Salesman > Albert e David Maysles

Il presente articolo è stato pubblicato su Rapporto Confidenziale, numero30 (dic/gen 2011), pagg. 56-65

SALESMAN,
IL RITRATTO DEL’ANTI-EROE AMERICANO

1. In cerca di un soggetto

Nel 1966, appena dopo aver girato With Love from Truman, i fratelli Maysles sentirono che era arrivato il momento di iniziare la produzione di quello che sarebbe stato il loro primo lungometraggio. Vagliarono e scartarono diverse idee e soggetti, rinunciando a un’avventurosa spedizione con i balenieri delle isole Falkland e a un documentario sulle testuggini delle Galapagos, quest’ultimo proposto da Truman Capote.
La coppia di fratelli sognava un film on the road e al tempo stesso, di profonda pregnanza umana. David, nel concepirlo, pensava al trasporto drammatico di Furore, di John Stainbeck e al dramma teatrale di Eugene O’ Neale, The Icemath Cometh. Quest’ultimo racconta il percorso interiore di un commesso viaggiatore che, da una vita dissoluta e sconsiderata, cerca di redimere i suoi compagni di bevute, per poi confessare l’omicidio di sua moglie. David aveva già lavorato alla pre-produzione di un corto su di un venditore di enciclopedie, ma l’idea non aveva i requisiti per un film di lunga durata. Il punto di svolta arrivò quando egli incontrò un vecchio compagno di liceo, ebreo, ma curiosamente impiegato nella vendita porta-a-porta di Bibbie. David aveva trovato lo spunto per un soggetto interessante: passò i successivi cinque mesi a cercare un venditore di articoli religiosi con delle caratteristiche che lo soddisfacessero. Alla fine ne trovò quattro, i protagonisti di Salesman.
Dall’archivio di produzione sono stati pubblicati, in A Maysles Scrapbook (1), alcuni documenti illuminanti, che contengono i criteri selettivi per i protagonisti.
Da una lettera indirizzata alla South Western Company, di Nashville, Tennessee:

Vogliamo produrre un film su un venditore porta-a-porta che rientri nella seguente descrizione dello “Yankee drummer”: un eccellente, esperto venditore a tempo pieno, che eserciti in un’area rurale degli Stati Uniti e che stia fuori casa almeno qualche giorno per volta. Gli stati dell’area del New England sarebbero preferiti, ma non strettamente necessari.”

Il regista incluse nelle lettere un decalogo di caratteristiche che dovevano essere soddisfatte: la prima pretendeva che il soggetto vendesse Bibbie per la famiglia (“bibbie illustrate, da 40-50 dollari”) e non soltanto pubblicazioni cattoliche. Un altro punto richiedeva consumatori “dal tipico aspetto Americano” e non appartenenti alla Bible Belt o redneck folkloristici. La prerogativa principale, però, prevedeva che il venditore fosse

“un tipo piacevole, qualcuno che puoi guardare per oltre un’ora; al massimo solo moderatamente di successo nel suo lavoro. Deve avere una certa profondità d’animo ed essere in qualche modo consapevole di ciò che gli accade tutt’attorno.”

La lettera concludeva dicendo:

“Questa è una storia drammatica di interesse umano (con gli stessi criteri di un film di fiction) e in nessun modo un ‘film d’informazione’ o un reportage d’inchiesta.”

I Maysles si sentivano personalmente coinvolti in questo progetto poiché la vicenda era in qualche modo parallela a quella del padre, Philip Maysles, morto nel 1945. Una vita passata a lavorare come unico impiegato postale ebreo di una cittadina a maggioranza irlandese, aveva abbandonato da anni i suoi sogni da musicista (2). I fratelli avevano inoltre svolto l’attività di venditore porta a porta per pagarsi gli studi universitari. Ad Albert e David piaceva bussare di casa in casa e incontrare sconosciuti, ma erano diventati molto critici del sistema di vendita, che sfruttava la fiducia delle persone a scopi opportunistici. L’esperienza fu molto significativa, soprattutto per il fratello maggiore, che la paragonò alla carriera di documentarista:

“Bussi alla porta e se non ottieni subito fiducia, non puoi entrare in quella casa. Anche l’intero processo di produzione di film ‘spontanei’, è così. Non si basa sulla ricerca e sulla preparazione. Si basa sull’impressione che dai, sulla fiducia, e coinvolge un enorme fattore di rischio – di ogni tipo. Dipende tutto dall’abbattere subito le barriere tra sconosciuti”. (3)”

2. ‘Salesman’ (1968)

