BLOW OUT
IL CAPOLAVORO DI BRIAN DE PALMA COMPIE TRENT’ANNI
CHE “BLOW OUT” DI BRIAN DE PALMA AVESSE TOCCATO, AL MOMENTO DELLA SUA USCITA NELLE SALE, UN NERVO SCOPERTO DEGLI STATI UNITI D’AMERICA SEMBRA ESSERE L’UNICO MOTIVO CHE POSSA GIUSTIFICARE IL SUO INSUCCESSO COMMERCIALE. E QUALE POSSA ESSERE IL NERVO SCOPERTO NON E’ DIFFICILE DA CAPIRE: LONTANO MA NON TROPPO DA EVENTI OGGETTO DI NUMEROSE TESI SPECULATIVE COME L’OMICIDIO KENNEDY O IL MENO MISTERIOSO MA ALTRETTANTO DESTABILIZZANTE SCANDALO WATERGATE, “BLOW OUT” SMONTA UNO TRA I MECCANISMI COMPORTAMENTALI PIU’ COLLAUDATI DELLA CRONACA E DELLA STORIA RECENTE: LO SMINUIMENTO E LA CLASSIFICAZIONE QUALE “MANIACO DELLA COSPIRAZIONE” DI CHIUNQUE NON SI ACCONTENTI DELLA VERSIONE UFFICIALE FORNITA DAI MEZZI D’INFORMAZIONE, NON DI RADO AL GUINZAGLIO DI POTENTATI POLITICI E FINANZIARI.
Quando “Blow Out” giunge nelle sale nel luglio del 1981, Ronald Reagan ha iniziato da pochi mesi il suo primo mandato presidenziale inaugurando, di fatto, l’epoca del neoliberismo, che ai suoi albori illuderà molti con la prospettiva di un illimitato periodo di prosperità generale e di cui invece sarà presto impossibile non notare i nefasti effetti. È un periodo di euforia, che porterà molti a desiderare di voltare pagina, rimuovendo i lati oscuri del recente passato. Un periodo di euforia appena appannato, nel marzo dello stesso anno, da John Hinckley, Jr. che spara, ferendolo soltanto, al neopresidente per ottenere l’attenzione dell’attrice Jodie Foster. Un delicato intervento chirurgico, due settimane di degenza e il Presidente sarà pronto ad essere accolto dai suoi connazionali come un miracolato e come simbolo ancora più forte di speranza.
Giusto tre mesi dopo, il film di De Palma è nelle sale.
Il momento più sbagliato, secondo molti, quello più giusto per pochi, illuminati, altri.
Questo potrebbe spiegare il motivo per cui il thriller cospirazionista di De Palma venne rigettato dal pubblico, evento apparentemente inspiegabile per il regista che, appena quarantenne, ha già conosciuto solidi riscontri, anche commerciali, grazie a titoli come “Sisters” (“Le due sorelle”, 1973), “Carrie” (“Carrie, lo sguardo di Satana”, 1976) e “Dressed to Kill” (“Vestito per uccidere”, 1980).
Ma, come vedremo, il regista stesso ha un’altra teoria in merito.
In “Blow Out” ad assumersi il ruolo di colui che non crede alla prima versione ufficiale fornita dalle autorità è Jack Terry, rumorista impegnato nella sonorizzazione di film horror di serie B presso uno studio cinematografico di Philadelphia. Rumorista nel senso classico del termine, dal momento che, ancora lontana l’effettistica digitale, ha una sua banca di suoni e rumori registrati analogicamente. Ed è durante una sessione di registrazione notturna in un bosco che assiste a quello che a una prima occhiata pare essere un incidente automobilistico, vittima un popolare governatore prossimo alla candidatura alla presidenza degli Stati Uniti. Jack si precipita in acqua, dove l’automobile si sta inabissando, giusto in tempo per salvare la ragazza che si trova sul sedile a fianco del politico ormai morto. Ciò che segue è una serie di pressioni perché Terry taccia sull’evento cui ha assistito per evitare uno scandalo che infanghi la memoria del deceduto, dal momento che la ragazza che si trovava al suo fianco è una prostituta. Fino a qui tutto ciò che ci si può aspettare da un incidente che abbia come vittima una personalità tanto in vista. Ma è ciò che accade poco dopo a dare motivazione a tutta la storia: Jack, riascoltando la registrazione effettuata quella notte, scopre che l’incidente potrebbe essere stato causato dallo scoppio di una gomma provocato da alcuni colpi di fucile, il cui suono è rimasto impresso sul nastro. Mentre avvia contro tutti un’indagine personale, sui suoi passi si mette un killer intento ad evitare che possa condividere la sua scoperta.
