Rectify

 
Non passa stagione senza che un nuovo prodotto televisivo s’imponga all’attenzione del pubblico per le sue caratteristiche innovative. Il nuovo anno è stato inaugurato dalla prima produzione originale targata Netflix, colosso dell’home video che una volta capite le possibilità che offre il settore si è improvvisato produttore e distributore di serie TV (nominate di recente agli Emmy). Il risultato, firmato David Fincher (Fight Club, Se7en, The Social Network, ecc…), non ha nulla da invidiare ai raffinati prodotti dei più blasonati HBO e AMC, anzi. House of Cards, remake di una serie BBC dei primi anni novanta, entra nei corridori del potere per mostrarne la crudele autoreferenzialità, cicerone d’eccezione Kevin Spacey, eminenza grigia della Casa Bianca che, lontano dai riflettori, fa muovere i burattini nel teatrino della politica con spietata precisione. Il debutto sul piccolo schermo di David Fincher confermava come le serie TV (termine quanto mai spurio ed espanso) da dieci anni a questa parte, per dirla con Carlo Freccero, “siano in grado di mettere in scena le inquietudini e le crisi dell’immaginario contemporaneo” e della società americana aggiungiamo noi. Proprio come il cinema ha sempre fatto, coniugando profitti e pensiero critico.

 

 
Non è allora un caso forse che la serie di cui andiamo a parlare sia legata a uno dei brand cinematografici di maggiore successo, il Sundance, storico festival indipendente fondato da Robert Redford, ora impero dell’intrattenimento “indie.” La qualità dei prodotti che il festival ha negli anni proposto è stata inversamente proporzionale alla sua fama, tanto che è ormai da un bel po’ di tempo che nulla degno di nota esce dal festival di Salt Lake City. Dagli ormai storici debutti dei fratelli Cohen e Jim Jarmush a metá anni 80, al lancio del prolifico Steven Sodebergh fino alla hit cult di Clerks, il festival del Signor Redford è poi passato a capienti tappeti rossi di star Hollywoodiane che poco avevano a che fare con lo spirito indipendentista delle origini. Da qualche anno infatti lo scettro del festival “indie” più cool se l’è aggiudicato lo SXSW di Austin, vera mecca del nerd cinefilo ma non solo. E se il cinema made in Sundance arranca, ci ha pensato la serialità televisiva a risollevarne le sorti grazie alla quale il fu festival indipendente si è fatto il lifting, intercettando le vene più creative e sperimentali che attraversano il corpo mai morto del cinema americano. È stato proprio il Sundance Channel ad aver prodotto e distribuito una nuova serie televisiva da poco terminata e trasmessa anche su Amazon (un altro colosso mediatico, nonché abilissimo evasore fiscale, ad aver investito in serie televisive di recente). Si tratta di Rectify che gli audaci produttori di Breaking Bad hanno affidato alla penna del giovane Ray McKinnon, caratterista del piccolo schermo (Deadwood, Sons of Anarchy) con qualche film alle spalle.

 

 
Daniel Holden (un immenso Aden Young) viene rilasciato dopo 19 anni spesi nel braccio della morte per aver violentato e ucciso la sua ragazza di allora poiché una nuova perizia lo scagionerebbe. Daniel è quindi libero ma non ancora del tutto dato che sarà un secondo processo a stabilirne o meno la sua innocenza. Siamo a Griffin, Georgia USA dove Charles Darwin e Karl Marx sono considerati alla stregua di un pedofilo. Ciò non giova naturalmente all’ex galeotto che una volta fuori dal braccio della morte si ritrova in un ambiente a dir poco ostile. Considerato il livello d’istruzione e di fede riposta nella ricerca scientifica da quelle parti non c’è da meravigliarsi che lo sceriffo e i suoi viscidi scagnozzi se ne infischino bellamente dell’esame del DNA che ha scagionato Daniel Holden.

 

 
Seppur circondato dall’apprensione disorientata della sua famiglia e la sparuta solidarietà di qualche vecchio conoscente, la libertà per Daniel risulta alquanto opprimente. Il fratellastro è preoccupato che la sua presenza al negozio di famiglia ne decreterà il fallimento, i simpatici abitanti della cittadina dove Daniel é cresciuto gli danno il bentornato con sguardi omicidi e minacciosi pedinamenti, deformati da un odio che credono morale. Il protagonista però sembra talmente scioccato dall’esperienza – “gli eventi di questi ultimi vent’anni mi avevano portato a credere che un giorno come questo non sarebbe mai venuto” dichiara Daniel ai giornalisti appena rilasciato – che non si cura nemmeno del pericolo che lo circonda. E siccome a traumi di questo genere è impossibile render giustizia a parole, il telefilm si affida alle immagini, perfino ai silenzi (una novità assoluta per la televisione). L’inimmaginabile shock di un uomo che dopo vent’anni chiuso in buco senza finestre sbanda di fronte al dimenticato incanto di un’alba o all’insostenibile eccesso di libertà che un prato gli offre sono assecondati da una bellissima fotografia che non scade mai nel melenso. La telecamera segue senza assillare il protagonista e ne coglie gli scompensi, le titubanze e quell’incolmabile voragine d’angoscia che vent’anni in cella d’isolamento gli hanno conficcato in petto.

 

La breve durata (solo 6 episodi) lo accomuna a prodotti ibridi che la televisione ha prodotto di recente quali Burning Bush di Agnieszka Holland (HBO Repubblica Ceca), dove la struttura episodica si dilata in un arco narrativo dal più largo respiro seppur distintamente “televisivo”. Lo scarto che però questa mini-serie compie, e che la nobilita ulteriormente, è quello di non tracciare rigidi steccati tra il bene e il male, la colpevolezza e l’innocenza. Lo spettatore in effetti non sa con certezza se Daniel sia colpevole o meno dello stupro e omicidio della sua ragazza. La questione etica riguardo la pena di morte è posta in maniera trasversale stuzzicando così il moralismo bigotto che suole presiedere l’opinione pubblica privatizzata. A differenza dei tanti pamphlet liberal-progressisti che la sinistra Hollywoodiana ci ha rifilato negli anni (Dead Man Walking e simili), Rectfiy ci obbliga a una riflessione etica molto più profonda che fa a meno della compassione e s’interroga sulla natura recondita della vendetta istituzionalizzata. Ecco dunque un altro esempio di serie TV (dopo The Wire e Breaking Bad per citare le più riuscite) che riesce a scavare laddove i media mainstream manco si avvicinano, nelle viscere metastatiche dell’impero del bene. Rectify rappresenta un coraggioso passo in avanti che ha colto il pubblico di sorpresa (pur non essendo stato un grande successo di pubblico, è stata tuttavia confermata la seconda stagione) dimostrando il livello di complessità non solo narrativa e stilistica che il neotelefilm americano continua a coltivare e a produrre.

 

Celluloid Liberation Front

 



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