Küf (Muffa) > Ali Aydın

Si è ormai da tempo configurata una nuova onda nel cinema turco, un’onda fatta di film dal dialogo ridotto al vero essenziale, di immersione nel territorio e di storie che hanno le radici nella situazione politica narrate attraverso il personale. Un formato che, all’interno di un tratto formale comune, ha permesso a numerosi autori di trovare un percorso molto personale attraverso film fortemente autoriali e originali tanto da non essere mai assimilabili ad altri.

Ne è fautrice una nuova generazione di autori, tra cui Hüseyin Karabey e Özcan Alper, cui va ad aggiungersi un nuovo nome come quello di Ali Aydın, regista quasi per caso (il suo interesse, in origine, era rivolto all’arte contemporanea). che con il suo film d’esordio Küf (Muffa) – sei anni il tempo per scriverlo, per insicurezza dichiarava lui alla presentazione del film alla Settimana della Critica di Venezia 2012 – in cui segue la quotidianità di Basri, un uomo solo di mezza età impiegato nelle ferrovie, per cui svolge la mansione di verificare lo stato dei binari, che non si rassegna alla misteriosa scomparsa di suo figlio, avvenuta 18 anni prima, quando era studente universitario a Istanbul e militante politico. Basri lancia petizioni, molto male accolte dalle autorità, scrive lettere alla polizia, ascolta quotidianamente i notiziari attraverso una radiolina di fabbricazione russa regalatagli dal figlio prima di sparire attraverso i quali spera che un giorno il mistero sulla scomparsa venga finalmente squarciato. Lo vediamo camminare per chilometri mentre esamina una non troppo frequentata linea ferroviaria di una regione dell’Anatolia, lo vediamo interrogato dalla polizia, che preme perché ponga fine alla sua incessante ricerca, lo vediamo nei suoi scontri con il collega Cemil.


È grande il lavoro sul linguaggio del corpo che Aydın richiede al suo protagonista, poche le parole che gli mette in bocca. Poche ma significative, tanto che nel primo incontro con il poliziotto che lo convoca in centrale già veniamo a sapere tutto della sua vita. Sin dalla nascita quando, ultimo di tre fratelli (uno morto nel ventre della madre, due a poche ore dalla nascita) ha già pronta la sua tomba, scavata da un padre rassegnato all’idea di non vedere un so figlio crescere. Da lì in poi, ogni parola sarà indispensabile e non ce ne sarà mai una di troppo. Aydın scrive il ruolo di Basri con mirabile precisione e lo affida a un attore esperto e capace come Ercan Kesal (cosceneggiatore di Bir zamanlar Anadolu’daC’era una volta in Anatolia e di Üç maymunLe tre scimmie di Nuri Bilge Ceylan, nei quali appariva anche come interprete) contrapponendogli figure ottimamente delineate e interpretate con il gusto della moderazione in una storia in cui non c’è mai nemmeno un sopracciglio alzato di troppo. Basri è un uomo di poche parole e di rara perseveranza, al contrario del collega Cemil (Tansu Biçer), inutilmente chiacchierone e pure violento, e del poliziotto (Muhammet Uzuner, anche lui in C’era una volta in Anatolia), che sembra desideroso di sbarazzarsi dell’uomo come di una memoria ingombrante per tutto il Paese. C’è un forte attaccamento alla letteratura nel film di Ali Aydın, non solo il citato Kemal Yetkin (Istanbul, 1903-1980) ma anche Dostoevskij, presente soprattutto nel tema del senso di colpa, che troverà spazio in una vicenda parallela al racconto principale, tratto che lo accomuna a un grande autore del cinema turco appartenente alla generazione precedente come Zeki Demirkubuz. Ma c’è soprattutto molto cinema: nei dialoghi, nella capacità di trasformare i luoghi da scenografia in protagonisti, nella direzione degli attori. E se la storia potesse sembrare semplice – ma potrebbe apparire tale solo a una lettura superficiale – le emozioni che suscita scavano nel profondo di ognuno. La fotografia di Murat Tuncel inquadra Basri in un paesaggio bellissimo ma incombente con il risultato di fare apparire l’uomo ancora più piccolo e vulnerabile e le lunghe riprese catalizzano il senso di un’attesa forse senza fine che suscita tutta la nostra empatia in un bellissimo film che ha il potere di rimanere impresso attraverso la discrezione che solo il vero dolore sa portare con se.

Ali Aydın è un autore (nel senso più ampio del termine) personale e originale e fa piacere saperlo impegnato con la scrittura del suo secondo lungometraggio.

Roberto Rippa

 

speciale NUOVO CINEMA TURCO

 

Küf
(titolo italiano: Muffa / Titolo internazionale: Mold. Turchia-Germania, 2012)
Regia, sceneggiatura: Ali Aydın
Fotografia: Murat Tuncel
Montaggio: Ayhan Ergursel, Ahmet Boyacioglu
Produttori: Cengiz Keten, Sevil Demirci, Gökçe Işil Tuna, Ali Aydın
Produzione: Motiva Film, Yeni Sinemacilar (in coproduzione con Beleza Film)
Interpreti: Ercan Kesal (Basri), Muhammet Uzuner (poliziotto), Tansu Biçer (Cemil)
94′

 

Ali Aydın, regista e sceneggiature turco, è nato nel 1981 a Istanbul, dove si è laureato in Art Management alla Yildiz Technical University. Ha lavorato come assistente alla regia per diversi film e serie televisive. Küf è il suo film d’esordio.

Nel 1995, un gruppo di donne ha iniziato una protesta permanente riunendosi ogni sabato davanti al liceo di Galatasaray con le fotografie dei propri figli scomparsi in seguito al loro arresto. Dopo un po’, la stampa ha battezzato questo gruppo “Le madri del sabato”. Non dimenticherò mai la loro lotta silenziosa e le fotografie che tenevano in mano. Quando nel 2003 ho iniziato a scrivere la sceneggiatura di Küf, le prime domande che mi sono posto sono state: Su cosa mi devo concentrare per raccontare questa storia? Quale deve essere il punto di vista? Devo seguire le vicende di coloro che aspettano? O di coloro che sono spariti dopo l’arresto? Ho deciso di raccontare la storia di chi rimane, una famiglia devastata dalla perdita. E mi sono convinto che la cosa più importante su cui porre la mia attenzione era la coscienza. Perché l’elemento che mi ha portato a scrivere questa storia è stato la mia coscienza. Scrivendo, volevo mettermi in pace con lei e fare in modo che la tragedia delle persone scomparse pesasse sulla coscienza di tutti. Durante la fase di scrittura, che è durata 7 anni, sono stato colpito da due cose: la prima riguarda senz’altro le storie delle famiglie devastate degli scomparsi, la seconda è legata invece alla lettura di Dostoevskij, che descrive con acume in quasi tutte le sue opere la solitudine, le nevrosi, i sensi di colpa, i dubbi, le malinconie che assalgono la coscienza umana. La cupezza delle sue atmosfere ha nutrito così l’essenza del mio personaggio che perde a poco a poco la speranza”.

Ali Aydın



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