Prendendo spunto, ma solo a livello formale, da “Blow Up” di Michelangelo Antonioni (dove era un fotografo ad essere convinto di avere immortalato casualmente la prova di un omicidio. Tra l’altro il film di Antonioni era stato fatto oggetto di omaggio da De Palma in una scena di “Greetings” – “Ciao America” del 1968) per poi allontanarsene immediatamente – il paragone rimane limitato al dettaglio nascosto in secondo piano che diventa fondamentale nello sviluppo della storia – De Palma sceglie un registro amaro per la vicenda, cui non concede nemmeno il sollievo del lieto fine.
Ancor più che dal film di Antonioni, però, l’ispirazione per l’incidente che dà il via alla storia pare venire da quello reale occorso nel luglio del 1969 a Ted Kennedy sull’isola di Chappaquiduick, dove era in corso una festa privata, ospiti alcune donne che avevano lavorato alla campagna presidenziale di suo fratello Robert l’anno precedente. Lasciata la festa, l’allora senatore esce di strada con la sua automobile che finisce capovolta in un canale. Lui si salva, la sua compagna di viaggio, Mary Jo Kopechne, una delle ragazze presenti alla festa, verrà trovata morta annegata nell’abitacolo dell’auto il mattino seguente. Si scoprirà che Kennedy, anziché chiedere soccorso, la sera prima aveva fatto ritorno a piedi al luogo della festa per parlare con il suo avvocato. Accusato di omissione di soccorso, verrà condannato a una pena carceraria di due mesi, poi sospesa senza che esistessero i presupposti di legge per farlo.
Jack «Terry: I’m trying to save our asses!»
Sally: «I’ll look after my OWN ass, thank you!»
Mentre nella progressione della storia tutti sembrano preferire una soluzione falsa quanto accomodante e soprattutto rapida, il cui scopo dichiarato è unicamente quello di salvaguardare la memoria morale del politico, Terry prosegue con puntiglio la sua ricerca della verità (o forse anche di un riscatto da una carriera che lo costringe alla mediocrità), mentre Sally, la ragazza sopravvissuta, pare più interessata a salvaguardare la sua pelle. Non ha torto: sin dall’inizio del film – quando dichiara di non seguire l’attualità attraverso giornali o televisione in quanto deprimente – appare come una mera pedina nelle mani di molti. Dapprima di chi l’ha assoldata per montare uno scandalo politico, quindi di chi vuole farla tacere e infine ancora di più di Jack, che arriva a impedirle di lasciare Philadelphia, come invece vorrebbe lei, per farsi aiutare nel dimostrare la sua tesi.
Inutile precisare che la sua scarsissima autonomia non le porterà bene.
Il suo personaggio offre più di uno spunto di discussione: come un simbolo del distacco dell’Americano medio dalla politica, innazitutto. La frase da lei pronunciata e citata qui sopra lo confermerebbe. Quando poi, suo malgrado, si trova coinvolta nel complotto, la sua vita è immediatamente in pericolo. Potrebbe però rappresentare un simbolo ancora più forte nel momento in cui,optando di farsi coinvolgere nella ricerca della verità in un caso politico complesso, viene brutalmente spazzata via come a suggerire una totale disillusione nei meccanismi democratici del Paese.
Jack Terry: «Jesus, that’s terrible»
Mixer: «That’s a terrible scream. Jack, what cat did you have to strangle to get that?»
