Le macerie della Storia: il cinema di Jean-Gabriel Périot

Il presente articolo è stato pubblicato su Rapporto Confidenziale, numero34 (estate 2011), p.6-7

Le macerie della Storia: il cinema di Jean-Gabriel Périot
di Giampiero Raganelli

Interrogarsi sul senso della Storia, dare un senso alla Storia e consultarla per interpretare la contemporaneità, negli episodi di quella violenza che sembra connaturata all’umanità, utilizzando immagini di archivi e repertori, ragionando al contempo sulla loro ambiguità. Questo è il fulcro del lavoro del cineasta sperimentale francese Jean-Gabriel Périot, autore di cortometraggi, mediometraggi e videoinstallazioni. Un lavoro ufficiale di montatore di documentari d’archivio per la televisione e di cortometraggi di finzione, cui approda dopo la laurea, conseguita a Parigi nel 1995, in studi video e multimediali, e dopo una sfilza lunghissima di lavoretti alimentari, anche molto pittoreschi (manovale su imbarcazioni da diporto, animatore nei supermercati, venditore telefonico per una ditta di tappeti, assistente alla vendita all’asta di finti elementi architettonici antichi).

L’inizio della sua produzione artistica è incentrato sulla propria intimità, sul mettersi a nudo nei confronti del pubblico. Gay? (2000), uno dei suoi primi corti, è “semplicemente” il suo coming out, girato in primissimo piano con lo sguardo schiacciato sugli spettatori. Un atto in sé, la pura enunciazione di quello che si è, e suona come una autopresentazione quando, nelle personali su di lui, viene necessariamente collocato all’inizio. Sul tema dell’omosessualità anche Avant j’étais triste (Before I was sad, 2002) che utilizza una tecnica d’animazione a collage. Si tratta di un monito contro il rischio dell’omologazione, raccontando dell’unione civile con il compagno, la macchina, la casetta con giardino, i bambini adottati. «Per essere dei gay felici fate come me», conclude Périot, «diventate eterosessuali. L’eterosessualità è il futuro di tutti i gay». Singolarmente Périot conferisce il suo volto, a età diverse e in pose varie, a tutti i personaggi maschili: se stesso, il compagno, i colleghi e i bambini. Ancora sul versante “privato” Journal intime (Intimated Diary, 2001): un corpo umano, quello dello stesso regista, mostrato nel momento in cui si prepara davanti allo specchio, disinfetta una cicatrice, si toglie lenti a contatto e protesi dentaria: la fragilità e la decostruzione.

