Documentario e fiction nel cinema di Werner Herzog

articolo pubblicato in Rapporto Confidenziale numero22 (febbraio 2010), pp.26-36

 

RCspeciale

DOCUMENTARIO E FICTION
NEL CINEMA DI WERNER HERZOG

di Enrico Saba

 

 

«Se cercate nella realtà qualcosa di più reale della realtà stessa

rivolgetevi alla finzione cinematografica»
– Slavoj Zizek (1)

 


RAPPORTO TRA FICTION E DOCUMENTARIO
La suddivisione tra documentario e fiction, e la demarcazione di un confine oltre il quale il documentario costituisca un genere a sé, è sempre stata una zona sismica dai confini incerti, messa in crisi non solo da vari approcci teorici e scientifici quanto innanzitutto dalla pratica percettiva e sensoriale dello spettatore. Esiliare il documentario in una categoria a sé risulta essere un facile riduzionismo e comporta una marginalizzazione di una delle molteplici (molte delle quali inespresse o rarefatte nella storia del cinema) possibilità del cinema.
D’altronde qualsiasi definizione di documentario risulta incompleta o sfuggente e l’affermazione di Bill Nichols “dare una definizione di documentario non è più semplice del darne una di amore o cultura” (2) rende appieno il carattere aleatorio e relazionale di questa classificazione; lo stesso Nichols aggiunge che “la definizione di documentario è sempre in relazione o in paragone a qualcos’altro.” (3)
I documentari scientifici e didattici, propagandistici o commerciali, che rappresentano l’aspetto diffuso e dominante nell’immaginario collettivo dell’idea di documentario, sono solo una parte di ciò che potrebbe tentare di appartenere alla definizione di documentario. Negli ultimi decenni il confine tra il territorio del documentario e quello della fiction si è fatto sempre più labile ed incerto grazie al diffondersi dei mockumentary, alla potente affermazione della soggettività autoriale e delle persone e personaggi ripresi, indagati, coinvolti. Forse più d’ogni altro autore Werner Herzog è riuscito a fondere e confondere documentario e fiction, a farsi beffe di ogni definizione, inventando un cinema fatto innanzitutto di immagini e di sguardi sull’uomo e sull’umanità, plasmando forma e sostanza in un unicum in cui l’unico è tale sia in quanto compatto sia in quanto irripetibile.
Emerge così un’imprescindibile aspetto non solo della sua poetica ma dell’essenza stessa del cinema, ovvero che ogni film più che seguire un percorso, è un percorso, un’idea di cinema.
Ogni film è così anche luogo di riflessione (più o meno diretta o indiretta) sul cinema stesso, e in Herzog il percorso fisico, creativo, umano e realizzativo è il motore e il senso di un mettersi in gioco con l’esistente, inscindibile da una messa in scena, una messa in quadro, che non cerca di nascondersi come in una classica fiction, ma tende piuttosto a farsi trasparente o persino si evidenzi nel suo farsi.
Aguirre – Furore di Dio e soprattutto Fitzcarraldo danno prova di come per Herzog il film sia contemporaneamente il making of del film stesso, in un vertiginoso intersecarsi di piani. La radicalità esistenziale del suo cinema la si può intendere proprio a partire dall’esperienza delle riprese: esse sono il momento chiave in cui la vita (lo sforzo realizzativo del film) incrocia l’arte (l’opera finita) e viceversa” (4), luogo dove e momento in cui fiction e documentario si compenetrano. E ancora, Aguirre – Furore di Dio e Fitzcarraldo sono emblematici per l’intera poetica herzoghiana, in quanto luoghi reali lontani dalle esperienze e dalle abitudini quotidiane, e pregno del carattere straordinario della realtà di cui Herzog è alla ricerca per far vedere e far sentire, attraverso il cinema e la sua capacità rivelatrice, aspetti più profondi della realtà e che si manifestano allo sguardo umano come una verità poetica, estetica e soprattutto estatica.

 