Jack Terry: «The one you hired. That’s her scream».
Mixer: «You mean you didn’t dub that?»
Nel suo mescolare cultura alta e pop, cosa in cui De Palma è molto abile, “Blow Out” si apre con le scene di un finto film, che Travolta deve sonorizzare: un horror di serie B di quelli molto in voga tra la fine degli anni ’70 e inizio ‘80’, con il sesso a fare da catalizzatore della violenza del maniaco di turno, quasi intercambiabile da film a film nell’aspetto e nel modus operandi. Poco dopo scopriamo che si tratta di una proiezione interna alla produzione e Travolta viene rimproverato per avere riciclato dei suoni già usati in precedenza. De Palma dichiara che la scena nasce da una discussione avvenuta sul set del suo “Dressed to Kill” in cui il responsabile del suono voleva usare un effetto già sfruttato in precedenza, che il regista non ha voluto.
L’atmosfera giocosa creata dal prologo termina qui per non fare nemmeno più capolino nel corso del film.
Ma De Palma, che torna sul tema del voyeurismo già esplorato in precedenza qui traslato dall’occhio all’orecchio, non rinuncia a giocare su più piani, tra citazioni cinematografiche (molto Hitchcock, come da tradizione, con la scena della doccia di “Psycho” ricordata nel finto film che Jack deve sonorizzare, scene di violenza che si svolgono in pubblico tra la gente incurante, un lungo inseguimento nel corso di una festa come accadeva nel finale di “Strangers on a Train”). Cita anche sé stesso, da “Sisters” a “Carrie”, da “The Fury” a “Dressed to Kill” (in cui la scena di una donna sotto la doccia – metacinema come per “Blow Out” – aveva scopo ed effetto ben diverso), e anche da “Greetings” del 1968, dove alcuni temi qui presenti erano usati in chiave satirica. Restituisce però sempre e comunque un risultato decisamente originale e estremamente personale.
Non solo: De Palma dirige sempre lo sguardo dello spettatore e lo rende partecipe visivamente in prima persona della caduta nella paranoia del protagonista. Spesso, inoltre, le riprese trasformano lo spettatore in spia di ciò che accade a Jack, che in una scena viene ripreso dalla strada attraverso una finestra, esattamente come le ragazze delle sequenze iniziali vengono viste dal maniaco. C’è anche un ricorso allo split-screen – già molto presente in “Dressed To Kill” – che spesso gli serve per fare mettere a confronto dallo spettatore la finzione (una notizia data dal telegiornale, per esempio, da un televisore in primo piano sulla destra della scena) con la realtà (Jack che, nello stesso momento e sulla sinistra dello schermo, sta montando alcuni suoni ed etichettando i nastri). Realizza anche una sequenza di grandissimo effetto in cui la camera riprende circolarmente il laboratorio di Travolta, nel momento in cui scopre che i suoi nastri sono stati tutti cancellati,riproducendo proprio il movimenti circolare dei nastri. Un uso della ripresa circolare già presente in “Obsession” (“Complesso di colpa”, 1976).
Jack Terry: «No one wants to know about conspiracy any more!»
Di più ancora, De Palma usa tutti gli elementi che mette in gioco nella sua storia per togliere un velo all’America di quel tempo, permeata da un ottimismo privo di solide basi e fatto di tanta rimozione. La parte finale della storia si svolge nel corso di una ricorrenza, quella del suono della Liberty Bell (Campana della libertà), i cui rintocchi, l’8 luglio del 1776, chiamarono a raccolta i cittadini di Philadelphia per la lettura della Dichiarazione d’indipendenza. Non è certo un caso che questa parte della vicenda sfrutti un simbolo di questo peso. Infatti, lungo la storia, i simboli nazionalisti sono spesso piazzati laddove accade qualcosa di negativo: da Jack che sfonda con l’auto una vetrina che espone una ricostruzione patriottica (con tanto di impiccagione), al più tragico finale, in un’esultanza di bandiere e sentimenti campanilistici. Questo per non citare l’assassino incaricato di uccidere Sally, che porta sul bavero una spilla del Giubileo in corso che reca ben visibile la scritta “I love liberty”.