2.1 Il tasso, il toro, l’imbroglione e il coniglio

Il documentario segue le vicende di quattro venditori di Bibbie nella loro routine lavorativa, che si svolge tra Boston e Miami. Ognuno di essi è personaggio, con carattere, nome e tecniche di vendita differenti. C’è Charles McDevitt, “l’imbroglione” (“The Gipper”), spietato e senza emozioni, i cui modi sono “molto efficaci” perché “sa approfittare di ogni circostanza per ottenere vantaggi”; James Baker, “il coniglio” (“The Rabbit”), giovane, ma “molto impulsivo”, vende, fa buoni guadagni, ma è privo di tatto; Raymond Martos, “il toro” (“The Bull”), che si distingue per forza e determinazione. Infine, abbiamo Paul Brennan, “il tasso” (The Badger”), di fiera discendenza irlandese, costretto in un lavoro che disprezza, soltanto per mantenere una moglie lontana e un figlio malato. La sua è una situazione segnata dall’instabilità economica e dal sacrificio di trovarsi molto spesso lontano dalla propria famiglia. Non ha seguito lo stereotipo irlandese che lo avrebbe visto nel corpo di polizia o all’ufficio postale, benché la madre lo avesse sempre sollecitato a “unirsi all’arma e guadagnarsi una pensione (4)”. Egli è anche, tra i quattro, il meno di successo e il più pessimista.
Paul domina il film in qualità di protagonista. Il lungometraggio si apre e si chiude sulla sua espressione disillusa, assorta. Lo vediamo in entrambi i casi sconfitto e abbattuto dalla ripetitività del lavoro e dal ritmo fluttuante degli affari. Capita che altri, oltre al “tasso”, non riescano a concludere un ordine, ma altre vendite consentono di coprire i possibili fallimenti. Paul, invece, non conclude nemmeno un affare di successo: ottiene solo prenotazioni. E’ questo che lo differenzia dagli altri: la sua sentita inadeguatezza non gli permette il pelo sullo stomaco che hanno gli altri nella persuasione e nella vendita di Bibbie. I complessi di inferiorità di cui lui stesso ci racconta, hanno origine dal rapporto col fratello – laureato presso il Massachusetts Institute of Technology con un magna cum laude – che egli ha cercato di seguire nei passi, senza alcun successo.
L’evoluzione del personaggio, ad un livello diverso da quello a cui siamo abituati a pensare in una struttura narrativa, avviene in senso negativo. Benché Paul rimanga, a livello comportamentale, sempre lo stesso, i suoi atteggiamenti assumono una nota più pessimistica verso la fine della vicenda, quando al venditore sono già state sbattute molte porte in faccia. La pressione che si sente addosso, oltre al bisogno di guadagnare uno stipendio, è personificata in Ken Turner, manager della compagnia, che lo accompagna nel viaggio a Miami. Egli assume significato soltanto durante un assemblea in New England, in cui tiene un discorso duro e motivazionale contro chi perde tempo e soprattutto contro chi non ha la giusta attitudine. Come il Dr. Peale di Grey Gardens (5), egli afferma che non c’è giustificazione al fallimento di un uomo: la responsabilità è tutta sua. Così, le disavventure in Florida di Paul, a cui si ferma l’automobile per ben due volte e che viene silurato su due piedi da casalinghe che nemmeno lo fanno accomodare, diventano “tutte scuse”, i frutti marci del un pensiero negativo. Come se non bastasse, la coesione di gruppo viene a mancare, poiché da norma, l’amicizia che sembra unirli è soltanto cordialità all’interno di una coatta situazione di convivenza. L’approccio al cliente, da parte di Paul, si fa sempre più aggressivo e spiacevole. Il suo obiettivo è essere determinato come “il toro” e furbo come “l’imbroglione”, ma la notevole frustrazione lo porta ad atteggiamenti sempre più insistenti, ad esprimere la mancata svendita con scocciatura e scortesia.
I Maysles videro molto in lui. “Come mio padre, è un uomo con una vera anima, ma non ha mai trovato il modo di metterla dentro al suo lavoro.” afferma Albert, mentre David è convinto che sia proprio questa profondità ciò che rende Paul così di poco successo: per sopravvivere, nel vendere beni superflui come una Bibbia illustrata, a famiglie cattoliche di basso reddito, non ci si può comportare con calore e umanità, bensì è necessario avere una certa dose di pelo sullo stomaco, per agire e approfittarne (6).

2.2 ‘Il lavoro del Padre Celeste’