RIFLESSIONI SU DOCUMENTARIO E FICTION IN HERZOG
La contaminazione, l’intersecarsi e il fondersi di fiction e documentario, nonché di arte e vita, è alla base del cinema di Herzog sin dai suoi primi film, ed è un aspetto senza il quale è impossibile comprendere a fondo la sua poetica.
Nei suoi primi cortometraggi Herzog usa il documentario più come espediente formale apparentemente canonico che come mezzo per riprodurre una realtà oggettiva e fattuale. Anzi, tra il gioco farsesco e un apparente seriosità, il lavoro del regista tedesco mette in gioco alcuni meccanismi funzionali e falsificanti per produrre e osservare dei cortocircuiti del senso, del linguaggio, della rappresentazione e dunque del cinema stesso. Questi suoi primi lavori risultano essere così, oggi, più degli studi per opere successive che film compiuti in sé; tuttavia è già evidente e realizzato, sotto l’aspetto solo apparentemente ordinario della visione, l’effetto di una percezione straniante della realtà, scatenata qui da contraddizioni linguistico-semantiche. Nei successivi lungometraggi la frattura, o meglio, la sfasatura tra linguaggio parlato e immagini rimarrà ancora un tema portante, ma lo straniamento deriverà innanzitutto dalla fertile ed estatica visionarietà delle immagini luminose della Grecia di Segni di vita e dell’Africa di Fata Morgana accompagnate e al tempo stesso contrapposte all’oscurità del senso del comportamento umano. Sia che un film di Herzog parta dalla fiction per trovarsi immerso in aspetti documentaristici, sia che parta dal documentario per scoprirsi coinvolto nella fiction, il fine del regista tedesco è quello di avvicinarsi a una verità estatica che sappia far luce sui lati oscuri dell’esistenza.
In Fata Morgana le doti di gran osservatore di Herzog si uniscono a quelle di gran affabulatore (anche se la voce off è di Lotte Eisner) e il risultato è un film di natura inclassificabile, fondato su riprese di taglio documentaristico ma dai tempi dilatati, condotto dalla singolarità delle immagini stesse e dalla voce fuori campo verso una realtà altra e verso uno smarrimento estatico.
Qui risiede la scoperta dell’uovo di Colombo herzoghiana, ovvero di come alla base del cinema, qualunque sia la sua forma, vi sia una fortissima esigenza di racconto, e che anche il documentario debba svilupparsi come un racconto, un racconto alla ricerca della verità nella quale siano sempre vivi l’interesse, la suspence, il legame e la fascinazione con i luoghi e con i personaggi. Forse i suoi film meno riusciti sono proprio quelli in cui sono più deboli non solo le immagini visionarie ma anche l’attrazione e la fascinazione verso i protagonisti umani. E forse proprio per questo Aguirre – Furore di Dio e Fitzcarraldo sono invece tra i suoi film più celebri grazie alla magnetica e inquietante presenza di Klaus Kinski, e alla dimensione spettacolare ed epica del racconto e dello scenario naturale.
Aguirre – Furore di Dio e Fitzcarraldo sono ai vertici della poetica herzoghiana per moltissimi aspetti, tra i quali determinante è proprio la loro commistione di fiction e documentario che si compenetrano l’un l’altro nel loro farsi film. L’illusione cinematografica che Herzog crea “poggia sulla realtà autentica esistente o costruita da lui. Il suo set si inscrive nel mondo così come la sua visione del mondo si inscrive nei suo film.” (5)
Il reale, che per il cinema è ontologico dai fratelli Lumiere ad oggi, epoca di transizione nel digitale, è la materia su cui la fiction lavora producendosi come documentario di sé stessa, set del film in lavorazione/realizzazione che coincide pienamente raggiungendo vertici sublimi nella sequenza iniziale sui sentieri e tra le nubi andine di Aguirre e nella sequenza della nave da trasportare in cima alla montagna in Fitzcarraldo circondati da centinaia di indios.
Nel cinema di Herzog questa commistione di realtà e finzione è una costante, più o meno presente nella realizzazione filmica e più o meno artisticamente riuscita. I set del regista tedesco, spesso ai limiti dell’habitat umano mettono in scena non solo le difficoltà esistenziali dei personaggi ma anche quelle operative della troupe, giungendo non di rado a coincidere. Oltre ai celebri set amazzonici tormentati dalle improvvise piene dei fiumi, da malattie, ribellioni interne e difficoltà burocratiche, il regista tedesco si è avventurato tra nevi, ghiacciai e tempeste di vento per girare Grido di Pietra sulla parete del Cerro Torre in Patagonia e Gasherbrum – La montagna lucente sulle vette dell’Himalaya per seguire l’alpinista Reinhold Messner.
Ma anche nei rari casi in cui Herzog sceglie ambienti meno insoliti il film non viene meno a questa duplicità; in La ballata di Stroszek la degradazione urbana e quella umana ruotano attorno al personaggio di Bruno S. che si ritrova spesso a interpretare sé stesso, vittima realmente malmenata e torturata nel corso della sua vita; una identificazione che diviene totale e paradossale al tempo stesso in Little Dieter Needs To Fly nel quale Dieter Dengler ripercorre in prima persona la traumatica esperienza della prigionia e della fuga nella giungla durante la guerra del Vietnam.
La storia di Dengler è stata ripresa dieci anni dopo dallo stesso Herzog in Rescue Dawn, una produzione hollywoodiana con una troupe abituata al metodo standardizzato di lavoro americano, e che pertanto si è scontrata con l’istintivo modus operandi del regista tedesco, spinto dalla sua vis poetica ad addentrarsi nell’inospitale location thailandese per ottenere dalle riprese quello stretto rapporto tra realtà e finzione che fonda il suo cinema e dal quale possono nascere immagini e sensazioni stranianti e visionarie.
Nell’intenso e complesso rapporto tra arte e vita, tra fiction e documentario rivestono un ruolo fondamentale Cobra Verde e Dove sognano le formiche verdi, nei quali il paesaggio e le civiltà locali subiscono l’invadenza dell’uomo bianco; i personaggi locali e le popolazioni indigene esprimono il dramma della colonizzazione, interpretando i propri antenati nel film sulla schiavitù Cobra Verde, o sé stessi, con il proprio modo di vedere il mondo, nell’attualità della devastazione dei territori e della cultura degli aborigeni australiani in Dove sognano le formiche verdi.
In Cobra Verde inoltre Herzog è riuscito a far interpretare il ruolo del re a un vero re, Sua Altezza Nana Agyefi Kwame II, Omanhene di Nsein, con tanto di seguito di corte composto da circa trecento persone, rendendo la scena più naturale e convincente, di particolare effetto e tutt’altro che stereotipata, anzi ricca di particolari reali capaci di avvicinare e fondere fiction e documentario.
Parecchi anni più tardi Herzog adotterà una scelta analoga e duplice, stavolta non nella casualità di un incontro sul set bensì prevista già dal copione; in Invincible, ispirato a una storia vera, il regista tedesco farà interpretare la parte di Zishe, l’uomo più forte del mondo nella Germania nazista degli anni Trenta a un vero uomo più forte del mondo, ma contemporaneo, il campione di sollevamento pesi Jouko Ahola; accanto a lui la celebre musicista Anna Gourari vestirà i panni di una bella ma triste pianista eseguendo davanti alla macchina da presa, con straordinaria intensità, il terzo concerto di Beethoven.
Un ulteriore sviluppo della creatività herzoghiana si afferma nei film degli ultimi anni nei quali il rapporto tra documentario e fiction si affina talmente dando forma a nuove idee di cinema, sfuggenti a ogni catalogazione di genere; Il diamante bianco, Grizzly Man e L’ignoto spazio profondo si offrono non solo come atipici, e perciò geniali e rilevatori, punti di osservazione sulla realtà, ma esplorano l’essenza del cinema stesso portando lo spettatore a una presa di coscienza sulla realtà, sul cinema, e sulle contraddizioni vitali e quelle imposte che abitano questo rapporto.
Questi film prendono il via apparentemente come documentari per svilupparsi su diversi e intersecanti livelli di realtà, riprendendo temi e immagini care a Herzog e portando così l’intero suo cinema, visto come un’unica grande opera, a un ulteriore grado di maturazione.
Ne Il diamante bianco è lo stesso regista a porsi davanti alla macchina da presa e farsi protagonista visibile di una storia che si sviluppa davanti e dietro la telecamera nel tentativo di sorvolare con un dirigibile parte della foresta amazzonica; alla ricerca di immagini suggestive, incontaminate e non-ordinarie il regista mette a rischio innanzitutto sé stesso portando il film a essere documento di una vicenda che conquista e affascina lo sguardo nel dispiegare una narrazione che si dà nel reale come nel film.
“Le storie sono ricavate direttamente dalle immagini, le quali traggono la loro forza espressiva dall’esperienza diretta e dalla relazione fra ambiente e protagonisti. Lo sviluppo narrativo non è dato da una storia intesa come la riproduzione di modelli narrativi o figurativi, ma dalla produzione di un evento di cui la macchina da presa è testimone. Così cade la distinzione fra documentario e finzione, che diventa irrilevante.” (6)
Già a metà degli anni Settanta Herzog aveva vissuto una situazione simile nel mediometraggio La Soufriere, girato su un’isola a fortissimo rischio di esplosione vulcanica ed appena evacuata dagli abitanti, nel quale la messa in gioco di sé era dominante, e il rapporto arte e vita totale, con la differenza che ne Il diamante bianco le immagini, la vicenda, il regista-protagonista vivono su una forte presenza nel film, mentre ne La Soufriere, nonostante la tensione per l’imminente catastrofe, dominano le assenze, gli echi, i riverberi e le impressioni, segni stranianti di una realtà alterata.
Successivamente a Il diamante bianco Herzog realizza Grizzly Man, organizzando in forma filmica la copiosa quantità di immagini realizzate da Timothy Treadwell, regista e protagonista delle proprie riprese; la regia di Herzog si sovrappone a quella di Treadwell, talvolta identificandosi talvolta creando un distacco netto, confondendo più volte i piani in un “film che esclude la messa in scena come stratagemma di realismo e che, pure, ci appare come una ricostruzione, con l’insistenza dello sguardo in macchina di Treadwell (a chi si rivolge? a chi sono dirette le sue visioni?) e immagini tanto belle da non sembrare vere. Non si può più distinguere la linea tra vero e falso, non ci sono più due territori così netti” (7), sembra quasi che Treadwell, su un set così suggestivo e con inquadrature così ben costruite, stia recitando per Herzog. “Treadwell, nel filmare se stesso in Alaska con gli orsi grizzly, modifica così sottilmente la situazione da restituirci una realtà che già sfugge splendidamente a ogni principio di realismo, non solo nel mettersi in posa davanti all’obiettivo e ‘recitare’ una parte, ma, soprattutto, di scegliere che cosa mostrare e come far confluire una verità assoluta (per il luogo tanto selvaggio e per la realtà della sua stessa esperienza), con il proprio sguardo su se stesso e su quel mondo.” (8)
Questo film straordinario non è soltanto l’affascinante racconto della vita e della morte di un uomo tra gli orsi, ma è un film che passando continuamente da Treadwell attore a Treadwell regista a Herzog regista (e anche attore), “mostra il vuoto in cui cadiamo quando fingiamo di parlare di cinema come macchina per riprodurre, per illustrare, per documentare, per fare spettacolo… questo film ha il merito (come ogni film di Herzog) enorme di distruggere queste infamie, infamie perché servono a perpetuare lo spettacolo nel modo più banale, più incosciente, più schiavistico verso le persone, verso le immagini, verso le cose, verso tutto.” (9)
La riflessione sul cinema che pervade tutto il film nell’alternarsi di piani e scelte registiche dei due autori è notevolmente arricchita dall’esposizione orale in prima persona delle loro riflessioni e domande sul come, cosa, dove, fino a dove, perché e per chi filmare, in un fluire quasi ingenuo e euforicamente a ruota libera per Treadwell, in maniera più lucida e meno impulsiva per Herzog, ma entrambe ricche di una complessa, e partecipe, visione del mondo.
Pochi mesi più tardi Herzog porta a compimento L’ignoto spazio profondo, decisamente il suo film più inclassificabile, originale e multiforme, e che lo stessa regista presenta nei titoli di testa con la anomala definizione di ‘science fiction fantasy’; la struttura del documentario si fa luogo di finzione totale per lo stravolgimento del senso affidato al potere demiurgico delle parole e del cinema; la bellezza straniante e visionaria delle immagini, quasi esclusivamente di repertorio, è trasfigurata, mutata, in definitiva espansa, dalle parole del narratore Brad Dourif e dal potere evocativo della musica.
Come nei precedenti Fata Morgana e Apocalisse nel deserto, con i quali forma un’anomala trilogia di fantascienza, la realtà è re-inventata da Herzog in un gioco sottile nel quale l’eccesso di senso delle immagini documentarie “è bilanciato da un eccesso di finzione. La storia degli alieni esposta nella sua vibrante drammaticità si perde nell’immenso spazio irreale di profondità marine e abissi del cosmo. Viene in mente Fata Morgana, il miraggio di qualcosa che esiste e non esiste al tempo stesso, immagine mai vista che non sarà mai più possibile vedere nello stesso modo.” (10)
Ma a differenza dei precedenti non sono le parole di un narratore/osservatore onnisciente o esterno a guidare lo spettatore verso un’interpretazione metaforica e visionaria della realtà alterata, ma qui è la voce del protagonista Brad Dourif che davanti alla macchina da presa cerca, come Treadwell in Grizzly Man, “quel filo di intimità e di confidenza” su cui poter camminare, come funamboli, per parlare “guardandoci negli occhi, cercando di mostrarci il loro mondo, quello che hanno visto e che continuano a vedere, come fossero davvero in una realtà parallela, reale ma ingannevole al tempo stesso.” (11)

