articolo pubblicato su Rapporto Confidenziale – numeroundici, gennaio 2009 (pag.6).
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Nella mia pelle
Disturbante viaggio al termine della notte, capace di indagare gli anfratti più reconditi della nostra identità, “Nella Mia Pelle” viene così a configurarsi come uno dei film più interessanti degli ultimi anni. Un film che mostra come l’essere umano sia sempre alla ricerca di sé, spesso attraversando una matassa aggrovigliata di cui gli sfuggono i bandoli, ma alla quale non dispera mai di riuscire a dare un senso compiuto. Purtroppo però non gli è mai dato conoscere per intero la propria verità, ma ne può cogliere soltanto singoli frammenti, disseminati nella miriade di situazioni in cui gli capita di trovarsi.
Il film è incentrato su Esther, una trentenne dalla vita normale e rettilinea, che riceve una promozione sul lavoro e ha una relazione amorosa stabile con un ragazzo che sembra volerla sposare. Ma ad un certo punto accade l’inatteso, la giovane esce nel giardino di una villa, durante una festa tra amici, e attraversando un cantiere si procura, senza accorgersene, una brutta ferita lacero-contusa ad una gamba. Rientrata nella buia festa continua a ballare sfrenatamente per tutta la sera, apparentemente non provando alcun dolore. Successivamente si accorge della ferita e il contatto col proprio corpo ferito e sanguinante fa probabilmente riaffiorare un trauma, che nel film non è mai esplicitato, ma che brucia incandescente nella sua anima. Da questo momento Esther sviluppa un’irresistibile attrazione per le proprie ferite: le riapre, se ne infligge di nuove e trova in tutto questo un motivo di sollievo, che le consente evidentemente di liberarsi di tensioni insopportabili che minacciano di disintegrare la sua identità. Nel film Marina De Van si mette in gioco totalmente, interpretando la protagonista, scrivendone la sceneggiatura e curandone la regia. Il suo film è glaciale, senza spiegazioni né giudizi morali, ben lontano dal pregiudizio che solitamente stigmatizza l’atto di ledersi il corpo, ascrivendolo (senza neppure analizzarlo) al versante della follia o del masochismo. Sono rimasto di stucco quando ho aperto i miei testi di psichiatria e non ho trovato neanche una riga sul fenomeno delle ferite autoinflitte. Nella nostra psichiatria le lesioni corporali autoinflitte continuano a essere considerate semplici anomalie, assai poco studiate nelle loro caratteristiche specifiche. Forse perché nelle società europee il rispetto dell’integrità del corpo continua ad essere un principio intoccabile e la deliberata lesione del proprio corpo mette spaventosamente a disagio (è la sensazione che ho provato anch’io a fine del film).
Nella pratica quotidiana invece capita spesso di imbattersi in ragazze che si spengono mozziconi sulle braccia o si tagliuzzano la pelle. I casi che vengono a contatto con il medico sono però casi in cui si è già scivolati nella psicosi. Sfuggono invece tutti quei casi di donne (solitamente) perfettamente inserite nella vita sociale, che vi fanno ricorso come a una forma di regolazione delle proprie tensioni, quasi fosse una particolare forma di lotta contro il male di vivere. E nessuno sospetta, nessuno sa che si comportano così, anche perché chi lo fa solitamente se ne vergogna. Il fenomeno è in costante aumento e sembra che negli Stati Uniti, dove al tema sono state dedicate numerose ricerche, vi siano circa tre milioni di persone, soprattutto donne, che ricorrono a lesioni corporali autoinflitte. Ma perché lo fanno? Bisogna riuscire a capire perché, in situazione di grande sofferenza, si ricorre al corpo come a una sorta di ultima risorsa probabilmente per non scomparire. A questo proposito gli scritti dell’antropologo e sociologo David Le Breton sono illuminanti. Secondo i suoi studi la condizione umana è corporea, ma il rapporto con l’incarnazione non è mai risolto del tutto. Ferirsi non è mai frutto di un agire irriflesso, anche se ha in sé qualcosa dell’impulso; serve a scaricare una tensione, un’angoscia che non lascia più alcuna scelta, nessun’altra risorsa e di cui l’individuo deve potersi liberare in qualche modo. L’incisione è una risposta inconscia ma potente al senso di caos che minaccia di trascinar via ogni cosa. Per continuare a esistere e lottare contro lo smarrimento, queste persone ricorrono a un mezzo che probabilmente agli occhi degli altri non è il migliore, ma per loro è il solo mezzo che funziona. Le lesioni del corpo sono una forma di sacrificio: l’individuo accetta di separarsi da una parte di sé per salvare così la totalità della propria esistenza. La posta in gioco, insomma, sembra essere il non voler morire: sono ferite che creano l’identità, tentativi di accedere al sé più profondo, disfandosi del peggio. La traccia corporale porta la sofferenza in superficie, dove quest’ultima è visibile e controllabile, sradicandola da un’interiorità che sembra simile a un baratro. Le lesioni corporali sono come delle grida, urlate nella carne, a cui l’essere umano ricorre quando manca il linguaggio.