Il film, benché, nella tradizione del Direct Cinema, voglia essere privo di un punto di vista, può essere letto alla stregua di un’importante critica alla società del consumismo e del materialismo. La religione diventa un prodotto di massa, pronto per essere commercializzato a diverse varianti di composizione, prezzo e addirittura colore. I venditori sono sollecitati a non fallire un colpo perché “i soldi sono fuori”, bisogna andarne a caccia; allo stesso tempo, essi vengono responsabilizzati del ruolo di missionari cattolici, che conducono “il lavoro del Padre Celeste” e per questo invitati a pensarsi, agli occhi del mondo, in una più alta posizione in termini di stima e orgoglio personali. L’invocazione è pronunciata dal designer e consulente teologico della Mid-American Bible Company, Dr. Melbourne I. Feltman, in occasione del meeting aziendale di Chicago. In un discorso tanto contraddittorio quanto paradossale, il Dottor Feltman nega che si possano scorgere i segni dell’opera religiosa nel vendere Bibbie per poche decine di dollari, ma afferma che tuttavia, tutto ciò che abbia a che fare con il distribuire, comprare e leggere il Libro Sacro, sia da identificare nel diffondere la parola del Signore.
Il grottesco della scena è accentuato dalle sequenze che la precedono. Solo poco prima, ancora in un motel nel New England, Brennan aveva confidato a Martos (e alla cinepresa) che non vedeva che affari criminosi, nell’attività che svolgevano. La successiva, rompendo gli schemi del Direct Cinema, ci offre un montaggio di Brennan assorto nei suoi pensieri sul treno per Chicago, giustapposto a scene riprese al precedente meeting della società, in cui i nuovi membri della forza lavoro rilanciano la posta in gioco, promettendo entrate di decine di migliaia di dollari all’anno. Dal viso desolato, sconfitto e già segnato dalla vecchiaia di Paul il film taglia a giovani appena arrivati alla compagnia. Il flashback del meeting diventa flashback metaforico della vita di Paul ed è come se lo vedessimo giovane e ancora pieno di speranze: “Mia moglie mi ha appena convinto a comprare una casa più grande. E vuole avere ancora qualche bambino e tutte sciocchezze simili…Così…Farò 35 000 dollari quest’anno.” dice uno. Egli incarna il paradigma della classe medio-bassa americana: lavoro, mutuo, figli. Come commenta McElhaney, deve lavorare più duro per sostenere una situazione finanziaria già scoperta (7).
Nell’attività di vendita di cui diventiamo osservatori, la maggioranza di dubbi o rifiuti all’acquisto dipende dal prezzo, benché in media esso si aggiri attorno ai cinquanta dollari e possa venire pagato in più soluzioni rateali. Spesso assistiamo a una sconfitta da parte del venditore, ma nel caso della scena che vede protagonista una coppia dei dintorni di Miami, vediamo McDevitt mettere in pratica il significato del suo nickname. La spiegazione illustrativa trova un’interlocutrice nella giovane moglie, che, visibilmente interessata al prodotto, è costretta ad indietreggiare (senza tuttavia rifiutare esplicitamente) perché a fronte di una richiesta di anticipo di sei dollari, non può disporre di liquidità immediata. Nel mentre, pressoché silenzioso, il giovane marito sorride imbarazzato, interrompendo la moglie soltanto per argomentare ulteriormente la situazione economica domestica. Lascia alla moglie il ruolo di responsabile degli acquisti e dell’educazione dei figli (di cui la Bibbia è bibliografia fondamentale), ma è evidente che sarà lui ad avere l’ultima parola. Quando quest’ultimo le dice che l’acquisto dipende da lei, lei risponde con un lamento sommesso: “No, non sono io che decido”. La giovane donna ha negato disponibilità di anticipo immediato, ha escluso la possibilità di versare assegni e ha prospettato che i primi soldi arriveranno nel fine settimana, con lo stipendio del marito. McDevitt, aiutato dal “coniglio” Baker, si fa sempre più insistente e arriva addirittura a proporre di chiedere un prestito ai vicini. Al rifiuto della donna, “l’imbroglione”, con un abile gioco di parole, fa credere alla donna che un loro associato, Paul Brennan (“Probabilmente avete letto di lui sulla stampa Cattolica”) anticiperà i soldi “non perché è un fanatico, ma perché è un devoto Cattolico e ci tiene che ogni famiglia Cattolica abbia una Bibbia come questa in casa”.
Pochi minuti dopo, assistiamo a un rassegnato Paul (“The Gipper mi ha fregato ancora!” ride divertito) che bussa alla stessa casa per richiedere il rimborso dell’anticipo, millantando di essere il manager distrettuale della compagnia, che dovrà multare il venditore McDevitt, se la donna non rispetterà il pagamento (poco importa se questa, avendo capito che non ci fosse impegno, ha cambiato idea e ha promesso al marito che non avrebbe proceduto).
L’aggressività e la disonestà che mettono in atto concludendo gli ordini, è resa più stridente dal fatto che i prodotti in commercio siano proprio gli insegnamenti della dottrina Cattolica.
I Maysles avevano pensato, da quanto si legge nelle note di produzione di Junker, di aggiungere un’appendice al film, dedicata all’illustrazione delle tecniche di vendita.
David spiega che un film è come un viaggio: “Siamo interessati al processo di scoperta. Cerchiamo cose di cui prima non avevamo la minima idea.” E, a ragione del processo di ricerca dei personaggi spiega che, dall’altro lato, devono premunirsi di un minimo di conoscenza sul tema. “Per aumentare la tua sicurezza, devi sapere che esistono alcune cose che potrai riprendere. E’ come prepararsi ad improvvisare. Non vuoi fare delle prove, ma non vuoi nemmeno cadere a faccia in giù (8)”.
Ad ogni modo, l’idea fu scartata perché non era compatibile con le scelte di montaggio prese. Ci sono tuttavia rimaste le annotazioni dei registi, che sintetizzano, dall’osservazione dei protagonisti, una serie di punti che vanno dalla scelta dell’area al “corteggiamento”, dal post-acquisto (condito di complimenti e apprezzamenti alla casa per evitare il rimorso del cliente), al “Postmortem [sic]”, ossia il ritorno alla “base” per telefonare alla moglie.