 

INDISSOLUBILITÀ TRA VERO E FALSO
Questa ipotetica linea tra fiction e documentario su cui cammina Herzog in tutto il suo cinema, mescolando intelligentemente i due campi e raggiungendo momenti di identificazione simbiotica (come nelle sequenze topiche di Aguirre – Furore di Dio e Fitzcarraldo) o sperimentando nuove forme filmiche (come ne L’ignoto spazio profondo e Fata Morgana), porta il regista tedesco a lavorare sapientemente in bilico tra verità e falsificazione all’interno dei meccanismi di produzione e riproduzione della realtà. Il dualismo vero-falso diventa una sorta di chiasmo nel porsi dinanzi al vero come momento del falso e al falso come momento del vero.
Se la finzione cinematografica mette in mostra sia una possibilità del reale (portandola non di rado a concretizzarsi durante le riprese nella corrispondenza documentario-fiction) sia agisce a livello di interpretazione metaforica del reale, la falsificazione agisce come strumento per arricchire o enfatizzare la narrazione e il senso profondo della realtà stessa.
È lo stesso Herzog a sottolineare che “fa tutto parte della pura gioia del narrare una storia” e che “bisogna stare attenti alla realtà nel cinema… Il cinema si alimenta di sogni, di nostalgie e di desideri collettivi, molto più che di realtà. Credo che al cinema attraverso l’arte, l’invenzione e l’immaginario, si rivela una realtà nascosta che descriverei con altre parole.” (12)
Questa prassi creativa raggiunge uno dei suoi apici nel film sul madrigalista del Cinquecento Gesualdo da Venosa Carlo Gesualdo – Morte per cinque voci, la cui verità storica si confonde al mito in maniera indissolubile. Herzog sceglie di realizzare in forma documentaristica una ricostruzione della vita del compositore basandosi sull’impossibilità di una scissione tra mito e verità, divertendosi a seguirle entrambe nel loro fitto intrecciarsi. Nel tentativo di far ‘parlare’, testimoniare, oggetti, indizi, luoghi ed echi del passato, anche attraverso la simulazione (Milva che interpreta il fantasma della moglie di Gesualdo), verità e invenzione (mitica e herzoghiana) vanno a braccetto “mostrando il paradosso secondo il quale, alle volte, è necessario ricorrere alla finzione per pervenire ad una realtà credibile.” (13)
Sulla figura di un altro personaggio sospeso nel limbo tra realtà e leggenda, tra vero e falso, Herzog ha girato Bokassa – Echi di un regno oscuro; in questo documentario sulla dispotica, folle e malvagia figura dell’imperatore africano Jean-Bédel Bokassa, le immagini di repertorio si alternano a numerose interviste e testimonianze, che risultano però trovarsi in più punti in contraddizione tra loro. Quali efferatezze e delitti siano stati realmente compiuti da Bokassa e quali siano cresciuti nell’aura mitica che lo avvolge è un quesito irrisolvibile che rende il falso indistinguibile dal vero, ma che non contribuisce minimamente a scagionare dalle sue colpe il tiranno, accresce piuttosto il senso del clima di terrore e follia che egli stesso aveva generato. E la verità che cerca Herzog sotto forma di inchiesta filmata non è tanto quella del dittatore, il quale nonostante la sua indubbia colpevolezza rimane circondato da un alone di leggendario mistero, quanto la messa in scena del decadimento morale degli uomini, che trova nella scena conclusiva dello scimpanzé intento a fumare una sigaretta dietro le sbarre di una gabbia un emblema della stortura umana.
Se in Gesualdo – Morte per cinque voci e in Bokassa – Echi di un regno oscuro è già la realtà a mescolare indissolubilmente vero e falso, il mockumentary Incident at Loch Ness, pensato, realizzato e interpretato da Werner Herzog insieme a Zak Penn, ha il preciso intento di confonderli tramite una complessa e intricata messa in scena che sfrutta e attraversa l’analogia con il set fisico e ‘psicologico’ del lago.
Incident at Loch Ness è una fiction in forma documentaristica sul making of, e il suo fallimento, del finto documentario L’enigma di Loch Ness, il quale a sua volta si interseca a un altro ipotetico documentario, Herzog in Wonderland, che il direttore della fotografia John Bailey starebbe girando sul regista tedesco e sul suo modus operandi. In un continuo gioco di finzione, svelata e non, di un film dentro l’altro, Incident at Loch Ness è una manipolazione incessante e persistente del reale (non solo cinematografico) in grado di confondere e ingannare non solo lo spettatore, ma anche il regista stesso, vittima dell’osservazione di una realtà contraffatta a priori.
Gli stessi registi Herzog e Penn fingono di interpretare sé stessi recitando invece con ironia il ruolo caricaturale di un’ostinata ed esasperata fede negli opposti sistemi produttivi, quello del documentario rigoroso (scettico e puro) e quello della spettacolarizzazione fine a sé stessa (pervasa da un abuso di trucchi), finendo entrambi con l’essere messi in scacco dal ‘mostro’ e sconfitti tra le nebbie del lago. Incident at Loch Ness è sostanzialmente un saggio critico, giocoso e beffardo, sul valore e l’interpretazione della realtà nel documentario e sulla sua costruzione esageratamente falsificata nel cinema mainstream hollywoodiano.
Il labile confine tra verità e inganno che si insinua tra le nebbie del lago di Loch Ness, come nelle anomalie percettive dei miraggi di Fata Morgana, viene esplorato da Herzog anche sull’enigmatico territorio della religione; non si tratta soltanto di affrontare l’ambiguità interna al dualismo vero/falso, ma anche quella tra fede e superstizione.
In Rintocchi dal profondo, ambientato nella Siberia post-comunista, Herzog incontra fedeli, miracolati e personaggi stravaganti (sciamani, esorcisti, un nuovo Gesù, un trasmettitore di energia cosmica) in bilico tra una profonda e non di rado goffa spiritualità e un ciarlatanismo dai tratti ingenui.
Lo strettissimo legame tra l’uomo e la spiritualità, ritratto in questo film russo attraverso le singolarità dei personaggi nei loro credo e nelle loro derive religiose, viene invece osservato in Demoni e Cristiani nel Nuovo Mondo nella ritualità quasi impersonale dei fedeli. Senza il minimo intervento parlato, caso rarissimo nella cinematografia herzoghiana, Demoni e Cristiani nel Nuovo Mondo ritrae la fede e il fervore dei devoti del Santuario della Vergine di Guadalupe e di Sant André Iztapà in Guatemala dove il cattolicesimo si mescola a riti di chiara discendenza pagana.
Questi due mediometraggi si pongono nella prospettiva di mostrare la complessa natura delle commistioni e delle ambiguità religiose, dove vero e falso, fede e superstizione si fondono in un magma indistinguibile.
Totalmente differente è invece God’s Angry Man – Fede e denaro nel quale Herzog compie un’operazione di smascheramento nei confronti dell’invasato predicatore evangelista Eugene Scott e del mezzo televisivo, suo tramite espressivo e comunicativo con i fedeli.
Pur senza assumere una netta presa di posizione, Herzog mostra in maniera piuttosto esplicita come il fine ultimo delle invettive e dei rabbiosi sermoni di Scott sia fondamentalmente lucrativo, di come il suo credo sia in realtà l’insofferenza di un disadattato, e di come la televisione possa essere strumento di mera falsificazione e ingannevole strumentalizzazione.