Il regista sfrutta anche una ricchezza visiva e sonora costante. Basti pensare al finale: mentre i fuochi d’artificio esplodono in un tripudio di colore e suono, la stupenda fotografia di Vilmos Zsigmond (ottimo direttore della fotografia, già con De Palma per “Obsession”) restituisce un’immagine morbida ma sempre cupa, con una forte prevalenza di colori primari (soprattutto blu e rosso, i colori della bandiera statunitense), contribuendo a instillare inquietudine nello spettatore così come il suono, reso costantemente pieno, quasi saturo, da sirene, fuochi artificiali, musica e rumoreggiare della folla.
Inoltre, poco prima, il viaggio di Jack in auto per raggiungere Sally è largamente ostacolato dal corteo patriottico, come a suggerire che i simboli tradizionalisti contribuiscono, o comunque servono spesso, a nascondere la verità. Il fatto che il finale si svolga sullo sfondo della bandiera a stelle e strisce toglie poi qualsiasi eventuale dubbio sull’intento del regista.
Jean-Luc Godard: «Le cinéma c’est la vérité 24 fois par seconde»
Brian De Palma: «The camera lies 24 times per second»
Ma è il discorso approfondito su cinema e finzione, sul potenziale di manipolazione che può colpire suono e immagine a farla da padrone in “Blow Out”. A dimostrarlo efficacemente, la scena in cui Jack monta su pellicola le immagini dell’incidente pubblicate da una rivista popolare da lui ritagliate e poste in sequenza. Quando il video viene montato con il suono registrato la notte dell’incidente, fornendogli l’evidenza di quanto realmente accaduto, il senso del suo lavoro trova la sua forma più compiuta: il suono, privo delle immagini, non ha alcun potere e lo stesso si può dire delle immagini private di suono. Il discorso vale anche al contrario, però: se nel caso appena descritto la combinazione tra suono e immagine restituisce la realtà di quanto accaduto, la combinazione di un suono reale con un’immagine cinematografica può restituire il verosimile, come accade nel cinico finale in cui l’urlo – reale – di Sally serve a doppiare quello di un’attricetta quasi afona nella scena della doccia vista a inizio film. Un momento agghiacciante che non fa che esaltare la sensazione di inquietudine che lascia il film alla sua conclusione.
Il regista ritiene che sia proprio il finale per nulla consolatorio, divulgato via passaparola al momento della sua presenza nelle sale, ad avere determinato l’insuccesso commerciale del film.
Non esiste nel film un solo personaggio positivo, nemmeno quello di Jack, che nella sua personale ricerca della verità non risparmia nessuno in quanto a esposizione a rischi.
Di John Travolta, che con De Palma aveva già lavorato in “Carrie”, si può dire che qui abbia il ruolo migliore della sua carriera (unitamente a quelli interpretati in “Saturday Night Fever” e “Pulp Fiction”) e che riesca a svolgerlo nel migliore dei modi, facendo sfoggio di una notevole capacità di usare i tempi. È anche il ruolo che gli permette di smettere una volta per tutte i panni dell’eterno ragazzo di Brooklyn, come nemmeno “Urban Cowboy” era riuscito a fare l’anno prima. Da qui la sua carriera proseguirà con qualche buon ruolo e troppe scelte professionali inspiegabili. Nancy Allen, al tempo moglie di De Palma e spesso attrice nei suoi film, dimostra qui di essere stata un’attrice profondamente sottovalutata nella sua carriera. Nel ruolo della svagata Sally, riesce a portare al personaggio più di una sfaccettatura che gli permette di non scivolare mai nel luogo comune. Il volto dello spietato omicida incaricato di rimettere tutti frammenti della storia al giusto posto (ossia all’obitorio) non mancando di seminare morti casuali tanto per confondere le acque è invece quello dello strepitoso John Lithgow, già con De Palma in “Obsession”. Appare anche Dennis Franz (il detective Marino di “Dressed to Kill” e già presente in “The Fury” e “Body Double” – “Omicidio a luci rosse”, 1984).