2.3 La comunicazione persuasiva in ‘Salesman’

L’America di Salesman è corrispondente alla realtà di una nazione multietnica e multiculturale, i cui abitanti sono ancora immigrati di seconda generazione che conservano importanti radici con la terra natia e la cui “americanità” è sancita dalla civile convivenza con etnie e culture diverse. I protagonisti, di heritage irlandese, spesso giudicano le loro relazioni con i clienti e il tipo di affare che ne verrà a termine sulla base delle loro differenze culturali.
Così, l’essere Cattolico diventa prerogativa solo degli Italiani, degli Irlandesi e dei Polacchi e il gioco di Brennan (ma anche di Baker) consiste nell’indovinare la discendenza dei consumatori, per approfittare della fratellanza culturale e religiosa. Con la signora O’Connor, a Miami, compie l’errore di scambiarla per Irlandese, quando in realtà è Polacca: si corregge subito, aggiungendo “i Polacchi sono certamente brave persone”. Ma la realtà è che sono tutti “brave persone”, “persone oneste e sincere”, “simpatiche”, fin quando la conversazione, disinteressata e a scopo informativo, nasconde fini persuasivi e commerciali. All’esterno delle case, nei motel, gli stessi venditori scherzano con triste sarcasmo sul proprio heritage irlandese e non vogliono più mangiare “fottuto cibo italiano, dopo questi Guinea (9)”.
Il linguaggio e i modelli comunicativi messi in pratica all’interno delle case, sono dunque standard e collaudati durante esercitazioni pratiche. In una scena, Turner mostra le sue capacità dialettiche interpretando il venditore, mentre Baker e McDevitt giocano a fare i clienti, in una situazione ridicolmente influenzata dallo status autoritario del manager.
L’efficacia di questa comunicazione persuasiva, però, non prevede una situazione come quella in cui viene a trovarsi “il coniglio”, con Mrs. Pages, immigrata cubana che non parla e non capisce ancora bene l’inglese. Baker cerca di spiegarle, con mille difficoltà, che la linea di prodotti che sta vendendo risulterà di grande valore in quella casa e che inoltre, dopo due anni, la versione nuova, rivista e corretta del messale è finalmente pronta all’ordine. Si potrebbe pensare che la comunicazione venga invalidata a partire dalla mancanza di competenze linguistiche della ricevente. Dobbiamo invece ricrederci, ascoltando il venditore che, benché conscio della situazione (“Ecco perché sto cercando di parlarle molto lentamente”), non si pone il minimo dubbio che il suo accento irlandese possa fuorviare la comprensione delle parole. Egli spende un minuto intero nel ripetere la parola “orders” (ordini, in italiano), pronunciandola “ahdhas”, nella speranza che lei capisca. Malgrado ciò non succeda, Baker mantiene, nella sua performance, l’entusiasmo di comunicare che il messale contiene “tutte le novità ecumeniche” (10). Questa eccitazione, non giustificata, prova che si tratta di recitazione, di teatralità.
Non c’è pericolo che i protagonisti non siano sinceri davanti alla cinepresa: di tutto potremmo dubitare, ma non dell’autenticità che dimostrano proprio quando autentici non dovrebbero essere. Essi sembrano talmente assorti nella propria attività e nel perseguimento del proprio obiettivo, che sembra valere quello che Drew aveva constatato riprendendo Eddie Sachs, durante la sua preparazione alla gara (Eddie, 1961): la cinepresa sparisce.
Non è un caso che l’unico che abbia ammesso di essere stato influenzato dalla presenza della camera sia Brennan. La sua disposizione d’animo, infatti, non gli permette di essere altrettanto efficace: questo è dimostrato dalle sue tecniche comunicative che cercano spesso un approccio personale, più caldo (warm pitch (11)). E’ infatti in occasione di una commissione presso l’abitazione di un’anziana signora che apprendiamo dei suoi complessi di inferiorità nei confronti del fratello ed è mentre egli conclude un affare con una coppia che veniamo a conoscenza della sua discendenza inglese da parte materna e delle botte che ha da lei ricevuto durante la sua infanzia. I suoi colloqui prendono la forma di monologhi personali, nella convinzione che i suoi clienti vi si identifichino e siano spinti a fidarsi. Tuttavia, la frustrazione che il personaggio si porta addosso, li fa suonare patetici ed inappropriati.
La comunicazione persuasiva, nei manuali di psicologia, viene analizzata secondo diversi modelli che ne individuano le modalità, a seconda di fattori quali il grado di coinvolgimento e l’abilità cognitiva del ricevente (12). Trovo di particolare efficacia la spiegazione dei modelli duali, i quali “sono accomunati dal fatto di prevedere che il cambiamento degli atteggiamenti possa essere l’esito di due processi di natura diversa”. Tra questi, il modello della probabilità di elaborazione (ELM), di Petty e Cacioppo prevede che il ricevente possa attuare due possibili processi cognitivi nel ricevere un messaggio persuasivo: il percorso centrale e il percorso periferico. Il primo viene messo in pratica attraverso una certa quantità di risorse cognitive e richiede “focalizzazione dell’attenzione, comprensione delle argomentazioni presentate, confronto e integrazione fra le informazioni e le credenze […], valutazione”. E’ inoltre necessario che il soggetto abbia le competenze necessarie al processo di valutazione, che il messaggio sia comprensibile e che non sia presentato in un contesto di distrazione o in cui siano presenti rumori di fondo. La persuasione agisce attraverso canali prevalentemente cognitivi e prevedibili. Il percorso periferico, invece, “è basato su elementi che non hanno a che vedere con le argomentazioni utilizzare per sostenere una data posizione, quanto piuttosto con il modo in cui esse sono presentate.” Ciò significa che la persuasione passa non attraverso indici di contenuto, bensì grazie a valori quali la gradevolezza della fonte, l’aspetto formale del messaggio e le associazioni sensoriali positive come la musica e i colori.
Nell’attività persuasiva dei nostri quattro venditori irlandesi, il percorso privilegiato è il secondo, quello periferico. Grande attenzione è data infatti alla confezione della Bibbia e dell’Enciclopedia Cattolica, presentate come incredibili “oper[e] d’arte”, fornite di riproduzioni artistiche di quadri religiosi e disponibili in una gamma di colori a scelta.

2.4 ‘The bum in the territory’: l’America delle periferie in ‘Salesman’

Le argomentazioni logiche sono presenti solitamente all’inizio del discorso di vendita e si concentrano sul valore educativo che il testo potrà avere per l’intera famiglia. Hanno, però, poco piglio sui clienti, che, intercettati in occasioni di funzioni religiose, possiedono già Bibbie, enciclopedie e messali. Inoltre, il bacino di mercato cattolico a cui attingono, è quello delle aree suburbane delle grandi città di Boston e Miami. Per quanto riguarda il profilo socioeconomico che possiamo dedurre, le priorità delle famiglie consisteranno nella soddisfazione di bisogni primari come il mero sostentamento alimentare e la sicurezza del tetto e dei servizi complementari quali luce e gas. Brennan non riesce a farsi ragione dei numerosi mancati acquisti, alla proposta di una soluzione rateale da un dollaro al mese. I clienti, però, gli rispondono che vi sono già altre rate da pagare e che un dollaro sarebbe soltanto una spesa in più.
Siamo in un’America leggermente diversa da ciò che conosciamo di quella degli anni Sessanta. L’”epoca d’oro” (13) del consumismo vide nella loro prima metà il suo splendore. Il paese assistette al picco dei consumi nel 1964, a dispetto del clima di tensione che l’assassinio del presidente Kennedy aveva causato e del clima da guerra fredda in cui si era ripiombati dopo l’estromissione di Cruscev dal potere, nell’Unione Sovietica. La spinta al consumo fu dettata dalle grandi quantità di merci che furono distribuite in nuovi e più grandi centri commerciali chiamati mall. L’automobile diventò da status symbol di pochi a bene indispensabile per la vita lavorativa. La pubblicità aveva invaso le reti televisive e il lifestyle americano fu esportato, attraverso cinema e musica, in Europa.
Come il consumismo raggiunse l’apice del suo successo, l’amministrazione americana, ora nelle mani del presidente Lyndon B. Johnson, incominciò a preoccuparsi della fascia di popolazione meno abbiente, che, benché stesse registrando una contrazione dalla fine degli anni Cinquanta, rappresentava ancora il 19% degli americani. Egli lanciò la War on Poverty, sempre nel 1964, che istituì grandi campagne di supporto economico, sociale e medico, e permise l’accesso all’istruzione alle famiglie con basso reddito.
Il prodotto era “l’eroe” delle casalinghe. Esso doveva soltanto svolgere la propria funzione e nulla di più: il valore della marca si limitava ad essere nominale e oggettivo: doveva far risparmiare tempo al supermercato. Questa non era ancora connotata da particolari associazioni semantiche, ma, già grande presenza nella pubblicità, venne inserita come sponsor nelle prime soap opera. Il marketing stava lentamente passando dall’approccio alla vendita (ossia dal promuovere ciò che è prodotto), all’ascolto del mercato (ossia individuare i segmenti di interesse e svolgere un attività di ascolto antecedente alla produzione) (14).
Brennan, per qualche strana ragione, sembra venire in contatto solo con lo strato povero di popolazione. Nella primissima scena all’inizio del film, la casalinga che l’accoglie, sebbene abbia un salotto curato e un pianoforte, sostiene di non poter comprare il bene, poiché “travolti dalle spese mediche”. Lo stesso venditore sta lavorando per mantenere “una moglie e un figlio malato”, ma non si riconosce nel profilo delle persone a cui cerca di vendere i libri: “Non posso permettermi niente. Non abbiamo i soldi. Il mio bambino è malato. Mia moglie è fuori. Mio marito non c’è”, si lamenta, imitando i suoi clienti, pensando che siano tutte scuse. Un suo collega gli rinfaccerà che “non è marcio il territorio, è il marcio che c’è nel territorio” (“It’s not the bum territory, it’s the bum in the territory”), che va saputo evitare. Tuttavia, dal New England a Miami egli riscontra sempre le stesse condizioni di vita e gli stessi ostacoli alla vendita. E’ un viaggio che diventa percorso di rivelazione, come abbiamo già visto. Brennan è sempre più frustrato e disilluso dal suo lavoro e benché si renda conto che non sia l’attività più onesta del mondo e benché sia visibile la sua empatia nei confronti di queste famiglie, sembra far fatica a capire che un dollaro in più per sé corrisponde a un dollaro in meno per una giovane coppia con figli e in difficoltà.

