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Love Me Tender (Fratelli rivali)
regia di Robert D. Webb (USA/1956)
recensione a cura di Alessio Galbiati

Anno 1865, la guerra di Secessione volge al termine e, proprio nei giorni della firma dell’armistizio fra gli Stati Uniti e gli Stati confederati, il 9 aprile, i tre fratelli Reno, all’oscuro dell’epilogo della guerra civile, attaccano insieme ai propri commilitoni un convoglio ferroviario nordista, rubando una notevole somma di denaro. Spartito il bottino fanno ritorno a casa. Ad accoglierli troveranno la vecchia madre, il fratello minore Clint (Elvis Presley) e la bella Cathy (Debra Paget), che da poco sono convolati a nozze. Enorme è la sorpresa nel vederli tornare perché da tempo erano considerati morti, caduti in una delle sanguinose battaglie che causarono oltre 600 mila vittime in soli 4 anni di conflitto. Sorpresa ed imbarazzo perché Cathy, all’epoca della partenza dei fratelli Reno, era fidanzata e promessa sposa del maggiore dei tre, il duro Vance (Richard Egan). Sconvolta dagli accadimenti la giovane sposa non mancherà di dimostrare il suo amore verso Vance, che però ha preso a guardarla con una malcelata diffidenza, mentre Clint, con un etereo viso da bambino, prenderà ad osservare il turbamento di Cathy, e la rabbia del fratello maggiore, con un mono-tono aggrottamento delle sopracciglia, su di un viso che è la maschera perfetta della parola “basito”. La madre piange, a dirotto e senza sosta, bruciata dall’imbarazzo di una situazione sconveniente agli occhi della piccola comunità. Vance deciderà di levare il disturbo, di lasciare il suo piccolo villaggio, la vecchia madre, il fratello stronzetto, e l’amata fedifraga, così da non arrecare scandalo, per trasferirsi con i due fratelli, ed il bottino, nel profondo ovest, nella nuova America della west coast affacciato sull’oceano Pacifico, in California. Ma proprio quando staranno per mettersi in viaggio la Legge giungerà a chieder conto della somma indebitamente sottratta. Da quel momento in poi una serie di colpi di scena getterà nei guai l’intera famiglia e farà scoppiare fra i due fratelli la gelosia per la donna che entrambi amano, mutando i due spasimanti nei fratelli rivali del titolo italiano.

Un «musical-western di serie Z», così Paolo Mereghetti nel suo dizionario liquida ogni possibile velleità artistica della pellicola diretta da Robert D. Webb, praticamente un musicarello, che rappresenta l’esordio cinematografico di Elvis Presley e che da subito denota le sue pessime qualità d’attore: volto inespressivo, distanza siderale dal personaggio, sostanzialmente un cartonato poggiato davanti alla macchina da presa. Il film, del 1956, rappresenta dal punto di vista produttivo un tentativo, artisticamente maldestro ma efficace sul fronte economico, pur se non un successo eclatante (4,5 milioni di dollari negli States, 9 nel resto del mondo – a fronte dell’investimento di 1 milione per la produzione), di frenare l’emorragia di spettatori ed incassi a discapito della poderosa ascesa della televisione. In ogni epoca di crisi della propria economia il cinema cerca di fagocitare al proprio interno tutto quello che il pubblico già ama, oppure, come con la recente ondata tridimensionale (anche questa già vista in altre epoche), di imporre nuovi standard tecnologici all’industria cinematografica.

Il gusto spettatoriale ed intellettuale (ma forse qui si sta esagerando!) è tutto metacinematografico, perché è all’interno di un brutto film girato fra gli studi di Malibu Creek State Park e lo stage 3 dei 20th Century Fox Studios a Los Angeles, che muove i suoi primi passi cinematografici una leggenda della cultura popolare del ‘900, una delle stelle più brillanti dello showbiz di tutti i tempi. Un’icona vivente, colta da Andy Warhol con l’opera Eight Elvises, già 1963, nella sua dimensione seriale riprodotta potenzialmente all’infinito. Il rapporto di Elvis con il cinema non è stato dei migliori, la maggior parte dei suoi film furono puri e semplici pretesti di promozione della sua attività musicale, e pure, come detto, di sfruttamento commerciale della sua POPolarità. Prese parte a ben trentuno film, concentrando la sua attività di attore soprattutto nel periodo che va dal ’56–’69, senza però mai riuscire a convincere o anche solo ad esprime null’altro che la sua immagine. Elvis al cinema è sempre e solo Elvis, ed è per questo che nelle opere successive gli studios evitarono di calarlo in altri ruoli che quello del cantante. La formula hollywoodiana di sfruttamento del fenomeno non contemplava ruoli complessi, l’utilizzo della super-star era seriale e banale: belle ragazze, luoghi esotici, scazzottate e canzoni. Love Me Tender è dunque interessante perché risulta, nella carriera di Elvis Presley, come una rara possibilità concessagli di mettere in scena un personaggio sulla carta più complesso di quelli che troverà negli anni a venire. Possibilità però totalmente disattesa.

Nel film Elvis si esibisce in quattro veri e propri videoclip musicali piantati, con un playback dei musicisti assolutamente esilarante, in malo modo, nel corpo filmico. Poor Boy, We’re Gonna Move, Let Me e, ovviamente, Love Me Tender. Da antologia del ridicolo cinematografico è la sequenza in cui canta su di uno sgangherato palco Poor Boy: accompagnato da una scarna orchestrina ed abbracciato ad una chitarra di legno, ancheggiando e dimenandosi nel suo leggendario stile, manda in deliro le donzelle del 1865 che assistono alla performance gridano e fremendo come le loro coetanee del secolo successivo.

 

Alessio Galbiati

 


Love Me Tender (Fratelli rivali)

Regia: Robert D. Webb
Soggetto: Maurice Geraghty
Sceneggiatura: Robert Buckner
Fotografia: Leo Tover
Montaggio: Hugh S. Fowler
Musiche: Lionel Newman
Interpreti: Richard Egan (Vance Reno), Debra Paget (Cathy), Elvis Presley (Clint Reno), Robert Middleton (Mr. Siringo), William Campbell (Brett Reno), Neville Brand (Mike Gavin), Mildred Dunnock (Martha Reno), Bruce Bennett (Maj. Kincaid), James Drury (Ray Reno), Russ Conway (Ed Galt), Ken Clark (Mr. Kelso), Barry Coe (Mr. Davis)
Casa di produzione: Twentieth Century Fox Film Corporation
Paese: USA
Anno: 1956
Durata: 89′

 



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