Parlando del film della De Van, Le Breton dice ” ‘Nella Mia Pelle’ si confronta con l’inquietante estraneità di essere uniti a una carne: innumerevoli scene del film mostrano questo processo di allontanamento e al tempo stesso ritorno a sé che si realizza grazie alla ferita – ossia mediante il rovesciamento della pelle, il richiamo all’interiorità materializzata dal sangue o dal dolore. Il suo compagno non è in grado di comprendere la sua tranquilla deriva. Il mondo le sfugge, scivola via fuori da lei. Vivere non le basta più, Esther ha perso il senso del reale e cerca di sentirsi esistere, ma lo fa pagandone il prezzo. Ed ecco che la scopriamo personaggio borderline, sul filo del rasoio in una realtà che lentamente le sfugge e non le lascia altre risorse se non quel corpo cui si aggrappa disperatamente: intagliandolo, facendolo sanguinare, persino divorandolo. Quando perde i limiti del suo mondo li cerca sul proprio corpo, ledendosi la pelle e facendone colare il sangue. Esther abbandona il legame sociale, le riesce difficile instaurare una sia pur minima relazione con gli altri; rifugiatasi in una camera d’hotel dove celebra riti di sangue col proprio corpo, finisce col tagliarsi il viso, simbolico congedo del mondo che ormai esprime chiaramente la gravità del suo stato. Nelle ultime scene del film la vediamo immobile, catatonica, su un letto.”
L’incisione è per Esther, come per alcune ragazze dei nostri giorni, una cerimonia segreta, compiuta come una liturgia intima. Sono riti personali e privati che offrono risposte radicali alle domande sul valore dell’esistenza. La protagonista però, invece di trarne momentaneo sollievo, viene a dipendere dai tagli che si procura, proprio come alcuni dipendono dall’alcool o dalla droga: ad ogni evento doloroso vi fanno ritorno, alla disperata ricerca di una tregua. In una scena indimenticabile la giovane cerca di conservare un preciso rettangolo della propria pelle, informandosi da un farmacista su come poterla imbalsamare, per non perdere la piacevole sensazione tattile che le dà il contatto con la propria pelle. Psicanaliticamente gli sforzi della protagonista sono volti con ogni mezzo a cercare di scongiurare la sensazione di perdita narcisistica nel tentativo di ristabilire l’involucro narcisistico originario. Purtroppo ciò non le eviterà la discesa negli inferi dati dall’alienazione totale, non solo dal mondo che la circonda, ma addirittura dalla sua stessa corporeità. Certo è che una dimensione sociale e lavorativa che annienta la libertà personale e schiaccia l’individuo nei meccanismi di un ingranaggio (che vuole solamente efficienza, produzione e consumo) di certo non aiuta queste persone in difficoltà.
Lo scrittore Marco Belpoliti afferma che “l’automutilazione è diventata dopo il crollo delle ideologie del XX secolo la forma attraverso cui gli individui ridisegnano i confini del proprio corpo, rispetto agli altri, rispetto anche al corpo immaginario della madre, con cui continuano, nonostante tutto, a mantenere un rapporto simbiotico. Tatuaggio e piercing servono, a chi li pratica, ad assicurare che dentro il corpo, sotto la pelle, non c’è il vuoto, ma appunto qualcosa”. Speriamo di salvarci la pelle…
“La vita umana è composta da due parti eterogenee, destinate a non congiungersi mai. L’una è provvista di senso, e questo senso sono le finalità utilitarie – di conseguenza subordinate: si tratta della parte che si manifesta alla coscienza. L’altra parte però è sovrana, e a volte si costituisce favorendo il disordine della prima: è la parte oscura – o piuttosto quando è chiara diviene accecante, in questo modo si nasconde con ogni mezzo alla coscienza.” (Georges Bataille)
Nella mia pelle – Dans Ma Peau
di Marina De Van (2002 FRA 93′)
con Marina De Van, Laurent Lucas, Léa Drucker
Samuele Lanzarotti