2.5 La casa: un microcosmo femminile

Il cinema dei Maysles propone, in ogni film, un conflitto tra diversi contesti culturali. E’ così per le prime produzioni in proprio, in cui si consuma una sottile guerra tra l’espressione artistica e l’industria cinematografica e discografica di Hollywood; lo stesso avviene per Gimme Shelter, che testimonia la lotta della controcultura contro l’estabilishment; in Grey Gardens, in cui due donne poco convenzionali mettono in difficoltà l’aristocrazia americana dalla quale provengono; e sarà un conflitto tra le forze della Natura e dell’Arte, quello contenuto nei film dedicati a Christo e Jeanne-Claude. In Salesman, come abbiamo già analizzato, il paradosso avviene dall’incontro di religione e business, di relazioni pure inficiate dalla comunicazione persuasiva. Oltre a questo, McElhaney rinviene nel film un altro forte contrasto (15): quello del mondo maschile che irrompe in uno spazio “intimo” femminile. L’analisi sembrerà tirata per i capelli, ma a tutti gli effetti le casalinghe e loro stanze di soggiorno, sono i co-protagonisti del documentario. “Le porte sono uno dei motivi primari del film” (16) e il non varcare la soglia è un grande motivo di frustrazione. L’ingresso nella casa diventa quasi una metafora sessuale, se pensiamo alla contrattazione di vendita come al “corteggiamento”, come lo descrivono i registi nella schematizzazione a punti di cui ho già parlato. Le donne accolgono venditori e cinepresa nello spazio che esse dominano e in cui si sentono sicure di poter essere riprese con bigodini in testa e ciabatte ai piedi. L’approccio di vendita è loro diretto anche quando i mariti sono presenti. Questi ultimi, benché principale fonte di reddito familiare, non hanno il ruolo di decisori all’acquisto, e se ne stanno dunque in disparte ad osservare, senza interferire con il processo. In una scena verso il finale, Martos è accolto da una ben disposta signora e con lei porta a successo un ordine, mentre il marito, ancora indosso scarpe e pantaloni da lavoro, ma che si è disfatto della camicia e siede sulla poltrona in canottiera, si preoccupa solo di suonare un disco dei Beatles. McElhaney crede che questo comportamento denoti l’unica espressione della cattiva disposizione dell’uomo all’acquisto della moglie, dal momento che la musica suona assordante ed egli stesso si preoccupa solo formalmente se essa intralci i dettagli della vendita (17). I limiti dell’“occhio” della cinepresa non possono né confermare né smentire questo particolare, tuttavia la scena deve essere considerata importante, poiché mostra come i traguardi tecnologici e metodologici del Direct Cinema svelino con efficacia la realtà del quotidiano.
Per introdursi assieme ai protagonisti nel quotidiano di queste persone, i filmmakers spiegavano ai proprietari di casa che stavano filmando “una storia d’interesse umano, su questo signore e i suoi tre colleghi”. Non usarono mai la parola “vendere” o “venditori”. Solitamente l’approccio andava a buon fine: le persone erano affascinate proprio dal fatto che la storia avesse carattere umano, e dopo la presentazione di vendita, essi venivano invitati a firmare una liberatoria che veniva presentata in forma di petizione (così che, viste altre firme e altri nomi, fossero spinti a farlo più volentieri (18)). E’ interessante come questo piccolo trucco persuasivo sia molto simile a quelli dei venditori stessi, che, per esempio, sapevano di avere più chance di entrare in casa di qualcuno se prima di presentarsi avessero strofinato i piedi sul tappetino e, toltisi il cappello, annuito con la testa.
La casa è spazio intimo femminile anche in ragione del fatto che i protagonisti maschili nel film soggiornano esclusivamente nei motel. Attraverso la cinepresa, siamo autorizzati ad entrarvi e a scoprire stralci di vita comune che rassomigliano all’esperienza cameratesca, con Turner nel ruolo del severo sergente e Brennan che addirittura possiede il physique du role della recluta inesperta.
Queste brevi scene e qualche telefonata alle mogli sono gli unici momenti di vita privata di cui abbiamo testimonianza del film che furono filmati. “Abbiamo ripreso un sacco di partite di poker”, dice Albert, “[…] Se anche avessero abbordato una prostituta o qualcosa di simile, inoltre, probabilmente non avrei voluto filmarlo” (19). David aggiunge che è proprio questa la chiave per fare un bel film: avere una relazione solida e spontanea con i soggetti. Il rispetto reciproco è essenziale nel caso di un film in cui i protagonisti lavorano dieci, dodici ore al giorno e la crew, loro ombra, continua a girare oltre l’orario di lavoro, per cogliere attimi extracurricolari. “Ed erano stupiti di come qualcuno potesse investire così tanti soldi per fare un film su di loro. Non potevano immaginare il risultato finale e se sarebbe mai stato proiettato o chi ne avrebbe mostrato interesse.” (20) I filmmaker rimasero amici dei quattro venditori. Brennan invitò i fratelli al matrimonio della figlia, dove essi portarono la cinepresa e filmarono altro materiale, che non riuscì, per ragioni di coerenza narrativa, ad entrare nel taglio definitivo del film.