 

LA TRILOGIA FANTASCIENTIFICA
Fata Morgana, Apocalisse nel deserto e L’ignoto spazio profondo rappresentano uno dei momenti più alti della poetica herzoghiana per la capacità di saper re-inventare la realtà attraverso uno spostamento, una variazione di senso del materiale filmato. Le immagini del nostro pianeta nel loro splendore visionario sembrano appartenere a uno scenario fantascientifico e apocalittico nel quale però non vi è nulla di ricostruito ma soltanto “un lavoro attento di profonda stilizzazione.” (14)
Questi tre film, realizzati a distanza di oltre un decennio l’uno dall’altro, sono “un superbo esempio di come si possa girare (un) film di fantascienza usando le stupende immagini che la natura fornisce, senza spendere fior di milioni in complicati effetti speciali digitali ma usando l’immaginazione.” (15)
Attraverso una realtà apertamente falsificata, le immagini documentarie, introdotte da una voce narrante e affabulatoria, vengono così ricontestualizzate in una dimensione finzionale che, paradossalmente, porta a osservare più a fondo la realtà stessa.
La fantascienza poetica di Herzog è una riflessione lirica, dolorosa e sognante, talvolta ironica, sul nostro pianeta devastato dalla scriteriata presenza umana che, partendo dai “deserti africani, con il mito del Popol Vuh, quando la Terra non aveva forme, tutto era silenzio, cielo e acqua, prosegue tra la furia infuocata dei pozzi del Kuwait, nell’ostilità tagliente di esseri sconosciuti, e si conclude nelle profondità senza fine del mare e del cielo. Un giro completo, dal cielo al cielo, dal suo bagliore inerte all’oscurità dell’abisso, dall’origine alla fine dei mondi.” (16)
La fantascienza stessa è sempre uno specchio, non è mai realmente solo una visione del futuro quanto piuttosto un commentario su di noi e il presente, uno sguardo che Herzog realizza persino privandosi degli standard spettacolari di genere quali costumi e astronavi avveniristici o scontri e creature spaziali, assumendo invece come punto più alto di finzione la trasfigurazione della realtà oggettiva e la sua re-invenzione, e sostituendo agli effetti speciali lo splendore estatico e visionario di immagini reali.
Un po’ “come vedere il mondo per la prima volta, direbbe Herzog, ma a partire da un occhio completamente disabituato ai nostri segni e ai modi del nostro guardare, un po’ ciò che è avvenuto a Kaspar Hauser, ma amplificato e teorizzato fino alle più estreme conseguenze”. Un sentimento dell’immagine che porta a un rovesciamento, un capovolgimento del punto di osservazione in quanto “non saremo noi a essere coinvolti in un viaggio di scoperta di altri mondi e altre forme di vita, ma sarà lo sguardo ‘puro da noi’ a venirci a guardare per raccontarci che cosa/come vede.” (17)
La voce narrante proietta immediatamente lo spettatore nella dimensione straniante di uno sguardo alieno che, stravolgendo ogni prospettiva, “ci offre elementi impensabili e spunti di riflessione sulla creazione, sulla vita e sulla morte” (18); uno sguardo catturato dalla fascinazione quasi ipnotica delle carrellate in camera-car nel deserto africano, dei pozzi di petrolio in fiamme in Iraq e delle riprese subacquee dell’immaginaria atmosfera d’elio di un pianeta nel sistema solare di Andromeda.
Le immagini di Fata Morgana non descrivono così la desolazione del deserto, anzi conducono lo spettatore in una dimensione epica e fantastica, trasognata e visionaria; in “Apocalisse nel deserto non si parla più della guerra in Iraq o di Saddam Hussein ma di un pianeta che non riusciamo più a riconoscere” (19) e ne L’ignoto spazio profondo i filmati della Nasa e gli interventi degli scienziati avvalorano il racconto fantastico e disperatamente lucido dell’extraterrestre Brad Dourif.
Gli scenari da fantascienza che permeano questa trilogia si ritrovano anche in altre opere herzoghiane, e in particolar modo ne La Soufriere, dove però non è la finzione a stravolgere la realtà, bensì la realtà stessa a essere stravolta da un evento naturale e ad offrirsi così a uno sguardo alieno; i vapori dell’eruzione imminente e l’apocalittico e suggestivo paesaggio dell’isola improvvisamente evacuata sono accompagnati dal commento della voce off del regista: “Città con semafori ancora accesi, in una casa anche una televisione, le strade vuote, animali per le strade, vetrine e negozi abbandonati. La maggioranza dei negozi era stata svuotata in fretta e furia. Il silenzio era spettrale, solo qualche porta sbattuta al vento e l’acqua gocciolava. La strada apparteneva agli animali. Troviamo asini, maiali, galline e soprattutto cani. I cani non mangiano da giorni visto che non c’erano più avanzi. Non abbaiavano nemmeno più. Ne trovammo molti morti di fame, e il posto puzzava molto di cadaveri. Era spettrale come un luogo di fantascienza”.
L’intera città da poco abbandonata ne La Soufriere porta già i segni di una civiltà decaduta, ogni traccia dell’uomo diviene l’affascinante testimonianza della sua esistenza ma ancor più del suo carattere effimero, così come nei film della trilogia fantascientifica, disseminati dei resti della presenza umana: la carcassa di un aereo, lo scheletro di una macchina capovolta, costruzioni abbandonate in Fata Morgana, campi disseminati di macerie e oggetti sventrati dopo le esplosioni e gli incendi in Apocalisse nel deserto, la monumentale e vuota ossatura di un centro commerciale e di una banca di periferia ne L’ignoto spazio profondo.
Il senso della fine di ogni cosa e della fine del mondo pervade questi film creando una dimensione temporale sospesa e dilatata nell’attesa o nell’incertezza di un’Apocalisse imminente o già compiuta, e che ritroviamo anche nello smarrimento dei personaggi e delle vicende di Aguirre – Furore di Dio e di Cuore di Vetro, e nella sofferta esistenza del morto-non morto Nosferatu.
Accanto al tema della fine Herzog ritorna più volte nella sua opera cinematografica sul tema dell’incompiutezza della Creazione e dell’imperfezione di questo mondo attraverso la tragica bellezza delle immagini girate nelle zone inospitali del pianeta, nella giungla di Aguirre – Furore di Dio e di Rescue Dawn, nei deserti e tra i ghiacciai, e soprattutto presso i vulcani, dove l’incompiutezza della Creazione e il senso della fine coincidono pienamente.
Un manifesto di questa poetica, letto dalla voce off di Lotte Eisner, accompagna le immagini e le musiche della prima parte di Fata Morgana, intitolata proprio ‘La Creazione’, ed è tratto dal Popol Vuh, libro sacro degli indios Guatemaltechi, nel quale si racconta il mito della creazione come fallimento divino. Lo stesso Herzog in una recente intervista chiarisce il fascino di questo testo e di come esso si apparenti strettamente alla sua poetica e alle immagini dei suoi film: il “Popol Vuh riporta una sequenza di fallimenti degli dei durante la creazione. Lo trovai interessante perché il concetto cristiano di creazione che finisce in un pianeta di equilibrio, bellezza e armonia non mi appartiene. Per questo mi piace il libro della creazione dei maya, perché possiede qualcosa di primordiale che è al di fuori del nostro pensiero occidentale”. Le immagini dei suoi film, e qui in particolare Fata Morgana, si nutrono di questa “strana forza preoccidentale e quando dico occidentale intendo la tradizione ebrea, greco-romana, con le quali siamo cresciuti. Improvvisamente queste immagini superano questa tradizione, hanno qualcosa di molto strano, crudo e originario, qualcosa che assomiglia ai sogni, e i sogni apparentemente, non sono influenzati dalla cultura: sono non-coltivati, a-culturali, anarchici, primordiali, preistorici in un certo senso.” (20)
Lo splendore visionario delle immagini di Herzog scaturisce da questo sguardo alieno, differente e inusuale, arcaico ed etereo, da una riscoperta del guardare affinata a un ‘sentire’ più intenso e profondo, spesso lucidamente doloroso nell’aspetto tragico della condizione umana e di un pianeta morente per l’insostenibilità di una civilizzazione dissoluta e devastante che non distrugge e inquina soltanto l’ambiente ma anche le immagini e l’immaginazione.

