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Opfergang
L’Eyes Wide Shut del Terzo Reich al crepuscolo
Veit Harlan | Germania – 1944 – 35mm – colore – 98′

Opfergang, Untergang: due “andature” (Gang) simboliche, malinconiche ed estreme. Il primo termine significa “grande sacrificio”, il secondo “affondamento”, “tramonto”, “scomparsa”. “Caduta. Come il teutonico filmone di Oliver Hirschbiegel che nel 2004 ha tentato di raccontare il bunker hitleriano precipitando nel ridicolo involontario, come dimostra la raffica di parodie web con Bruno Ganz che perde le staffe ridoppiato alla bisogna.

Veit Harlan girò Opfergang quando il regime che lo aveva elevato a Spielleiter (“regista” in senso teatrale, conduttore d’attori) prediletto dal Ministero della Propaganda si appropinquava all’Untergang. Le riprese si svolsero tra il 1942 e il 1943, ma Goebbels non apprezzò il lavoro del co-autore di Jud Süß, tacciandolo di disfattismo e di ripiegamento sulla sfera privata. E così Opfergang ebbe la sua prima in Svezia, patria della protagonista Kristina Söderbaum – terza moglie di Harlan – e fece capolino in Germania quando ormai piovevano bombe e il regista si era imbarcato nel suo ultimo lavoro per conto di Joseph, il colossale “Durchhaltefilm” Kolberg (1945), sul fallito assedio napoleonico del 1807. Con durchhalten che significa “tenere duro”. L’andamento della Seconda guerra mondiale smentì questo azzardato paragone in sala prussiana, ma Veit Harlan, lui sì, tenne duro e continuò a girare film anche nella RFT, pressoché indisturbato – giusto un paio di processi per crimini contro l’umanità da cui uscì prosciolto – fino alla morte in quel di Capri nel 1964, tra le braccia di Kristina. La sua storia personale di patriarca è ben raccontata nel documentario Harlan (2009) di Felix Moeller.

Ancora due parole sul regista prima di passare a Opfergang. Veit Harlan nacque a Berlino nel 1899, figlio dello scrittore Walter. Dopo aver studiato recitazione, esordì al cinema negli anni Venti davanti alla macchina da presa, e passò a occuparsi della regia a cominciare dal 1935. Autore prolifico e in perfetta sintonia con i dettami estetici e culturali dell’epoca, Harlan divenne un asso del melodramma. E quando la stella della Riefenstahl, la documentarista promossa da Hitler e odiata da Goebbels, cominciò a offuscarsi, l’obiettivo di Harlan divenne più che mai un’arma a doppio taglio: senza il bisogno di inquadrare il Führer e i suoi gerarchi, si prestò a mettere in scena vicende “metaforiche” o subdolamente innervate di materiale propagandistico. Se già in Maria, die Magd (1936) emerge con prepotenza l’idea nazista di famiglia e di educazione dei figli, con Der Herrscher (1937) Harlan cuce addosso a Emil Jannings un ritratto esemplare di industriale che rinuncia a un amore “proibito” (causa differenza d’età) per non lasciare la fabbrica in balìa dei figli smidollati… e fa testamento lasciando ogni cosa alla Volksgemeinschaft, cioè a dire la collettività nel senso hitleriano del termine, corpo sociale compatto e non pensante. Dopo il famigerato Jud Süß del 1940, a suo modo un capolavoro di perfidia e di subliminalità, Harlan girò Der große König (1942), ennesimo film su Federico il Grande – inutile dire metafora di CHI – e il melodrammone Die goldene Stadt (1942), in cui Kristina Söderbaum si suicida per annegamento in preda ai sensi di colpa: ha infatti lasciato la fattoria di famiglia per buttarsi tra le braccia di un infido damerino! Le numerose morti della Söderbaum a firma Harlan sono il miglior compendio dell’immaginario tedesco in tempi di guerra totale. Da quando entrò nella vita e sui set di Veit nel 1939, la biondissima valchiria Kristina [www.youtu.be/4hbFuxRCrzw], guanciotte pienotte e vispo occhio azzurro, divenne l’arma segreta del marito, capace di far dimenticare al pubblico tedesco l’altra stella scandinava “prestata” al Reich, Zarah Leander. Il suo cadavere fradicio, i capelli lunghi e lisci e il volto ridotto a una maschera di fissità arianoide, era l’immagine perfetta per concludere un film e regalare Sehnsucht wagneriana come se piovesse. Lo è stata, notare bene, fino al 1951, l’anno di Hannah Amon.