2.6 L’opera di montaggio e le deroghe alla filosofia del Direct Cinema

Se le riprese durarono sei settimane, il lavoro di montaggio finì dopo ben quindici mesi. Appena finito di girare, i fratelli chiesero a una montatrice free-lance di New York, che aveva già lavorato a Meet Marlon Brando, di selezionare il materiale e ricavarci una storia. Quella donna era Charlotte Zwerin e sarebbe diventata una stretta collaboratrice dei Maysles per molti anni a venire.
Il montaggio venne supervisionato da David, mentre presero parte in qualità di collaboratrici e assistenti Ellen Giffard e Barbara Jarvis. I primi cinque mesi servirono a ridurre trenta ore di pellicola in un’ora e mezza. “Non funzionava per niente”, ricorda Charlotte. Lei e David avevano iniziato a strutturare il film come se fosse la storia dei quattro venditori. Ciò richiese molto tempo e questi si accorsero di non avere materiale a sufficienza per lo sviluppo “narrativo” di ciascuno dei quattro. “Fu un disastro totale. Quindi fu un lavoro di rifinizione, rifinizione e rifinizione, finché non iniziò a funzionare.” Gradualmente iniziarono a capire che la storia riguardava principalmente Paul e la creazione di un punto di vista sul suo mestiere.(21) Junker rinviene in una bozza di David la prima trascrizione di come sarebbe stato il lungometraggio. Invero un montaggio molto cronologico, tuttavia intrinsecamente metaforico:

1. Boston, inverno, territorio cattivo
2. Il meeting vendite, filosofie grandiose, grosse predizioni
3. Florida, il sole, l’El Dorado, e alla fine la disperazione (22)

Ciò che supportò la logica di questa struttura fu l’evidenza che Paul era un personaggio diverso dagli altri, dotato di un’anima più calda e del desiderio, comune a quello dei registi, di conoscere le persone e raccontare delle storie.
Da ciò che abbiamo detto della post-produzione, capiamo perché i Maysles abbiano voluto dare credito alla Zwerin inserendola come co-regista. I fratelli infatti non avevano che soltanto un soggetto, un’idea, persino dopo aver completato le riprese. Sei settimane di pellicola non avevano loro permesso di trovare una sola strada da seguire, ma tuttavia sentivano che attorno al personaggio di Brennan ruotava il fulcro della storia, benché non ne fossero del tutto coscienti. In una delle scene più efficaci del film, infatti, si vede Paul girare per le strade di Miami, spiegando il soprannome e la psicologia dei tre suoi colleghi. Le descrizioni di ciascuno sono inframmezzate dal montaggio delle loro attività di vendita, come se potessimo vedere in pratica ciò che egli ci sta soltanto narrando. Il discorso, essendo suggerito dai registi, è un vizio di forma, una macchia sulla “fedina” morale di “autori” di Direct Cinema. Ad ogni modo, come commentò Albert, la scena fu tra le ultime ad esser filmate, poiché si temeva che egli prendesse uso di rivolgersi a loro per chiedere consigli o suggerimenti su dove muoversi e che cosa fare. “Non è solo una brutta abitudine; una volta che inizi, non puoi più usufruire di quella persona” (23)
Altri compromessi furono necessari in modo da ottenere maggior continuità di materiale. I registi dovettero infatti tornare a Opa Locka, la strana città dalle sembianze arabe, a filmare gli strambi cartelli delle strade di Sinbad Avenue, Sharazad Boulevard e così via, da giustapporre all’incedere sperduto di Paul che ne parlerà divertito ai compagni, in una scena indispensabile, in cui iniziamo a capire il suo modo di essere venditore rispetto a quello dei suoi colleghi. Altre riprese posteriori riguardano inoltre le promenade e gli Hotel di Miami.


3. Critica e ricezione del pubblico

Eccetto questi piccoli particolari, i registi non interferirono con gli avvenimenti ripresi, né sul viaggio in Florida. La compagnia, da parte sua, non impose nessuna condizione per preservare l’immagine dell’azienda, né si lamentò dopo l’uscita del film. Una lettera della Mid-American Bible Company fece infatti le congratulazioni ai registi per “una presentazione inusitatamente buona, un bel quadro del bene e del male che c’è nell’attività dell’agente di vendita”:

“Il vostro film, THE SALESMAN, contiene un fine studio del carattere del tipo d’uomo che sembra ideale ad ogni manager durante un colloquio di lavoro, ma che proprio non dovrebbe essere assunto. […] attraverso la vostra storia, diventa ovvio ad ogni persona portata per le vendite che cosa un uomo non dovrebbe sentire o pensare, per essere di successo al lavoro. Per quanto riguarda l’intrattenimento, le casalinghe dovrebbero trovare la visione molto divertente” (24)