 

 

VERITÀ ESTATICA E CRITICA AL CINEMA VERITÀ
All’origine del cinema di Herzog vi è una pulsione vitale irrefrenabile che lo spinge alla ricerca di immagini e storie non standardizzate o prefabbricate, non consumate da un’abitudine dello sguardo che limiti la possibilità di vedere diversamente da come ci viene fatto vedere. Si potrebbe mettere in bocca a Herzog alcune parole di Marguerite Duras: “Faccio del cinema perche’ non mi piace quello che mi si fa vedere. Fare del cinema è essere contro il cinema che vi mostrano” (21); ma in maniera più completa sarebbe da dire: essere contro tutte le immagini preconfezionate e contro un immaginario sempre più omologato e dunque anche contro il pensiero che lo esprime e contro quello che si adegua.
Già dai suoi primi passi nel mondo cinematografico Herzog esprime la sua volontà di rottura con un cinema conservatore, firmando il Manifesto di Oberhausen del 1962 con il motto ‘Papa Kino ist Tot’, prendendo poi, in breve tempo, il distacco dal prevalente interesse politico di questa nuova corrente, affidandosi piuttosto “alla bellezza dell’immagine, al suo carattere rivelatore e alla sensibilità dello spettatore… per abbracciare un cinema introspettivo” (22) e sensoriale.
Più volte Herzog, nelle interviste da lui rilasciate, insiste sulla necessità e sull’urgenza di una nuova grammatica delle immagini, immagini del nostro tempo fino ad ora inedite, e sull’idea di affrontare il cinema come un territorio vergine ponendosi nella condizione di dover “inventare il cinema come se fossi l’inventore della macchina da presa” (23) alla ricerca di una verità intima che vive sotto la superficie visibile delle cose.
Lo splendore visionario delle immagini dei film di Herzog, risvegliando nello spettatore qualcosa di primordiale o di sopito, offre a uno sguardo ‘nuovamente’ sensibile la possibilità di accedere a una verità più profonda che lo stesso autore chiama verità estatica; la verità estatica si manifesta così attraverso un’illuminazione che percorre la strada della scoperta artistica, la quale “nasce ogni volta come un’immagine nuova e irripetibile del mondo, come un geroglifico della verità assoluta. Essa si presenta come una rivelazione, come un desiderio appassionato e improvviso di afferrare intuitivamente tutte in una volta le leggi del mondo, la sua bellezza e il suo orrore, la sua umanità e la sua ferocia, la sua infinità e la sua limitatezza.” (24)
Dinanzi alla realtà filmica “la verità della natura e la natura della verità si rivelano in un sol luogo” (25), che non corrisponde però alla cosiddetta verità dei fatti. Anzi, la distinzione tra ‘fatto’ e ‘verità’ è fondante per la comprensione della verità estatica.
Nella Dichiarazione del Minnesota, scritta tra il serio e il surreale, Herzog lancia un’invettiva contro il Cinema Vérité, difensore della corrispondenza diretta tra la realtà fattuale e quella filmica. Per il regista tedesco riprodurre i fatti reali, come in un documentario tradizionale, non porta che a “una verità di superficie, la verità dei contabili”, mentre la verità più profonda, la verità estatica “è misteriosa ed elusiva, e può essere colta solo per mezzo di invenzione e immaginazione e stilizzazione.” (26)
Uno straordinario esempio capace di avvicinare lo spettatore a una verità più profonda è la scena del pellegrino che striscia sul lago ghiacciato per cercare di sentire le campane della leggendaria città sommersa di Kitesh in Rintocchi dal profondo. Un’immagine che può esser presa anche come metafora dei limiti del Cinema Vérité, che si sarebbe fermato sulla superficie ghiacciata senza provare a sondare le profondità, a sentire o immaginare gli echi e i riverberi che provengono dal lago sottostante e dall’aura mitica che lo avvolge. Arricchendo la realtà tramite l’invenzione narrativa e l’immagine suggestiva dell’ascolto delle campane, Herzog riesce a condurre lo spettatore verso una verità estatica che esprime in maniera più soddisfacente e più sentita l’anima russa e la storia della città sommersa.
Un’operazione molto simile è stata realizzata in Paese del silenzio e dell’oscurità per rendere più reale e toccante il ricordo di un’immagine della fanciullezza della protagonista Fini Staubinger che, in seguito a un incidente, perse in giovanissima età la vista e l’udito; ma l’immagine del ricordo è un artificio del regista suggerito alla protagonista e avvalorato dalle parole della sua stessa narrazione. L’immagine evocata dalla donna sordocieca è la sequenza al ralenti di una gara di salto con gli sci in cui gli atleti sono raffigurati sospesi in volo nello scorrere dilatato del tempo, una visione che si offre allo spettatore nella pienezza di una ipnotica fascinazione visiva e di un emozionante e tragico racconto, una condensazione evocativa che da origine a una sublime verità estatica.
“Il cinema, come la poesia”, afferma Herzog “è intrinsecamente capace di presentare un numero di dimensioni molto più profonde del livello della cosiddetta verità che si trova nel Cinema Vérité e persino della realtà stessa, e proprio queste dimensioni sono le zone più fertili per un regista… La linea di demarcazione tra finzione e documentario semplicemente non esiste; sono tutti solo film. Entrambi giocano con ‘fatti’, personaggi e storie allo stesso modo… Così io combatto contro il Cinema Vérité perché raggiunge solo il livello più banale di comprensione di tutto ciò che ci circonda.” (27)
Già dalle sequenze iniziali Herzog, oltre a presentare una chiave di lettura particolarmente significativa e illuminante per il film, mira a elevare lo spettatore a un livello di intensità che raggiunga il sublime.
La rivelazione di una verità estatica al principio del film si manifesta spesso con inquadrature di straordinaria e anomala bellezza come la migrazione dei granchi in Bokassa – Echi da un regno oscuro, la discesa dal monte in Aguirre – Furore di Dio e la sospensione aerea del saltatore con gli sci in La grandi estasi dell’intagliatore Steiner o con immagini dal fascino inquietante come nel furioso intervento di Kinski – Il mio nemico più caro, nel disturbante prologo di Anche i nani hanno cominciato da piccoli e nel contrasto tra il bambino che imbraccia un fucile mentre canta una canzone d’amore ne La ballata del piccolo soldato.
Per Apocalisse nel deserto il regista non si accontenta della forza evocativa di immagini già impressionanti e tragicamente seducenti, ma dà inizio al film con una didascalia che possa far entrare immediatamente lo spettatore in una condizione di illuminazione estatica grazie all’imponenza del suo dolente splendore e all’autorevolezza della firma del filosofo Blaise Pascal. Ma si tratta di una falsa citazione, poiché ad averla scritta è invece il regista stesso, fermamente convinto che con quest’operazione lo spettatore raggiunga all’istante la predisposizione verso una verità estatica che non lo abbandonerà per tutta l’opera; un espediente che Herzog riutilizza in apertura di Pilgrimage attribuendo a Thomas à Kempis una frase di sua invenzione.
Ma tutto il cinema di Herzog è disseminato di trucchi e ritocchi alla realtà, poiché “la messa in scena nel cinema ha il compito di sconvolgerci con l’autenticità degli atti rappresentati, con la bellezza delle immagini artistiche, con la loro profondità, e non con un’importuna illustrazione del significato racchiuso in essi. L’insistente spiegazione del significato… limita la fantasia dello spettatore e forma una sorta di soffitto delle idee oltre il quale si spalanca il vuoto. Lungi dal difendere le frontiere del pensiero, ciò limita la possibilità di penetrarne la profondità.” (28)
Aguirre – Furore di Dio, costantemente sospeso in un’eterea dimensione di verità estatica, penetra con maggior vigore e maggior sensibilità nell’animo umano e nella natura più selvaggia, proprio fondandosi su un falso. L’intera vicenda di Aguirre – Furore di Dio, nella sua realistica messa in scena, si basa sul diario, letto da voce off, del frate domenicano Gaspar de Carvajal, il quale però non seguì la spedizione del vero conquistador Lope de Aguirre del 1560 ma quelle di Pizzarro ed Orellana del 1541-42.