Con il corto 21.04.02 (2002) inaugura quello stile di found-footage che contraddistinguerà buona parte della sua carriera a venire. Un turbinio di immagini che passano velocissime, che sembrano delineare una storia dell’umanità: illustrazioni d’arte, dipinti e affreschi, ripercorrendo la storia dell’arte, e poi ritratti, cartoline turistiche cui seguono foto atroci di bombardamenti, crocifissi accostati a scene pornografiche, fino ad arrivare a foto di Le Pen. Il flusso caleidoscopico di visioni porta a Jean-Marie Le Pen, tutto porta a Le Pen! Il film è stato concepito il 21 aprile del 2002 quando, inaspettatamente, il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali francesi vede al ballottaggio il politico neofascista. Una struttura analoga torna in Dies Irae (2005), che a sua volta è lo sviluppo di una sua videoinstallazione, Harness & Wheel (2005). Un road movie in senso letterale, fatto del susseguirsi vorticoso di strade di tutto il mondo, urbane, autostrade, highway, sentieri, viali, vicoli, lastricati e ciottolati, corridoi, metropolitane, stazioni, binari. Ancora un flusso di immagini che confluisce nei binari che arrivano ad Auschwitz, con la sua nefasta scritta svettante “Arbeit macht frei”. Lo scorrere della Storia arriva alla tappa obbligata del fascismo, del nazismo, dell’oblio.
Sull’omologazione, stavolta nel campo del lavoro, è We are winning don’t forget (2003) che comincia con una sfilata di lavoratori felici, operai, impiegati, messi in posa. Sono immagini false, ipocrite che trovano curiosamente rispondenza in quei personaggi del video di propaganda berlusconiana Meno male che Silvio c’è con quegli elmetti ridicolmente tirati a lucido dei muratori. Seguono poi scene di manifestazioni sindacali, scioperi e brutali repressioni. Il tema della ribellione, dei nidi di violenza nel presente, senza più bisogno di interrogare la Storia, sembra essere quello su cui si concentra Périot nei suoi ultimi lavori. L’art delicat de la matraque (The delicate art of the bludgeon, 2009) con immagini di scontri violenti tra poliziotti con manganello e manifestanti, con il commento musicale disturbante di This Is Not a Love Song dei Sex Pistols, che si conclude con un principio della Costituzione francese come epigrafe: «Per garantire i diritti dell’uomo e del cittadino, la forza pubblica è necessaria; questa è quindi istituita a beneficio di tutti, non all’uso particolare di quelli cui viene affidata». Anche Les Barbares (The Barbarians, 2010) dopo una serie di foto ricordo dei potenti in posa sorridente ai grandi vertici internazionali, fa seguire quelle delle tristemente note scene di lotta urbana che ci sono state nell’ultimo decennio, come a Genova e ad Atene. Il titolo è una citazione da Alain Brossat «Noi siamo plebe! Noi siamo barbari!».
Nella videoinstallazione Lovers (2004) manipola, come fece Bargellini in Trasferimento di modulazione, un film porno rallentandolo, virandolo, decostruendolo e privandolo di qualsiasi tensione erotica, evidenziando i corpi nei loro aspetti fisiologici. La videoinstallazione Désigner les ruines (2004) consiste in immagini di persone comuni di tutto il mondo, a ognuna delle quali è appiccicata una frase in sottotitolo. Sono citazioni da autori studiati da Périot (Kafka, Susan Sontag, Karl Marx, Sofsky, Mishima, Primo Levi, Pétain) che contrastano con i volti sorridenti degli uomini di strada anche nell’illusione che siano pronunciate da questi. Nel corto Undo (2005) utilizza filmati al contrario: implosioni di bombe atomiche, vulcani che inghiottono la lava, valanghe che si ritraggono, animali macellati che tornano in vita come in Benny’s Video di Haneke. Périot cattura gli attimi prima di una tragedia, tutto si riazzera per poi ricominciare da capo.

I capolavori di Périot sono Eût-elle été criminelle… (Even if she had been a criminal…, 2006) e Nijuman no borei (200000 phantôms, 2007). Il primo propone filmati di repertorio della Liberazione in Francia con sottofondo della Marsigliese. Con una sorta di flashback si vedono le immagini dell’occupazione e della guerra per poi tornare all’estate del 1944. Périot indugia sulle presunte “putains des boches”, accusate di “collaboration horizontale” con il nemico, rasate in pubblico, umiliate e sadicamente esposte alla gogna. Immagini agghiaccianti su cui il regista si sofferma con il ralenti, rallentando anche il sonoro in modo da storpiare la Marsigliese, e fissando i volti sorridenti del pubblico e degli aguzzini, che, lungi da qualsiasi discorso revisionista, appaiono essi stessi come dei fascisti.
Come Andy Warhol in Jackie evoca un episodio storico, l’omicidio di Kennedy, non mostrandolo ma attraverso le immagini, prima e dopo, della moglie, cosi Périot racconta l’esplosione atomica di Hiroshima, in Nijuman no borei (200000 phantôms). Ancora una sequenza di innumerevoli immagini del palazzo simbolo di quella tragedia, il Gembaku Dome. Dal 1914, la sua edificazione come camera di commercio e industria, le immagini da cartolina, in bianco e nero o dai colori pastello, d’epoca, fino al 2006: i comizi, le manifestazioni pacifiste, il palazzo impacchettato per essere restaurato come rudere, i ciliegi in fiore, simbolo del Giappone ma anche, secondo la filosofia zen, dell’impermanenza della vita, e le lanterne galleggianti sul fiume della tradizione dell’O-bon, la festa giapponese dei morti. Il montaggio sonoro segue le note struggenti della canzone Larkspur and Lazarus dei Current 93, che si conclude con la strofa «End of Story»: un concetto attorno cui ruota tutto il cinema di Périot.

– Giampiero Raganelli

 

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Jean-Gabriel Périot / sito

 

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VIDEOGRAFIA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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