La lettera comprova la teoria secondo la quale il cinema dei Maysles non convoglierebbe in alcun modo nessun punto di vista. Per quanto sembri impossibile vedere in Salesman un film formativo e per quanto numerosi critici abbiano criticato in particolar modo l’ultima scena (Paul che fissa sconsolato fuori dalla finestra), interpretandola come chiave di lettura del film, Erik Barnouw ammette che “il film sollecita reazioni complesse”, mentre Stephen Mamber lo considera nel 1975 “in molti modi il prodotto più importante del filone americano del Cinéma Vérité.” Quest’ultimo critica però l’utilizzo di espedienti narrativi che servono a dare compattezza e struttura al documentario. Mamber pensa che i Maysles possedessero già abbastanza materiale da rendere il film interessante, impostando il montaggio in pura successione cronologica e non tematica. Ciò che vede come difetto, che avvicina i Maysles a quel tipo di manipolazione a cui il Cinéma Vérité americano aveva originariamente reagito contro, è la scelta di aver deciso che Paul fosse il protagonista del film, mettendolo al centro di un modello narrativo molto simile ai film di fiction. I segni dell’adozione di questo modello sono evidenti in alcuni esempi di montaggio alternato che vanno contro le logiche del Direct Cinema, come ad esempio la scena del viaggio di Paul in treno, in cui, lo ricordo, alle immagini di Paul al finestrino sono intermesse le immagini della precedente conferenza. Per Mamber essa “è usata per interpretare i probabili pensieri di Paul prima del suo arrivo, un’interpretazione sviluppata interamente attraverso il montaggio” (25)
Per il teorico del cinema il fatto che il film sia giudicato per motivi altri dall’approccio con cui è stato concepito, non giustifica il ricorso all’approccio realista. In poche parole Mamber biasima i piccoli compromessi a cui i Maysles sono pervenuti in fase di ripresa e montaggio perché sono bastati per inficiare le promesse di onestà e autenticità.
I Maysles, da parte loro, paragonano il film con “A Sangue Freddo” di Capote, giudicandolo l’equivalente cinematografico della “nonfiction novel”, perciò sorvolando sull’autorialità del lavoro, che lo rende più fruibile e più comprensibile rispetto a un film di Direct Cinema puro come Showman.
D’altra parte il documentario, il primo dei Maysles a occuparsi di persone comuni, realtà nascoste dai riflettori dei media, ha il pregio di essere strutturato in modo tale da superare ogni ragione di confronto con il modello giornalistico del newsreel, con il quale i primi esperimenti di Direct Cinema erano spesso stati fraintesi.
Salesman ricevette pareri contrastanti dalla critica, che recensì il film sui maggiori quotidiani e settimanali del paese, nonostante la scarsa distribuzione e lo scarso successo di pubblico (eccetto nei cinema d’essai e nei circoli culturali, dove registrò un’ottima viewership (26)).
Vincent Canby, per il New York Times (27), si dichiarò “incantato” dal film, affermando di averlo visto per ben tre volte. Quello che lo colpì fu “la decenza di quel punto di vista”, ossia il fatto di mostrare che per tutti (per i venditori e per le famiglie a basso reddito, così come per gli imbonitori dei meeting vendite) vi è redenzione. La “compassione” che mostrano i Maysles consiste nel non polarizzare emotivamente alcuni personaggi a scapito di altri (forse il discorso è diverso solo per Ken Turner), bensì mostrarci l’umanità nella truffa (“il toro”, “il coniglio” e “l’imbroglione” benché senza scrupoli fanno solo il loro lavoro), il truffare con umanità (Paul Brennan “il tasso”). Il giornalista, perciò, chiama “decenza di quel punto di vista”, ciò che per i Maysles consiste nel testimoniare l’autenticità dei soggetti.
Canby era però critico del fatto che i filmmaker avessero eliminato tutte le evidenze della loro presenza, cercando di nascondere il processo di produzione in un film che viene definito proprio per le caratteristiche di quel processo. Il giornalista era anche erroneamente convinto che i Maysles avessero spinto la compagnia a mandare in missione i quattro in Florida, interpretando la nota spese di 15’000 dollari che i registi versarono per contribuire al disturbo, come vitto e alloggio in quel di Miami.
Altri critici non dimostrarono le stesse opinioni nei confronti del documentario. Come sintetizza Vogels (28), questi individuarono due maggiori debolezze, paradossalmente antitetiche: la prima consisteva nella mancanza di un chiaro punto di vista, la seconda nel fatto che il film peccasse di condiscendenza e pietà nei confronti dei venditori. Ironicamente, rileggendo alcune di queste recensioni, pare che i giornalisti sostengano la filosofia dei registi, pur dichiarandosi totalmente scettici a riguardo. John Simon, del New Leader (29), si domandò come, in una tal situazione, si potesse negare un così chiaro punto di vista e come, proponendone uno, si potesse sostenere di essere imparziali. Infine come, se si fosse riusciti a essere imparziali, vi si potesse uscire senza apparire ipocriti. A mio parere, Simon non riusciva a capire che il punto di vista del film (ossia il discredito dell’industria editoriale “Cattolica”, che spaccia un business per missione evangelica) corrispondeva esattamente con il suo e per questo il film aveva raggiunto lo scopo del Direct Cinema di porre delle domande e stimolare un personale punto di vista.
Ancora, Stanley Kauffmann, del New Republic, arrivò, confuso dalla “non chiarezza”, a una sua opinione:

“[I]l punto di vista del film non è chiaro. Canzona la commercializzazione della religione? No…Accusa l’America di aver reso centrale il ruolo della vendita nella produzione? No…Attacca il vendere come corrosivo dell’individualità?