Su un falso si fonda anche la storia di Dove sognano le formiche verdi; proprio le formiche verdi sono un’invenzione del regista che opta per “includere nel film delle leggende e delle mitologie che si avvicinano al modo di pensare e di vivere degli aborigeni” (29), preferendo così celare, e in questo senso preservare, alcuni aspetti della loro cultura, enfatizzando con quest’idea originale l’enigmatico fascino di questo popolo nella sua prossimità alla natura e all’importanza dei sogni.
Le stesse interviste nei film di Herzog sembrano talvolta non sfuggire a procedimenti di perfezionamento e rifinitura della realtà filmica e della verità che vi si esprime, come lo stesso autore ammette precisando che “è concesso stilizzare alcune parti del film solo se il soggetto è collaborativo.” (30)
Non si tratta di falsare la realtà, ma di recitarla piuttosto che esporla, di forzarla così in una direzione che già le appartiene. A Herzog nelle interviste non interessa solo che emerga un significato sui motivi delle domande e della conversazione, ma che emerga la personalità (o una sua parte) dell’intervistato, le sue idee e soprattutto il suo modo di esprimersi. Davanti alla macchina da presa le persone inquadrate non trasmettono solo un’informazione, ma comunicano la loro verità di essere al mondo, con i loro dubbi e le loro conoscenze, la gioia e il dolore, la follia e lo stupore, l’euforia e la fede. Sono i loro sentimenti e il loro senso del mondo che emergono. E nonostante la sensazione che vi sia qualcosa di caricaturale, di forzato, ma comunque di proprio in parecchi intervistati, in particolare in film come Grizzly Man, Gesualdo – Morte per cinque voci e in Rintocchi dal profondo, è comunque la verità più intima a farsi strada, mostrando come “a volte i fatti hanno un potere strano e bizzarro che fa sembrare incredibile la loro verità intrinseca.” (31)
La verità estatica riesce così a manifestarsi attraverso lo sguardo sincero e rapito di un monaco dopo mesi di pellegrinaggio in Kalachakra – La ruota del tempo, nelle differenti percezioni sensoriali dei sordociechi, nella ritualità di Wodaabe – I pastori del sole, nella naturalezza del modo di vedere le cose del rastafari Mark Antony Yhap ne Il diamante bianco e in tutti i ‘Professional dreamers’ che, agli estremi luoghi (mentali e fisici) del nostro pianeta, popolano l’universo cinematografico di Herzog.
Dinanzi a un’immagine capace di rivelare una verità estatica per la sua straordinaria o anomala bellezza Herzog spesso dilata la durata dell’inquadratura producendo un effetto straniante che, sottraendola momentaneamente alla narrazione, la sovraccarica di fascino e significato proprio.
Per il regista tedesco le immagini non devono mai essere assorbite dalla narrazione ma essere in grado di narrare da sé; “un modo per dare più forza a un’immagine è proprio insistere su di essa… è una cosa che Hollywood non concepisce” (32). Il montaggio non è mai rapido e i movimenti della macchina da presa sono quasi sempre ridotti all’essenziale, affinché le immagini possano apparire e aprirsi all’occhio e non scomparire nella narrazione.
Bisogna dare il tempo allo sguardo di farsi cogliere dalla pienezza delle immagini, di mostrarsi anche oltre lo svolgimento del racconto, sottrarsi all’esagitata velocità del mondo e del cinema e riscoprire l’incanto del mondo, come in questo passo de La conquista dell’inutile: “stasera uno strano coleottero mi si è arrampicato sulla mano, sembrava un animale preistorico con la corazza, non ne avevo mai visti così e l’ho fissato a lungo meravigliato.” (33)
Bisogna insistere sul potere dello sguardo, su un modo più “radicale di guardare le cose, radicale fino al loro esaurimento… e (che sfida) la convenzione narrativa, i tempi morti di un’avventura… guardare più a lungo del richiesto disturba gli ordini prestabiliti, quali che siano, nella misura in cui, di solito, il tempo stesso dello sguardo è controllato dalla società” (34), una società in cui la normalizzazione dello sguardo determina la normalizzazione del pensiero, sempre più incapace a capire le diversità e, senza valido confronto, sempre più incapace a capire sé stessa.
Proprio per questo Herzog insegue fin nei luoghi più remoti e inospitali del nostro pianeta le diversità umane, le anomalie dello sguardo, la bellezza ipnotica dei volti e dei paesaggi (anche sofferenti o devastati) che originano la verità estatica, capace in un sol istante di liberare dai paraocchi di uno sguardo normalizzato.
Per Herzog fare film è “usare le immagini per compiere una ricerca su quello che vediamo, su come vediamo, sulle cose che ci trascinano o che paralizzano lo sguardo” (35); l’insistente dilatazione temporale di un’inquadratura e l’uso del rallenti, nella loro intensità evocativa, permettono di osservare con maggior attenzione e sensibilità l’esistente.
Il senso di distacco fisico ma trascendente nell’estasi del volo viene reso da un ralenti esasperatamente dilatato rispetto a qualsiasi servizio sportivo ne La grandi estasi dell’intagliatore Steiner, ne Il diamante bianco lo splendore dell’immensa cascata di Kaieteur viene vista attraverso il primissimo piano di una goccia d’acqua, una nave incagliata sulle cime degli alberi in Aguirre – Furore di Dio mostra il carattere allucinatorio e febbrile dell’uomo in balia delle forze della natura.
Dinanzi a un insistenza dello sguardo moltissime immagini a prima vista insignificanti si rivelano invece sorprendentemente vitali. Nei pochi secondi di Grizzly Man in cui Treadwell si allontana lasciando accesa la telecamera sembra quasi che l’immagine si organizzi da sé mentre il commento off di Herzog fa notare come il movimento dei fili d’erba al vento mostri “che dei momenti apparentemente vuoti nascondevano una bellezza segreta; alle volte le immagini sviluppavano una vita propria”. “Tutto sembra colto in un ultimo momento irripetibile, come un’ultima visione d’un paesaggio selvatico… le cose meno appariscenti si rivelano solo ad uno sguardo un po’ fisso ed eidetico” (36) che si apparenta alle riprese di Lisca Bianca ne L’avventura di Michelangelo Antonioni.
Questa sospensione incantata del tempo e del racconto contraddistingue decisamente già il primo lungometraggio Segni di vita, in cui la macchina da presa si sofferma a lungo su immagini ambientali potenzialmente autonome nelle quali si concentrano progressivamente i segni dello smarrimento della ragione del protagonista in un’atmosfera dolcemente perturbante e incantevolmente allucinatoria; la luminosità mediterranea delle isole greche di Creta e di Kos enfatizza questo sconvolgimento dei sensi in cui si condensa una visione estatica, tra i cui apici la scena della pianura disseminata di mulini a vento e l’assalto circolare dei pesciolini a un frammento di cibo.
Altri due film esemplari di questa poetica sono Wodaabe – I pastori del sole nel quale la ritualità di bellezza maschile dei Bororo è colta in primi piani e dilatazioni temporali che accentuano lo sfarzo dei colori, l’intensità della luce e l’esibizione dei volti bloccati nell’estasi allucinatoria di un interminabile sorriso e uno sguardo dagli occhi sbarrati; e il pittorico Cuore di vetro (37), sospeso in una dimensione temporale indefinita in un’inquietante atmosfera ipnotica, in cui gli attori, realmente ipnotizzati, vivono una situazione di smarrimento al tempo stesso onirica e reale, e che unisce ancora una volta realtà e finzione; le immagini delle nuvole e della cascata ipervelocizzate o rallentate catalizzano lo sguardo dello spettatore trainandolo in questa condizione ipnotica che la voce narrante e profetica del protagonista mantiene per tutto il film in questo rapimento dei sensi.

