoghi che farebbero venire i sudori freddi agli sceneggiatori di Le due bocche di Marina e per il montaggio eseguito con la roncola.
E pazienza anche per le lunghe scene dove non accade nulla e messe lì per raggiungere il metraggio o, è lecito sospettarlo, per sostituire scene più ardite forse presenti in altre versioni (7).
Noi lo si ama proprio per questo e, a giudicare dai commenti provenienti da tutto il mondo, non siamo i soli.
Roberto Rippa
Note
(1) Che si tratti di un lupo mannaro è intuibile dallo scarso pelo sparso sul corpo, dalle immagini di lupi che appaiono in sovraimpressione e dagli ululati che accompagnano le sue trasformazioni. Curioso che la metamorfosi avvenga non nelle notti di luna piena, come vuole la leggenda, bensì ogni notte allo scoccare della mezzanotte, come per una Cenerentola qualsiasi.
(2) Lo afferma lui stesso nel corso di un’intervista realizzata da Gianluca Nicoletti nella trasmissione di Radio24 Melog, andata in onda il 29 maggio 2008.
(3) La cugina avrebbe, secondo la sceneggiatura, parlato sempre di Marco alle amiche come di “un bel ragazzo”. Da qui la decisione della misteriosa amica Elena di spacciarsi per la cugina andandolo a ricevere in stazione. Come ne possa parlare in questi termini rimane un mistero, visto che i due personaggi chiariscono di non vedersi sin da quando erano bambini.
(4) Trasmissione citata nella nota 2.
(5) 99 donne, a cura di Manlio Gomarasca e Davide Pulici, Media Word editore, 1999, pag. 74.
(6) An American Werewolf in London (1981) conta sugli effetti speciali di Rick Baker, per i quali il film è stato premiato con un Oscar.
(7) Il film subì un rimontaggio, da parte dello stesso Andolfi, con l’aggiunta di scene di guerra, malattia e fame in Africa, e il suo titolo venne modificato in Talisman. In questa versione, e con questo titolo, venne venduto, per 40′000 Dollari, per la distribuzione in Giappone. Al momento non è nota l’esistenza di altre versioni.
Leggi lo SPECIALE dedicato a “LA CROCE DALLE SETTE PIETRE”
composto dai seguenti articoli:
– Lingua di Celluloide. Satana e Camorra cineparole di Ugo Perri
– L’uomo lupo contro Gomorra di Roberto Rippa
– Le 6 sequenze chiave de La croce dalle sette pietre di Roberto Rippa
– Riassumendo MarcoAntonio Andolfi. Intervista a Marco Antonio Andolfi di Luca Ruocco
– Riecco Aborym. Eddy Endolf è tornato: Il tormento senza fine di un innocente dagli occhi verdi di Luca Ruocco