No…Da come è messo a fuoco, è il ritratto di un uomo che ha sbagliato vocazione” (30)

Altri si lamentarono che il documentario mancasse di mordente, criticando i novanta minuti del film come noiosi. Mekas e Marcorelles, due grandi sostenitori del Direct Cinema e del lavoro dei Maysles, furono di questa opinione, sebbene il secondo in particolare ammise che l’opera era la prova di un’evidente innovazione (31).
Si giunse addirittura a sostenere l’accusa di “sfruttamento” (che, come vedremo, sarà un topic molto ripreso dalla critica a Grey Gardens), dal momento che secondo alcuni giornalisti i Maysles avrebbero esposto i venditori alla pubblica gogna, complice un montaggio che suscita compassione e condiscendenza negli spettatori.
Dalla loro, i registi si discolparono attraverso le parole di Paul Brennan, che, come per gli altri tre colleghi, poté firmare la liberatoria soltanto dopo che gli fu mostrato la versione definitiva del film: “Questa è una parte di cui andrò sempre fiero” (32)
Salesman entrò nella selezione del Festival di Venezia nel 1969. Sebbene non vinse nessun premio, fu acclamato da intellettuali di alto livello.
Truman Capote dichiarò: “Salesman è un film difficile da evitare: l’originalità del suo metodo, la sua pregnanza umana e il duro umorismo, ti accompagnano dopo l’uscita dal cinema.” Arthur Miller, autore di Morte di un Commesso Viaggiatore (Death of a Salesman, 1949), ammise che il film era “[u]n’avventura nel Sogno Americano, dove la speranza è una vendita e la vendita è la conferma dell’esistenza stessa. Mi sembra che penetri nel profondo dei commessi viaggiatori, in una forma di cinema che non è mai stata usata esattamente in questa maniera.” Norman Mailer, importante giornalista e autore americano di “nonfiction novel” concordò sul fatto che quello dei Maysles fosse un film che illustrasse come pochi la vita Americana. (33)
Charlotte Zwerin, principale responsabile del montaggio e co-regista, considerò il film come “un barcollante ritratto dell’American Dream e di quel tipo di squallidi affari a cui le persone danno tutte se stesse” (34), mentre David accusò i critici che vedevano i registi come classisti, di essere loro stessi condiscendenti e di non ammettere l’esistenza di una classe medio-bassa nella popolazione americana.
Per quanto riguarda Albert (ma l’opinione è facilmente estensibile ai suoi compagni di viaggio), egli, ancora oggi, ritiene il suo primo lungometraggio la sua opera più riuscita. “Salesman rappresenta di più quello che volevamo e continuiamo a voler fare nella nostra carriera di cineasti” (35). Benché alla fine degli anni Sessanta il Direct Cinema era stato completamente assorbito da altre forme artistiche e non trovava più lo stesso fervore e stupore dei primi anni dell’esperienza Drew Associates, il film è “la prova per tutti…che puoi prendere qualcuno, nella vita di tutti i giorni, e farci un film che lo riguardi.” (36)

(1) (A cura di) A. Maysles, A Maysles Scrapbook, Steven Gashen Gallery/Steidl Publishers, Göttingen, 2007. La lettera pubblicata di seguito si trova a pagg. 166-167

(2) J. McElhaney, Albert Maysles, University Of Illinois Press, Champaign, 2009, pag. 158

(3) H. Junker, note di produzione contenute nella trascrizione dei dialoghi del film che accompagnò l’uscita nelle sale, Salesman: A Film by the Maysles Brothers and Charlotte Zwerin, Signet, New York, 1969. Il testo è stato tratto dal sito web http://www.eurekavideo.co.uk/moc/catalogue/salesman/essay

(4) Frase ripetuta più volte nel film, che assume quasi la valenza di tagline.

(5) Vedi capitolo 2.5

(6) H. Junker, Ibidem

(7) J. McElhaney, ivi, pag. 50

(8) H. Junker, ibidem

(9) Termine dispregiativo in slang americano, che indica gli italiani di prima e seconda generazione.

(10) J.B. Vogels, The direct cinema of David and Albert Maysles, Southern Illinois University Press, Carbondale, 2005, pag. 62

(11) H. Junker, ibidem

(12) I riferimenti teorici della riflessione che segue sono tratti da R. Rumiati, L. Lotto, Introduzione alla psicologia della comunicazione, il Mulino, Bologna, 2007, pagg. 93-96

(13) I riferimenti storici di questo paragrafo sono tratti da M. Floris, Il Secolo Mondo.II, il Mulino, Bologna, 2002, capitoli XXX, XXXVI

(14) Per approfondimenti, vedi M. Lombardi, Il nuovo manuale di tecniche pubblicitarie, FrancoAngeli, Milano, 2006, pagg. 21-22

(15) J. McElhaney, ivi, pag. 63

(16) J. McElhaney, ivi, pag. 61

(17) J. McElhaney, ibidem

(18) H. Junker, ibidem

(19) H. Junker, ibidem

(20) H. Junker ibidem

(21) A. Rosenthal, The New Documentary in Action – Casebook in Film Making, University of California Press, Berkeley, 1971, pag. 86

(22) H. Junker, ibidem

(23) H. Junker, ibidem

(24) Pubblicata in (A cura di) A. Maysles, ivi, pag. 191

(25) S. Mamber, Cinema Verite in America, The MIT Press, Cambridge, 1974, pagg. 167-168

(26) J.B. Vogels, ivi, pag. 95

(27) V. Canby, “And Now, the ‘Spontaneous’ Film”, The New York Times, 4 Settembre 1968

(28) J.B. Vogels, ivi, pag. 69

(29) J.B. Vogels, ibidem

(30) Stanley Kauffmann, “Salesman”, New Republic, 5 Aprile 1969, pagg. 32-33 in J.B. Vogels, ibidem

(31) Riportato in J. McElhaney, ivi, pag. 34

(32) H. Junker, ibidem

(33) I commenti di Capote, Miller e Mailer sono stati tratti da un manifesto pubblicitario per Salesman, pubblicato in A Maysles Scrapbook, (a cura di) Albert Maysles, pag. 189

(34) A. Rosenthal, The New Documentary in Action, University of California Press, Berkeley, 1971, pag. 87

(35) C. Pryluck, “Seeking to Take the Longest Journey: A Conversation with Albert Maysles”, Journal of the University Film Association, XXVIII, 2, Spring 1976, pag. 15

(36) C. Pryluck, ibidem



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