 

 

APERTURA DEL SET E DELLA SCENEGGIATURA
Tutto il cinema di Herzog, nel reciproco e contemporaneo dispiegarsi di film e realtà uno nell’altro in una commistione essenziale tra fiction e documentario, non può prescindere dalla determinata e rigorosa scelta autoriale del rifiuto degli studios a favore di set naturali e dalla conseguente possibilità di instaurare un rapporto vitale con il set in cui le suggestioni e l’imprevedibilità del reale possano arricchire la sceneggiatura e il soggetto iniziale.
Per poter accogliere le ricchezze, le diversità, le suggestioni, le anomalie, le bizzarrie, la forza e la vitalità del reale bisogna sempre, come insegna Jean Renoir, “lasciare una porta aperta sul set; perché non si sa mai, c’è sempre la possibilità che qualcuno possa entrare, e non lo si aspettava; e questo è il cinema” (38); poiché “il cinema è sì racconto, articolazione e organizzazione del materiale; ma è al contempo uno sguardo sulla singolarità irriducibile e inafferrabile delle cose.” (39)
Molti lavori herzoghiani nascono e si sviluppano proprio dalle impressioni e dalle fascinazioni che il regista scopre e riconosce su un set e da cui trae ispirazione per raccontare delle storie. I suoi film hanno origine spesso da un paesaggio, piuttosto che da un personaggio, per popolarsi poi di figure e di una trama; la relazione con l’ambiente è determinante per lo sviluppo della psicologia dei personaggi, giungendo non di rado ad una sorta di identificazione sensibile, che nel paesaggio primitivo e selvaggio della giungla, ricorrente nella sua produzione cinematografica, risulta particolarmente evocativo di questo sentire. Lo stesso Herzog testimonia apertamente questa corrispondenza: “La giungla ha a che fare con i nostri sogni, con le nostre più profonde emozioni, con i nostri incubi. Non è solo una location, è uno stato della nostra mente. Ha caratteristiche quasi umane. E’ una parte vitale del paesaggio interiore dei personaggi. La domanda che mi sono posto quando mi sono confrontato per la prima volta con la giungla è stata: Come posso usare questo ambiente per ritrarre paesaggi della mente.” (40)
Le sceneggiature herzoghiane rimangono così sempre aperte e disposte a numerosi cambiamenti in fieri derivanti dalla relazione con l’ambiente di cui il film si nutre; lontano dai set artificiali dei teatri di posa l’imprevisto è sempre dietro l’angolo e bisogna saperlo cogliere nella sua immediatezza e irripetibilità con la macchina da presa, o perlomeno accoglierlo nella sua capacità di ispirare nuove scene da girare. Sul set di Fitzcarraldo Herzog annota, sul diario che diventerà poi libro La conquista dell’inutile: “una raffica di vento mi ha strappato l’ombrello di mano e lo ha gettato nel fiume, dove è rimasto a galla con il manico rivolto verso l’alto. Quell’immagine mi ha colpito a tal punto che ho subito inserito una nuova scena nel copione.” (41)
L’intensità, la bellezza e la stranezza della vita suggeriscono sempre nuovi elementi al film in lavorazione, l’incursione della realtà permette nuovi sviluppi e offre nuove idee, immagini e situazioni che un set chiuso e una sceneggiatura vincolante invece ostacolano.
Molte meravigliose scene del cinema di Herzog si devono alla sopravvivenza del caso sul set e alla sua improvvisa irruzione come quella del piccolo scoiattolo sull’erba in Kalachakra – La ruota del tempo, la camminata del sordocieco fin quasi ad abbracciare l’albero nel finale de Il paese del silenzio e dell’oscurità e l’inattesa apparizione di un personaggio bizzarro che parla un linguaggio incomprensibile in Fata Morgana. A ulteriore dimostrazione della sorprendente ricchezza che la realtà crea e testimonia nel farsi del film sono anche le immagini delle volpi girate da Treadwell in Grizzly Man e la danza della farfalla attorno a Klaus Kinski che Herzog utilizza come immagine di chiusura del suo Kinski – Il mio nemico più caro.
I guerrieri Bolgatanga che compaiono sulla spiaggia in Cobra Verde non erano previsti nella sceneggiatura, ma l’incontro di Herzog con questi li porterà a inserirli nel film con i veri costumi e le armi della loro tribù, il loro comportamento e i loro movimenti assolutamente naturali.
Parafrasando il regista Nicolas Philibert, fare un film è un po’ programmare il caso, accogliere l’imprevisto in un quadro determinato (42). Una pratica creativa che lo stesso autore precisa distinguersi nettamente dall’improvvisazione, e su cui riesce persino a realizzare interi film come Fata Morgana e Il diamante bianco, le cui sceneggiature vengono continuamente ritracciate e adattate nell’evolversi di situazioni in cui reale e filmico si uniscono.

 

IL FOUND FOOTAGE
All’opposto di una poetica delle porte aperte sul set è la pratica del found footage, interamente realizzata in fase di montaggio, dunque in un luogo dove l’imprevedibilità del reale è praticamente nulla (seppur il girato d’epoca possa esserlo), ma dove è Herzog invece che riesce a re-inventare la realtà in maniera originale e talvolta imprevedibile utilizzando liberamente immagini altrui.
L’impiego di materiale preesistente assume però aspetti differenti a seconda dei film. Herzog ha più volte fatto ricorso a immagini di repertorio e d’archivio, mantenendo però anche nelle immagini più aderenti alla realtà, come in Bokassa – Echi da un regno oscuro, Little Dieter Needs to Fly e nel preambolo in bianco e nero sulla storia dei dirigibili ne Il diamante bianco, una costruzione filmica evocativa e non solo esplicativa.
Anche in Encounters at the End of the World il regista bavarese ricorre all’utilizzo di materiale d’archivio, sia nelle digressioni sull’esploratore inglese Ernest Shackelton, pioniere delle prime spedizioni verso il Polo Sud nel primo Novecento, sia nel confrontare le immagini del magma del vulcano Monte Erebus e degli esploratori che vi han rischiato la vita per realizzarle in un filmato di trent’anni prima con quelle riprese da un moderno obiettivo telescopico ultrasofisticato.
Completamente avvolte in una dimensione onirica e trasognata sono invece le immagini dei sogni narrati da Kaspar Hauser, e filmate in 16mm o in Super8 dal fratello del regista, e dei pipistrelli al rallenti nel prologo di Nosferatu – Il principe della notte, girate da un gruppo di biologi.
Negli ultimi anni la pratica del found footage si è fatta sempre più frequente, fino a costituire la base stessa per la costruzione di un film come è il caso di Grizzly Man, in cui le riprese di Herzog si alternano a quelle di Treadwell, selezionate tra ben novanta ore di girato, creando una sorta di film nel film, e de L’ignoto spazio profondo in cui le immagini assumono un significato differente nella finzione documentaristica del regista tedesco: gli astronauti della navicella spaziale STS-43 del 1989 diventano dei viaggiatori dello spazio destinati a tornare sulla Terra ormai priva di vita umana, mentre le riprese subacquee di Henry Kaiser nei mari artici si trasformano nell’atmosfera di elio liquido di un lontano pianeta di Andromeda.
Questa crescente tendenza a utilizzare materiale filmico preesistente scaturisce probabilmente dall’inquinamento visivo mediatico e ambientale e dalla conseguente rarefazione di luoghi non raggiunti dall’invadenza delle telecamere e dalla civilizzazione; da qui la necessità di ripensare le immagini, di darle una vita differente e trovare dei nuovi significati in ciò che già ci appartiene.

 

L’USO DELLE DIDASCALIE
Una prassi diffusa nella cinematografia herzoghiana è l’utilizzo di didascalie all’inizio o alla fine delle pellicole; la forma di queste frasi è quasi sempre aforistica e il loro tono, assertivo o interrogativo, è poetico e profetico. L’interesse del cineasta tedesco è quello di portare lo spettatore a una verità percettiva che, spesso unita all’aspetto tragico dell’esistenza, lo elevi al sublime, apparentandosi alle stupefacenti immagini evocative dei suoi film.
L’incipit di Apocalisse nel deserto “Al pari della creazione, anche la morte del sistema solare avverrà con maestoso splendore” è particolarmente indicativo di quest’aspetto della sua poetica non solo per il tono e l’argomento, ma anche per aver attribuito una sua frase al celebre filosofo Pascal per darle così maggior risalto, artificio che ripeterà alcuni anni dopo in Pilgrimage ascrivendo la sua citazione a Thomas à Kempis.
Al tema della Creazione e dell’Apocalisse è legata anche la citazione all’inizio di Fitzcarraldo sulle immagini indefinite di fitte nubi tra le cime verdi della foresta amazzonica, mentre Il Sermone di Huie termina con l’amara considerazione “Se l’uomo avesse avuto a che fare col sole, ora non sorgerebbe più” e La grande estasi dell’intagliatore Steiner si abbandona al sogno di una fine del tutto, nel quale “Io dovrei essere solo al mondo, io, Steiner e nessun’altra forma di vita. Niente sole, niente cultura, io nudo sopra un’alta roccia, senza tempeste, senza neve, senza banche, senza soldi, senza tempo e senza respiro. Allora di sicuro non avrei più paura”.
Cuore di vetro, immerso nell’immobilità quasi pittorica dei suoi personaggi, si conclude con un movimento della macchina da presa verso il cielo e la frase profetica “Vedono gli uccelli venire loro incontro dal mare e sperano in una nuova terra” riferita ad alcuni uomini che, dopo aver passato anni a scrutare il mare credendo che la terra sia piatta, decidono di affrontare un lungo viaggio in barca alla ricerca della verità.
Assai curiosa invece la didascalia conclusiva di Woyzeck, tratta dal testo originale di Büchner, sulle immagini dell’ultima scena con un mucchio di gente riunito intorno allo stagno dove è stato trovato il corpo della ragazza uccisa: “Un bel delitto, un delitto fatto bene. Proprio bello… Era molto che non ce ne capitava uno così”.
In Demoni e cristiani nel Nuovo Mondo, un anomalo uso herzoghiano delle didascalie punteggia tutto il film in maniera sinteticamente descrittiva ed esplicativa, sostituendosi alla consueta e affascinante voce fuori campo del regista, fatta eccezione per la frase interrogativa che ne dà l’avvio, “Se Gesù dovesse tornare, si mostrerebbe al Nuovo Mondo? Lo riconosceremmo?”.
Splendida è la frase con cui termina Wodaabe – I pastori del sole, straordinariamente rappresentativa sia dello stile di vita nomade degli stessi Wodaabe, sia del cinema senza confini del cineasta tedesco: “Il sole oltrepassa le frontiere senza essere raggiunto dalle frecce del nemico”. •

 

Enrico Saba

 

 


 

NOTE


(1) Slavoj Zizek, Pervert’s Guide to Cinema, dvd, regia di Sophie Fiennes, 2006.
 