Liberamente tratto dall’omonima novella di Rudolf G. Binding, Opfergang narra del giramondo Albrecht (Carl Raddatz) che torna ad Amburgo in seno alla famiglia, e accetta – senza entusiasmo – di sposare la cugina Octavia (Irene von Meyendorff), tanto bella quanto frigida. Nel frattempo si prende una discreta scuffia per la ricca vicina di casa, Aels Flodéen (Kristina Söderbaum), con la quale condivide lunghe cavalcate. L’uomo prende l’abitudine di salutare l’amica dal cancello della magione, in groppa al proprio destriero. Aels ha un segreto, anzi due. Soffre di una malattia incurabile e ha una figlia piccola che vive in un quartiere popolare. Quando nella città anseatica scoppia un’epidemia di tifo, Albrecht corre a salvare la bimba e si ammala. Aels ha ormai le ore contate, e a omaggiarla per l’ultima volta da lontano sarà Octavia a cavallo travestita da Albrecht: in tal modo, la donna dimostra di aver compreso l’importanza del flirt platonico tra i due. È questo il “grande sacrificio” del titolo. Aels muore in un delirio di dissolvenze incrociate e colori dorati, tra cancelli, cavalli e distese marine… e l’ultima immagine vede Albrecht, guarito, cavalcare via lungo la battigia insieme alla moglie.

Girato in uno sgargiante Agfacolor curato da Bruno Mondi, Opfergang fu uno dei primi film a colori tedeschi. Seppur meno pioneristico de Die Goldene Stadt, sempre di Harlan, Opfergang è un’esperienza audiovisiva difficile da dimenticare. Per la tavolozza accecante, per la recitazione sopra le righe, per la trama da feuilleton al cubo e per il contrappunto musicale di Hans-Otto Borgmann, onnipresente e, come suolsi dire, senza vergogna. Tant’è che, anche prima di arrivare ai cori angelici che accompagnano la morte di Aels, la pellicola riuscirebbe a intrattenere anche a schermo spento. In Opfergang, nella sua follia cromatica e camp ante litteram, si concentrano tutte le ossessioni dell’Harlan cineasta, a cominciare dall’elemento-acqua, commovente e mortuario (Marco Ferreri sarebbe stato d’accordo…) fino all’insistenza nell’inserire nel quadro cancellate sontuose, alani pezzati, cavalli di razza e dettagli inquietanti come la maschera dorata che Octavia indossa a un certo punto, senza preavviso: l’inutilità esagerata e compiaciuta del kitsch. Non a caso, quando nel 1988 un giovane Christoph Schlingensief ebbe l’idea strampalata di girare un remake di Opfergang con quattro soldi, cambiò il ruolo di Octavia da moglie a mamma e chiamò il film Mutters Maske (‘la maschera della madre’), con quella mascherina deficiente a fare da trait d’union con l’originale. Al giorno d’oggi, Opfergang resta l’opera più libera e intensa di Veit Harlan, un melodramma allo stato puro che precorre l’attrazione fassbinderiana per i destini tragici e l’isteria germanocetrica di Schlingensief.