Oggi che, dopo lo scandalo sessuale che ha coinvolto Bill Clinton a fine anni ’90 e ancora di più i fatti dell’11 settembre 2001 (con l’ausilio della moltiplicazione delle fonti indipendenti di informazione), la dietrologia ha conosciuto un nuovo notevole incremento, non sempre a torto, “Blow Out” dimostra tutta la sua attualità. Non solo è in assoluto uno tra i titoli migliori di uno tra i più eminenti autori della sua generazione ma rappresenta ancora, a esattamente trent’anni dalla sua uscita, una visione estremamente interessante e godibile nonché un esempio illuminante di una carriera che tra i molti alti e qualche basso, merita maggiore considerazione.
Ma è soprattutto un film indiscutibilmente straordinario fatto da persone che,ognuna nel suo specifico ruolo, appaiono costantemente tese a dare del proprio meglio.
◆ Roberto Rippa
CURIOSITA’
• Mentre il film era già in fase di montaggio, due rulli contenenti le riprese effettuate durante la parata della Liberty Bell vennero rubati nel corso del trasporto da New York a Los Angeles. Le scene vennero rigirate grazie ai soldi dell’assicurazione ma vennero fotografate da László Kovács in quanto Zsigmond non era disponibile in quel momento.
• In una scena del film a casa di Dennis Franz, lo schermo del televisore rimanda le immagini di un film. Si tratta di “Murder à la Mod”, primo lungometraggio del regista, girato nel 1968.
• Nei corridoi e nella sala d’aspetto della casa di produzione per cui lavora Travolta giganteggiano, tra gli altri, i manifesti di “Lure of the Triangle”di Phillip Ronald (1977), “Empire of the Ants” (“L’impero delle termiti giganti”, 1977) e “The Food of the Gods” (“Il cibo degli dei”, 1977), entrambi di Bert I. Gordon, “Squirm” (“I carnivori venuti dalla Savana“, 1976) di Jeff Lieberman e “Without Warning”, 1980, di Greydon Clark.
• Nancy Allen, allora moglie di De Palma, conosciuto durante la lavorazione di “Carrie”, aveva già lavorato con lui anche in “Home Movies” e “Dressed to Kill”. Per evitare che si pensasse che lavorava solo nei film da lui diretti, De Palma aveva intenzione di usare un’altra attrice. Fu Travolta, che la conosceva dai tempi di “Carrie”, a insistere perché il ruolo di Sally venisse attribuito a lei.
DVD
Il film è disponibile in tutta Europa, Italia compresa, in un’edizione non eccelsa pubblicata anni fa da MGM. Negli Stati Uniti è invece disponibile presso Criterion che l’ha pubblicato, dopo averlo restaurato, nell’aprile di quest’anno, anche in Blu-ray. Tra gli extra proposti, un’intervista a Brian De Palma realizzata dal regista Noah Baumbach, una realizzata appositamente con Nancy Allen, e una terza all’operatore steadycam Garrett Brown. Inoltre, una galleria fotografica e, soprattutto, il primo lungometraggio di De Palma, “Murder à la Mod” del 1968, fino ad oggi disponibile in DVD solo presso Something Weird. Il libretto allegato contiene inoltre un saggio di Michael Sragow e la recensione originale di Pauline Kael pubblicata dal New Yorker.
Blow Out: The Criterion Collection
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Blow Out
Regia, soggetto, sceneggiatura: Brian De Palma; Fotografia: Vilmos Zsigmond; Montaggio: Paul Hirsch; Musiche originali: Pino Donaggio; Interpreti principali: John Travolta, Nancy Allen, John Lithgow, Dennis Franz, Peter Boyden, Curt May, John Aquino, John McMartin, Deborah Everton; Produzione: Cinema 77, Geria Productions, Filmways; Paese: USA: Anno: 1981, Durata: 107’
Il presente articolo è stato pubblicato su Rapporto Confidenziale numero33 (giugno 2011), pagg. 06-10
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