(2) Bill Nichols, Introduzione al documentario, Il Castoro edizioni, Milano, 2006, p. 31
 

(3) Ibidem
 

(4) Francesco Cattaneo, La danza dei rondoni sul cuore del mito, Cineforum 456, luglio 2006, p. 19
 

(5) Grosoli Fabrizio, Reiter Elfi, Werner Herzog, Il Castoro edizioni, Milano, 1994, p. 109
 

(6) Riccardo Castellacci, L’insostenibile leggerezza, pubblicato su web il 18 giugno 2006, in www.drammaturgia.it, LINK

 

(7) Grazia Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Il Castoro edizioni, Milano, 2008, p. 36
 

(8) Ibidem
 

(9) Enrico Ghezzi, contenuto extra sul DVD italiano di Grizzly Man
 

(10) Grazia Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Il Castoro edizioni, Milano, 2008, p. 36
 

(11) Grazia Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Il Castoro edizioni, Milano, 2008, p. 165
 

(12) Grazia Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Il Castoro edizioni, Milano, 2008, p. 175
 

(13) Alessandro Izzi, Werner Herzog: Gesualdo, pubblicato su web il 28 marzo 2003, in Close-Up, LINK

 

(14) Grazia Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Il Castoro edizioni, Milano, 2008, p.163
 

(15) Tullio Di Francesco, L’ignoto spazio profondo, in Sedicinoni, LINK
 

(16) Grazia Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Il Castoro edizioni, Milano, 2008, p. 161
 

(17) Ibidem
 

(18) Ibidem
 

(19) Cristina Piccino, intervista a Werner Herzog , Il Manifesto, 27 settembre 2006
 

(20) Grazia Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Il Castoro edizioni, Milano, 2008, p. 66-67
 

(21) Pino Bertelli, Cinema e Anarchia – vol III, La Fiaccola, Ragusa, 1998, p.46
 

(22) David Bordwell, Kristin Thompson, Storia del cinema e dei film – vol. II, Il castoro, Milano, 1998, p. 432
 

(23) Grazia Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Il Castoro edizioni, Milano, 2008, p. 18
 

(24) Andrej Tarkovskji, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano, 1988, p.38
 

(25) Bruno Fornara, Book Werner Herzog. Natura, Cineforum 462, p.58
 

(26) Werner Herzog, Dichiarazione del Minnesota, LINK
 

(27) Francesco Cattaneo, Book Werner Herzog. L’amo della menzogna e la carpa della verità. L’estasi di Herzog al di là di fiction e documentario, Cineforum 462, p.53
 

(28) Andrej Tarkovskji, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano, 1988, p.26
 

(29) Werner Herzog, Herzog on Herzog, (a cura di Paul Cronin), Faber and Faber, Londra, 2002, p. 207
 

(30) Werner Herzog, Herzog on Herzog, (a cura di Paul Cronin), Faber and Faber, Londra, 2002, p. 241
 

(31) Werner Herzog, Dichiarazione del Minnesota, LINK

 

(32) Gianni Celati, Documentari imprevedibili come i sogni. Conversazione con Gianni Celati, a cura di Sarah Hill, in Zibaldoni e altre meraviglie – trimestrale on-line di racconti, studi, pensieri, stupori letterari, LINK

 

(33) Werner Herzog, La conquista dell’inutile, Oscar Mondadori, 2007, p.80
 

(34) Roland Barthes, Caro Antonioni, in Sul cinema, Il Melangolo, Genova, 1994, p.175
 

(35) Gianni Celati, Documentari imprevedibili come i sogni. Conversazione con Gianni Celati, a cura di Sarah Hill, in Zibaldoni e altre meraviglie – trimestrale on-line di racconti, studi, pensieri, stupori letterari, LINK
 

(36) Ibidem
 

(37) Cuore di vetro è il film di Herzog in cui sono più evidenti le sue suggestioni pittoriche; dall’uomo solo dinanzi all’infinta ed enigmatica bellezza della natura di Caspar David Friedrich, palesemente e notevolmente citato attraverso la figura di Hias, ai personaggi e ai colori dei pittori fiamminghi e nordeuropei, tra i quali indubbiamente Pieter Breugel, la cui assonanza è esplicitata nella figura del suonatore di ghironda all’osteria nel film di Herzog e nel musicista in primo piano nel dipinto Danza di contadini.
 

(38) Francesco Cattaneo, Book Werner Herzog. L’amo della menzogna e la carpa della verità. L’estasi di Herzog al di là di fiction e documentario, Cineforum 462, p.49
 

(39) Ibidem
 

(40) Francesco Cattaneo, Book Werner Herzog. L’amo della menzogna e la carpa della verità. L’estasi di Herzog al di là di fiction e documentario, Cineforum 462, p.53
 

(41) Werner Herzog, La conquista dell’inutile, Oscar Mondadori, 2007, p.79
 

(42) Jean Breschand, Programmare il caso, in Il documentario. L’altra faccia del cinema, Lindau, Torino, 2005, p. 71

 


 

 

 

WERNER HERZOG

filmografia di riferimento

 

• My Son, My Son, What Have Ye Done (2009) • La bohème (2009) • Il cattivo tenente – Ultima chiamata New Orleans (The Bad Lieutenant: Port of Call – New Orleans, 2009) • Encounters at the End of the World (2007) • L’alba della libertà (Rescue Dawn, 2006) • Grizzly Man (2005) • L’ignoto spazio profondo (The Wild Blue Yonder, 2005) • Il diamante bianco (The White Diamond, 2004) • Kalachakra, la ruota del tempo (Wheel of Time, 2003) • Ten Thousand Years Older (2002) – episodio del film Ten Minutes Older: The Trumpet • Invincible (2001) • Demoni e cristiani nel Nuovo Mondo (Christ and Demons in New Spain, 2000) • Kinski, il mio nemico più caro (Mein liebster Feind – Klaus Kinski, 1999) • Il piccolo Dieter vuole volare (Little Dieter Needs to Fly, 1997) • Carlo Gesualdo – Morte per cinque voci (Tod für fünf Stimmen, 1995) • Rintocchi dal profondo (Glocken aus der Tiefe, 1993) • Apocalisse nel deserto (Lektionen in Finsternis, 1992) • Grido di pietra (Cerro Torre: Schrei aus Stein, 1991) • Echi da un regno oscuro (Echos aus einem düstern Reich, 1990) • Wodaabe – I pastori del sole (Wodaabe – Die Hirten der Sonne) (1989) • Cobra Verde (1987) • La ballata del piccolo soldato (Ballade vom kleinen Soldaten) (1984) • Dove sognano le formiche verdi (Wo die grünen Ameisen träumen, 1984) • Gasherbrum – La montagna lucente (Gasherbrum – Der leuchtende Berg, 1984) • Fitzcarraldo (1982) • La predica di Huie (Huies Predigt, 1980) • Fede e denaro (Glaube und Währung/God’s Angry Man, 1980) • Woyzeck (1979) • Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu: Phantom der Nacht, 1978) • La ballata di Stroszek (Stroszek, 1977) • La Soufriere (1977) • How Much Wood Would a Woodchuck chuck (1976) • Cuore di vetro (Herz aus Glas, 1976) • La grande estasi dell’intagliatore Steiner (Die Große Ekstase des Bildschnitzers Steiner, 1974) • L’enigma di Kaspar Hauser (Jeder für sich und Gott gegen alle, 1974) • Aguirre – Furore di Dio (Aguirre, der Zorn Gottes, 1972) • Paese del silenzio e dell’oscurità (Land des Schweigens und der Dunkelheit, 1971) • Anche i nani hanno cominciato da piccoli (Auch Zwerge haben klein angefangen, 1970) • Fata Morgana (1970) •

I medici volanti dell’Africa orientale (Die fliegenden Ärzte von Ostafrika, 1969) • Segni di Vita (Lebenszeichen, 1968) • Ultime parole (Letzte Worte, 1968)

 



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