Al contrario di molte opere di Harlan, Opfergang non è classificato come Vorbehaltsfilm, cioè a dire pellicola dai contenuti opinabili che necessita di una introduzione contestualizzante se proiettata in pubblico. Goebbels lo boicottò così come aveva fatto con La collana di perle (1943) di Helmut Käutner, e pretese da Harlan un’immediata riscossa propagandistica arruolandolo per Kolberg. Uno dei motivi che possono aver spinto il ministro a storcere il naso, oltre all’assenza di strizzate d’occhio al regime, è il guazzabuglio pulsionale che il film inscena e scatena. In superficie, ogni cosa è al suo posto: agli agi ombrosi della borghesia – rappresentati, nel film, da un ditirambo di Dioniso recitato la domenica pomeriggio a finestre chiuse – il protagonista Albrecht preferisce l’aria aperta, il sole e il verde, e la sua “tentatrice” Aels paga con la morte. Eppure, le note stonate non mancano. Spesso sottili come spilli lasciati nella trapunta del film con la stessa malizia dei dettagli più insinuanti di Jud Süß. Abbiamo una mogliettina perfetta ma sessualmente azzerata, che alla fine del film si traveste da uomo – il suo uomo – per appagarne l’amante da lontano. E abbiamo, soprattutto, la straordinaria sequenza del carnevale, ambientata a Düsseldorf. Albrecht e Octavia partecipano a una festa privata in costume dove la confusione dei generi è totale e l’ordine tanto caro al regime va a farse benedire in un tripudio di musica, coriandoli, trenini e scivoli orgiastici. Ci sono pure due gemelle travestite da ometti che importunano Albrecht sotto gli occhi dell’atterrita Octavia. Visto oggi, il segmento del carnevale, col suo portato di ambiguità e la sua carica sessuale, riporta alla memoria le segrete stanze in cui si muove il dottor Harford in Eyes Wide Shut. E un nesso c’è.

Christiane Kubrick e Jan Harlan, rispettivamente moglie e produttore (da Arancia meccanica in poi) di Stanley, sono i figli di Fritz Moritz Harlan e i nipoti di Veit. Dopo il matrimonio con Christiane nel 1958, il regista americano entrò a far parte della grande famiglia Harlan [www.de.wikipedia.org/wiki/Harlan_(Familie)], s’interessò al lavoro di Veit e al clima produttivo dell’UFA dominata dalla presenza di Goebbels. In termini filmici, non se ne fece nulla. O quasi.

– Simone Buttazzi

 

 

OPFERGANG
regia: VEIT HARLAN; sceneggiatura: VEIT HARLAN, HANS RADTKE da un romanzo di RUDOLF G. BINDING; fotografia: BRUNO MONDI; montaggio: FRIEDRICH KARL VON PUTTKAMER; architetto-scenografo: KARL MACHUS, ERICH ZANDER; musiche: HANS-OTTO BORGMANN; suono: HEINZ MARTIN; effetti speciali: GERHARD HUTTULA; luci: FRITZ KÜHNE; produttore: VEIT HARLAN; interpreti: CARL RADDATZ (Albrecht), IRENE VON MEYENDORFF (Octavia), KRISTINA SÖDERBAUM (Aels), FRANZ SCHAFHEITLEIN (Mathias), ERNST STAHL-NACHBAUR (Sanitätsrat Terboven), OTTO TREßLER (Senator Froben), LUDWIG SCHMITZ (Büttenredner), PAUL BILDT (Notar), ANNEMARIE STEINSIECK (Frau Froben), EDGAR PAULY (Diener); casa di produzione: UNIVERSUM FILM (UFA); paese: GERMANIA; anno: 1944; durata: 98’

 

Veit Harlan sul set

 

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Simone Buttazzi è il kaiser di Rapporto Confidenziale, sommo conoscitore di ogni anfratto dimenticato e poco illuminato della cinematografia tedesca. Su RC ha pubblicato:
Herbert Achternbusch
Roland Klick
Apocalypse Deutschland – Il cinema di Christoph Schliengensie
Der sieg des glaubens. Il documentario maledetto di Leni Riefenstahl

Nel 2011 pubblicherà una Storia completa del cinema tedesco con Area51 Publishing.

 

Il presente articolo è stato pubblicato in Rapporto Confidenziale numero33 (giugno 2011), p. 52-53



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